Il manicomio chimico

Sto leggendo questo libro, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano, psichiatra da vent’anni, che fa una critica documentatissima e allarmante dell’approccio psichiatrico attuale di gran lunga più diffuso in occidente; voglio condividerne alcune citazioni.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) [come la sertralina che prendo io, tra gli altri farmaci], un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici [io prendo l’aripiprazolo] Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!

Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali [quelli che servono per pensare], dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.

E va be’ ma insomma cosa propone in alternativa Cipriano?

Io, che ho cominciato da psicofarmacologo, mi trovo a scrivere questo piccolo, miserrimo compendio, in cui dico, in sintesi, usiamoli, gli psicofarmaci, non dico di no, ma con parsimonia, e solo nelle condizioni gravi, e sospendiamoli appena è possibile»

È quello che fanno in Finlandia, solo che lì tutto l’approccio al malessere psichico è tanto più serio: all’oculatezza nell’uso dei farmaci si accompagna un modello di intervento che ospedalizza il meno possibile, che coinvolge la rete sociale di chi sta peggio e affronta e cerca di fare emergere il non detto emotivo nelle relazioni, e – numeri alla mano – guarisce o migliora le condizioni di salute tanto, tantissimo di più dell’approccio “nostro” (vedi questo articolo per esempio).

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