Altre citazioni da “Il manicomio chimico”

Ho finito di leggere Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano. Metto qui alcuni dei passaggi che mi hanno colpito di più o che ho trovato più importanti.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!


Gino Fornace, altro uditore di voci, che doveva essere presente ma non ha potuto venire, e però lo stesso vuole raccontare la sua storia. Descrive, per mezzo della voce di questa ragazza, la sua esperienza con i farmaci antipsicotici. Dice: «All’inizio sedano soltanto. Poi rallentano la velocità dei pensieri, poi rendono incapaci di analizzarli, infine scompaiono le voci. E scompare l’idea (delirante) che tutto intorno sia riferito a me stesso. Questo accade nel corso di alcuni mesi. Ed è il periodo più duro. Quel che resta è un senso di vuoto e di fallimento. In un anno o due torno normale. L’effetto antipsicotico inizia dopo due o tre mesi, ma torno a ragionare come prima dopo un anno o due. Però, aggiunge, li ho sospesi tre volte in dieci anni, gli antipsicotici. Per motivi fisici: è come avere la sabbia nel cervello che t’inceppa i ragionamenti. Prima, nella fase psicotica, penso troppo e male, dopo però non riesco proprio a pensare. Sento sempre il bisogno di dormire. Sento che il mio corpo è diventato inabitabile. Sono costretto a muovermi di continuo (è l’acatisia). Gli antipsicotici ti fanno venire tanta fame, e ti fanno ingrassare, la libido sparisce, la vita sessuale diventa un ricordo. Il corpo e la mente, che con la psicosi sente di avere un motivo per esistere, con i farmaci non prova più niente. E li ho sospesi per ragioni psicologiche: la mia follia è un tentativo di andarmene dalla realtà. Ero diventato uno scienziato da premio Nobel, ero conosciuto in tutta la galassia, avrei costruito una nave spaziale capace di portare gli anarchici in tutto l’universo (tipo Miracolo a Milano di De Sica). Ho sospeso i farmaci perché avevo voglia di tornare nella follia».

«Però, voglio dirlo chiaro: sospendere bruscamente gli antipsicotici è pericoloso. Perché compaiono sintomi peggiori. Passa l’acatisia. Ma tornano, tutte insieme, le emozioni. E torna la libido. Ma le emozioni sono eccessive. E il pensiero si accelera troppo. Ricominciano le credenze bizzarre. Si riduce sempre di più la capacità di critica. Parte il delirio, che è la continuazione del sogno a occhi aperti. In tre-quattro mesi, quando anche i farmaci depositati nel corpo (nei tessuti lipidici) sono stati smaltiti, tornano pure le allucinazioni. In un anno il contatto con la realtà è di nuovo perso, e con esso pure la capacità empatica con gli altri. Ricomincia la collisione con la società, con gli psichiatri, con le forze dell’ordine. Per cui mi sento di dire che gli antipsicotici, o neurolettici, come volete chiamarli, una volta presi vanno sospesi con lentezza, mai bruscamente. Per questo l’OMS consiglia di somministrare gli antipsicotici in dosi basse e solo nelle fasi acute. Invece gli psichiatri italiani (come tutti gli psichiatri occidentali) considerano la follia genetica e i farmaci da somministrare a vita. Io tra la somministrazione per bocca e quella depot preferisco quella per bocca, insieme a un po’ di psicoterapia una o due volte a settimana. Ciò consente bassi dosaggi di antipsicotici. Invece il depot non consente la modulazione della terapia. È comodo solo per la tranquillità del dottore. Inoltre, dopo l’iniezione del depot, si è più sedati, e vicino alla scadenza si è quasi scoperti. Purtroppo, però, gli psichiatri preferiscono il depot mensile senza nessuna psicoterapia. Ciò porta inevitabilmente alla cronicizzazione. Molti psichiatri hanno questo delirio di onnipotenza di voler regolare la biochimica cerebrale. Per cui un paziente si trova a prendere come minimo quattro farmaci al giorno: un antipsicotico, una benzodiazepina, uno stabilizzatore dell’umore e un antiparkinsoniano. (Quando gli va bene, se gli va male a questi si aggiungono un antidepressivo, un secondo antipsicotico, un anti-ipertensivo, un anticolesterolo e un antidiabetico, per contrastare gli effetti collaterali dei primi farmaci). Questo, secondo me, è un delirio della modernità. Io, Gino Fornace, non voglio essere una farmacia ambulante. Perché? Per tutto quello che ho detto e perché i malati psichiatrici vivono venticinque anni di meno rispetto alla popolazione non psichiatrica. E se mi posso permettere, avrei una raccomandazione da fare agli psichiatri: abbandonate la vostra visione organicista, secondo cui il male mentale è genetico e dunque la terapia farmacologica deve essere presa per tutta la vita. Ciò aiuta solo gli psichiatri a dormire sonni tranquilli. Ciò toglie ogni speranza di guarigione. Rinunciate a voler modulare tutte le manifestazioni psichiche dei vostri pazienti con i troppi farmaci. Lo yoga ha effetti benefìci sulla mente umana, ma non fa profitto (come la corsa, il nuoto, la bicicletta, le passeggiate, eccetera). Il delirio è un sogno a occhi aperti. Lo psichiatra è un po’ carceriere e un po’ terapeuta. Però non si può guarire con la forza della coercizione. La contenzione non è terapeutica. La comprensione è terapeutica. La libertà è terapeutica».


Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali, dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.


Un altro fondamentale studio, riportato nel prezioso libro di Whitaker, è quello di Martin Harrow. Harrow reclutò (che brutta parola, mi è sfuggita, purtroppo è l’espressione che si adopera per i pazienti che entrano a far parte di uno studio, in alternativa ne adoperano un’altra, parimenti inquietante: arruolare), tra il 1975 e il 1983, sessantaquattro giovani con diagnosi di schizofrenia. Nel 2007 pubblicò un articolo in cui illustrava gli esiti a quindici anni (così si fanno gli studi, altro che a sei, dodici, diciotto settimane, come fa comodo alle case farmaceutiche). Tralascio gli step a due, quattro, e anni successivi. Dico solo che al quindicesimo anno il 40% dei pazienti non trattati farmacologicamente era guarito e il 50% lavorava, mentre dei pazienti trattati con i farmaci il 5% era guarito e il 64% aveva ancora una sintomatologia psicotica.

Per concludere questa prima parte, Whitaker riassume i dati USA. Nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia, che significa 1 americano ogni 617 abitanti. Nel 2010, invece, esistevano quasi 2.500.000 persone con questa diagnosi. 1 americano ogni 125 abitanti.


I progetti Soteria li ha mai sentiti, dottore? Un progetto in Lapponia occidentale l’ha mai sentito, dottore?

Aspetti, gli dico, Soteria, Mosher, certo che sì, pure Luc Ciompi a Berna ha un progetto Soteria, ma della Lapponia, a dire il vero, non ne so niente.

Anche quello lo trova in internet. Ma glielo riassumo. In Lapponia occidentale ci sono più o meno settantamila abitanti. A partire dagli anni Settanta un gruppo di psichiatri ha iniziato un tipo di trattamento per le persone che hanno un primo episodio di psicosi, un trattamento basato sulla terapia familiare invece che sui farmaci. E con questo nuovo approccio gli esiti dei pazienti psicotici, negli anni Settanta e Ottanta, sono migliorati nettamente.

Dove questo?

A Tornio, si chiama così la città. Ovviamente, solo lì il gruppo di psichiatri ha adottato questo tipo di terapia, nel resto della Finlandia, invece, operano come in tutto il mondo occidentale, farmaci e reparti chiusi.

E in cosa consiste, di preciso, questa terapia familiare?

Tutti gli operatori della Lapponia svolgono una formazione familiare. E quando capita un nuovo episodio di psicosi, entro ventiquattrore dalla chiamata vanno a casa del paziente. Non come qui, che ho dovuto portare mio figlio in pronto soccorso, e stavamo in piedi a parlare in una stanza squallida senza suppellettili. Loro visitano a casa. Parenti e amici sono inclusi, come fossero operatori pure loro.

Lui parla e io penso che questa cosa assomiglia molto alla seduta etnopsichiatrica che fanno al Devereux, un parlamento democratico, altro che il nostro setting terapeutico mutuato dal confessionale cattolico, o dall’interrogatorio poliziesco: giudice-psichiatra contro paziente-inquisito.

Dice: però gli operatori che vanno a casa del paziente non si considerano i padroni, gli sceriffi, come fanno qui da noi, che arrivano con pompieri, carabinieri e forze armate e sfondano la porta e prendono il paziente per i capelli e lo trascinano fuori. Non mi guardi così. Lei lo sa che non sto esagerando. Come vogliamo la collaborazione dei pazienti se l’intervento a domicilio è una specie di dichiarazione di guerra? Lì no, se il paziente in crisi si agita e si chiude dentro una stanza, non lo si aggredisce, gli si chiede solo di lasciare la porta aperta. Perché loro considerano che una crisi non è per forza violenta. E io credo che molte reazioni violente dei pazienti siano una risposta alla dichiarazione di guerra della psichiatria.

Non mi sbilancio ad annuire, ma lui, “Philip Dick”, lo sa che sono d’accordo.

Dice: nei primi incontri non prescrivono subito i farmaci, come hanno insegnato a voialtri, solo, talvolta, un sonnifero, un po’ di antipsicotico, che sospendono dopo pochi mesi, appena passata la crisi, altro che antipsicotici a vita, come fate voi! E con questo modello d’intervento hanno tassi di guarigione altissimi, quasi il 90%. E i costi sono notevolmente diminuiti. Mi creda, in questa regione, dove c’è un bassissimo uso di antipsicotici, i casi di psicosi si stanno riducendo drasticamente.


L’antidepressivo se lo sta prendendo chi è seduto accanto a te ora in treno e non ce la fa più a svegliarsi tutte le mattine per andare a lavorare in una stireria per dieci ore al giorno a quattro euro l’ora, e quella volta che ebbe uno svenimento mentre stirava e andò in pronto soccorso, il medico di guardia che sembrava uno psichiatra gliela prescrisse, perché mica poteva permettersi di fare una psicoterapia una volta a settimana per minimo ottanta euro a seduta lei che ne guadagna quaranta al giorno, e sono tre anni che se la prende, questa dannata pasticca antidepressiva, e pare che le fa bene, l’energia per stirare ora ce l’ha, anche se ogni tanto la tristezza ritorna, perché stirare dieci ore al giorno senza svago la rende una donna davvero inutile. La stessa pillola la ingoia giorno dopo giorno l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa, perché deve fare gli straordinari senza sentire i crampi alla cervicale o i dolori muscolari alle gambe, che dicono si chiami fibromialgia, ed è una forma di depressione mascherata, così dicono, e perciò si cura con gli antidepressivi, e prende proprio la stessa pasticca della stiratrice che trasporta tutti i giorni, però lui se ne prende due al giorno, andata e ritorno. Fa uso di antidepressivi, ansiolitici, antipsicotici o stabilizzatori dell’umore chi ti è più vicino, credimi. Se non è tuo padre (benzodiazepina per dormire la sera), o tua madre (benzodiazepina per il giorno a causa dell’ansia generalizzata), se non è tuo fratello (iniziò con la cocaina, diventò euforico, gli diedero uno stabilizzatore dell’umore, ma non bastò e si depresse, allora gli aggiunsero un antidepressivo, ma con quello si eccitò di nuovo manco fosse cocaina, e diventò megalomane e coi pensieri psicotici grandiosi e allora gli diedero un antipsicotico, ma con quello ingrassò e diventò diabetico e cardiopatico, e ora prende l’antidiabetico e l’anti-ipertensivo), allora è tuo figlio, che a scuola era un casinaro, allora la maestra vi consigliò la neuropsichiatra infantile, una sua carissima amica, e quella disse che la colpa non era né dei maestri né dei genitori, ma di una malattia che si chiamava ADHD, e che bastava prendere un’anfetamina che si calmava. Se non è tuo figlio (che non riconosci più, pare un morto di sonno, adesso), è il tuo capoufficio (un iracondo, troppa cocaina, ma pure antidepressivi e stabilizzatori del tono dell’umore, che non gli si stabilizza perché lui continua a farsi la cocaina), o la sua segretaria, che prende benzodiazepine però solo di sabato sera per spegnersi e dormire, dopo che è tornata a casa e ha tirato un po’ di coca con gli amici per divertirsi. Se non è il tuo capo, è sua moglie, che si prende le benzodiazepine e gli antidepressivi per sopportare il suo destino di donna tradita. Se non è sua moglie, è la sua amante, a cui lui regala la cocaina al posto degli orecchini, ma lei preferirebbe gli orecchini, e perciò si prende gli antidepressivi, perché ha un amico psichiatra che le ha detto che gli antidepressivi possono farle smettere la cocaina. Se non sono loro, è il camionista, che fa arrivare tonnellate di caffè nei bar della tua città e non riuscirebbe a reggere tutte quelle ore di autostrada senza coca e quando arriva a casa e deve dormire non riesce a spegnersi per quanta coca e caffè s’è fatto, allora si scola una boccetta intera di Valium. Se non è lui, è l’infermiera che ora sta cambiando il catetere di tuo nonno (nonno che prende l’antipsicotico per farlo stare buono e tranquillo nella sua agitata demenza), e l’antidepressivo le fa sembrare questo lavoro più leggero, persino le notti. Se non è lei, è rimbianchino che sta ritinteggiando la stanza della tua ragazza (che prendeva uno stabilizzatore dell’umore perché è troppo impulsiva, e a volte si taglia, altre volte si lascia andare a rapporti occasionali, però ora prende pure l’antidepressivo perché ogni tanto si abbuffa e poi vomita, e allora con questo farmaco sente meno i morsi della fame), che ha iniziato perché sentiva le voci, e al Centro di Salute Mentale gli hanno dato un neurolettico di vecchia generazione, ma siccome si irrigidiva e non riusciva a pittare sciolto, gliel’hanno levato e gli hanno dato un nuovo antipsicotico atipico, che lo rende più tranquillo, però ogni tanto le voci le sente ancora, e infatti se ci fai caso, mentre pitta la stanza della tua ragazza, ogni tanto si ferma e ascolta. Chi usa i cosiddetti psicofarmaci è lì con te.

Altro che cocaina, il vero affare sono gli psicofarmaci.

Il manicomio chimico

Sto leggendo questo libro, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano, psichiatra da vent’anni, che fa una critica documentatissima e allarmante dell’approccio psichiatrico attuale di gran lunga più diffuso in occidente; voglio condividerne alcune citazioni.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) [come la sertralina che prendo io, tra gli altri farmaci], un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici [io prendo l’aripiprazolo] Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!

Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali [quelli che servono per pensare], dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.

E va be’ ma insomma cosa propone in alternativa Cipriano?

Io, che ho cominciato da psicofarmacologo, mi trovo a scrivere questo piccolo, miserrimo compendio, in cui dico, in sintesi, usiamoli, gli psicofarmaci, non dico di no, ma con parsimonia, e solo nelle condizioni gravi, e sospendiamoli appena è possibile»

È quello che fanno in Finlandia, solo che lì tutto l’approccio al malessere psichico è tanto più serio: all’oculatezza nell’uso dei farmaci si accompagna un modello di intervento che ospedalizza il meno possibile, che coinvolge la rete sociale di chi sta peggio e affronta e cerca di fare emergere il non detto emotivo nelle relazioni, e – numeri alla mano – guarisce o migliora le condizioni di salute tanto, tantissimo di più dell’approccio “nostro” (vedi questo articolo per esempio).