The problem with libertarian and egalitarian education at the present time

The problem with libertarian and egalitarian education, at the present time, is that the more we adopt an education in which rules are established with children, as they begin to understand the language, and always remain open to being improved and modified, which is necessary and foundational for a wider education to sharing, the more likely it is that children, once they become adults, will have difficulty adjusting to this ultra-hierarchical present, in which social justice is only a verbal expression with such a small correspondence to reality, and that is currently decimating and would possibly extinguish our species and so many others.

But i think it would be worth it all the same, if we made children aware early enough that, at the present time, the adult world is mostly like that; and, above all, if we organized ourselves, for this and so many other reasons, for the necessary anarcho-communist International.

The Christ: Jesus’ twin

I think it’s probable that “the Christ” was the unknown twin brother of Jesus, and that he was kept imprisoned in Mary’s and Joseph’s poor home basement since not long after he and his brother Jesus were born, as per this previously stipulated contract between “the Magi”, which were actually some guys working for the early and then unknown Catholic Church, and Mary and Joseph themselves, until they pulled him out all of a sudden to let the romans put him on the cross and kill him instead of Jesus, to stage Jesus’ death, and then his resurrection.

Before that, Jesus, who was educated mostly by “the Magi”, and agreed to their contract and their plan very early in his life, also because Mary and Joseph made that contract before he and his brother were assigned to them by “the Magi” themselves, was mainly reciting “in sunlight”, with the oppressed, a plot and precepts which was written by “the Magi”, who based them on many more, selected madmen’s and “saints’” beliefs and, to some extent, even on his brother’s obviously growing madness, although it was probably mostly driven, in its development, and particularly in “the Christ’s” increasingly sincere conviction of being the son of “God”, by “the Magi” themselves, who were visiting him periodically in the basement.

After his brother died as one more poor christ on the cross in his stead, Jesus acted for the oppressed that last touching “bye, see you at the end of the world” scene that “the Magi” had written for him, and then he, Mary and Joseph got the big money that “the Magi” promised to them, and a permanent vacation far away from those territories, in exchange for their good services to the early Catholic Church, that was already planning to gain complete hegemony over the whole world.

The only christ i like is the one my father, who died in 2009, imagined and sang in 1979 and still tells in his Il sogno and Il cristè songs, which are as one song. You can read its lyrics in the video description, both in the italian original and in the translation i’ve done.

Michael Pollan su Timothy Leary

Da Come cambiare la tua mente,
di Michael Pollan (Adelphi, 2019)

«A Harvard stavamo concependo pensieri storicamente estremi» scrisse in seguito Leary a proposito di quel periodo: convinti che «fosse arrivato il momento (dopo i superficiali e nostalgici anni Cinquanta) per visioni rivoluzionarie, sapevamo che l’America aveva esaurito la filosofia, e che era urgentemente necessaria una nuova meta-fisica empirica e tangibile». La bomba e la guerra fredda costituivano lo sfondo essenziale di quelle idee, conferendo al progetto un carattere d’urgenza.

Nel suo passaggio da scienziato a evangelizzatore Leary fu incoraggiato anche da alcuni degli artisti che aveva egli stesso iniziato agli psichedelici. In una memorabile seduta nella sua casa di Newton, nel dicembre del 1960, Leary diede la psilocibina al poeta beat Allen Ginsberg, un uomo che per vestire i panni del profeta visionario non aveva bisogno di alcuna induzione chimica. Verso la fine di un trip estatico, Ginsberg scese incespicando al piano di sotto, si tolse tutti i vestiti e annunciò la propria intenzione di marciare nudo per le strade di Newton predicando il nuovo vangelo.

«Insegneremo alla gente a smettere di odiare» disse, «inizieremo un movimento di pace e amore». Nelle sue parole si può quasi udire la nascita degli anni Sessanta, come un pulcino fluorescente ancora bagnato che rompe il guscio dell’uovo. Quando Leary riuscì a persuadere Allen a non uscire di casa (tra l’altro, era dicembre), il poeta andò al telefono e cominciò a chiamare vari leader mondiali, cercando di farsi passare Kennedy, Chruščëv e Mao Zedong, per cercare di appianare le loro divergenze. Alla fine riuscì a parlare solo con il suo amico Jack Kerouack, presentandosi come Dio («qui è D-I-O che parla») e dicendogli che doveva prendere quei funghi magici.

Al pari di chiunque altro.

Ginsberg era convinto che Leary, il professore di Harvard, fosse l’uomo perfetto per guidare la nuova crociata psichedelica. Per Ginsberg, il fatto che il nuovo profeta «emergesse dall’Università di Harvard», l’alma mater del neoeletto presidente, era un esempio di «commedia storica», giacché qui c’era «il solo e unico Dr. Leary, un essere umano rispettabile, un uomo navigato, messo di fronte al compito d’un Messia». Venendo dal grande poeta, quelle parole caddero come semi sul terreno fertile e ben innaffiato dell’ego di Timothy Leary. (Il fatto che le sostanze psichedeliche possano promuovere un’esperienza di dissoluzione dell’ego, la quale in alcuni individui porta poi rapidamente a una sua colossale espansione, è uno dei loro numerosi paradossi. Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo, chi riceve tale conoscenza tende a sentirsi speciale, prescelto per grandi imprese).

[«Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo», mah, boh, io al massimo poi così]

Skinamarink

Una volta, da piccolo, avrò avuto tra i 6 e gli 8 anni, ero a casa con mio padre perché avevo una influenza forte, con febbre alta arginata da qualche farmaco. Dopo aver mangiato per pranzo, con poca voglia, una minestrina preparatami da lui, tornai a letto ed ebbi, tra sonno e veglia, quello che ancora ricordo come l’incubo peggiore della mia vita. Mentre stavo lì sul letto, mio padre entrò in camera e abbassò la tapparella in modo tale per cui la sua estremità inferiore toccava il davanzale, la sua parte inferiore era completamente chiusa, ma nella parte superiore rimanevano, tra i listelli, delle fessure da cui entrava un po’ di luce. Questo probabilmente avvenne nella realtà, e io poi, in sogno, guardando la luce che filtrava tra i listelli della tapparella, in alto, sentii una vocina strana, molto acuta, che sembrava venire da qualche parte vicino, davanti o dietro la tapparella, e che disse “Tuo padre è morto”, e io in quel momento “capii” che era stato decapitato dalla tapparella, e ne fui così terrorizzato che non riuscivo più a muovermi nel letto e l’idea di alzarmi e passare di fronte alla tapparella mi spaventava a morte. Nel sogno entrò poi in camera mia nonna, andava verso la tapparella e pensai volesse risollevarla, avrei voluto avvertirla che era pericolosa, che aveva ucciso mio padre, che c’era qualcuno che forse l’aveva usata per farlo, ma non riuscivo nemmeno a parlare. Mia nonna aprì la tapparella e la tapparella subito si richiuse, la vocina disse “Tua nonna è morta”, io immaginai che mia nonna fosse stata decapitata dalla tapparella, come già mio padre, ma non riuscivo nemmeno a sporgermi dal letto per guardare se sul pavimento davanti alla finestra ci fossero i loro corpi. In seguito entrarono altri miei parenti, e ogni volta andava come già ho raccontato riguardo a mia nonna. A un certo punto mi svegliai, senza rendermi conto di svegliarmi e quindi convinto che tutto quello che avevo visto fosse accaduto davvero. La tapparella era alzata, forse nella realtà mio padre nel frattempo era entrato e l’aveva rialzata. Con la luce mi sentii un po’ meno terrorizzato e riuscii a sporgermi dal letto e guardare sul pavimento: ovviamente non c’erano corpi, ma pensai che forse erano stati spostati, o fatti sparire in qualche modo, e sebbene un flebile dubbio che tutto quello che avevo visto fosse stato un sogno cominciasse a farsi strada in me, rimasi quasi convinto che tutti quei miei parenti, che erano quelli a me più cari, fossero morti. Il gatto che avevamo allora, un micino bianco e nero, giovane a quel tempo, si spostò dai piedi del letto e venne ad accoccolarsi sulla mia pancia. Cominciai a piangere e presi ad accarezzarlo mormorando “È finita, è finita”, e continuai a piangere a lungo: pensavo di essere rimasto solo al mondo, a parte lui. Poi sentii dei rumori in cucina, mi alzai e andai alla porta della mia camera, che era chiusa, e ascoltai con attenzione. Qualcuno stava lavando i piatti. Forse era mio padre, forse davvero avevo sognato. La paura di scoprire che non era così era fortissima e rimasi a lungo in piedi davanti alla porta chiusa con la mano sulla maniglia, ma ascoltando i rumori che venivano dalla cucina andavo convincendomi un po’ di più che fosse stato tutto un sogno e dopo un po’ aprii la porta, con grande ansia andai in cucina e vidi mio padre che stava asciugando i piatti. Mi chiese “Come va?” e risposi “Ho fatto un incubo tremendo”, forse aggiunsi “ho sognato che morivate tutti”, forse poi gli raccontai il sogno più nel dettaglio, non ricordo, comunque dopo questo episodio, per qualche giorno, prima di andare a letto la sera ci guardavo sotto perché temevo di trovarci i corpi di qualche parente o amico (in particolare di mia nonna).

Credo tutto questo risulti tutto sommato abbastanza normale a chi ricorda com’è essere bambini, e che possa risultare strano solo a chi non lo ricorda più.

Skinamarink è un film che tenta di far vivere o rivivere questo tipo di esperienze oniriche infantili a chi lo guarda, e con me ci è riuscito abbastanza bene, nonostante a tratti mi abbia un po’ annoiato, però lo consiglio solo a un pubblico adulto, perché temo che invece per un pubblico giovane rischi di essere troppo terrificante, temo rischi di amplificarne le paure invece di aiutarlo ad affrontarle.

Quello che segue è un po’ uno spoiler, con una interpretazione mia del film, un po’ scherzosa e un po’ no. Per leggerlo basta selezionarne il testo nascosto.

Un po’ di libero arbitrio

Da Sulla materia della mente,
di Gerald M. Edelman

Capitolo 16
Memoria e anima individuale:
contro il riduzionismo sciocco

La scienza non può spiegare il mistero ultimo della Natura. E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte del mistero che tentiamo di spiegare.

Max Planck

Se dovessi vivere di nuovo, mi piacerebbe vivere sopra un negozio di specialità gastronomiche.

Woody Allen

Dall’ultimo quarto del diciassettesimo secolo fino all’ultimo decennio del secolo successivo, un’esplosione di creatività chiamata Illuminismo trasformò la storia delle idee. Molte opinioni e molte concezioni fiorirono, ma al centro dell’interesse generale si trovavano soprattutto la ragione, la scienza, la libertà e l’individualità dell’uomo. La scienza che ne costituiva il fondamento era la fisica, il sistema di Newton, e la concezione filosofica della società era, in larga misura, quella di Locke. Tuttavia le idee di causalità e determinismo, assieme alla visione meccanicistica della scienza, minarono alla base le speranze in una teoria dell’azione umana basata sulla libertà. Se siamo determinati da forze naturali — da meccanismi — è difficile immaginare che un individuo libero possa compiere scelte di ordine morale. Inoltre, benché l’Illuminismo fosse molto attento al ruolo della ragione e della cultura in tali scelte, non espresse alcun concetto generale riguardo alla profonda influenza esercitata dalle forze inconsce e dalle emozioni sulla mente di ogni essere umano (compresi quelli «dotati di ragione», e cioè le persone «colte»).

Quali che fossero le forme assunte nei vari periodi e nei vari luoghi, l’Illuminismo fu prevalentemente una concezione laica, che forgiò molte delle idee a fondamento della democrazia moderna. Esso, però, è finito, pur lasciandoci una eredità preziosa. Quelle idee subirono un primo, fiero colpo con gli attacchi che Hume rivolse sia al razionalismo sia alla concezione che associava il progresso umano alle scienze naturali. La principale carenza dell’Illuminismo fu l’incapacità di formulare una adeguata descrizione scientifica dell’individuo che si potesse affiancare alla descrizione dell’universo come macchina. Nell’ambito sociale, invece, il fallimento fu l’incapacità di andare oltre il concetto di una società composta di individui egoisti, votati al successo nel campo degli affari, con una visione superficiale dell’«umanesimo». Gli illuministi tentarono, sì, di offrire una prospettiva più ispirata, ma la loro scienza era una fisica meccanicistica, sprovvista di un corpo di dati e di idee che consentisse di collegare il mondo, la mente e la società secondo i criteri della ragione scientifica cui aspiravano. A dispetto di fallimenti e contraddizioni, tuttavia, l’Illuminismo ci ha lasciato grandi speranze riguardo al posto dell’individuo nella società.

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For an anarchic International (a very approximate and sketchy proposal)

This proposal, as the title says, is considerably sketchy and approximate, and deliberately and a bit ironically so (that’s why, for example, i used the 42 number throughout it), and obviously very open to discussions and modifications, should anyone like to, although i don’t think i’ll personally change my mind about that which for me is its central point: the necessity to take the cultivated lands and all the means of material production into everybody’s hands.

The pandemic of covid and its variations, that as of today directly caused more than 6 millions deaths in the world, and indirectly caused more than 15 millions, is for the most part a consequence of the environmental devastation caused by capitalist exploitation of the whole living [1] [2] [3], and of the material and cultural misery it determines and pursues.

The onset of new pandemics and their increasing frequency were foreseen by many scientists (see the previous links). Nonetheless, even in the richest countries, the pandemic stroke after a long period during which nothing was done by those who could do the most to reduce the risk that those predictions foresaw; instead, they weakened further the public health systems (the italian one, for example, had undergone massive cuts during the previous ten years, which were made by institutional right, center, left parties to almost identical extents: see [1] and [2]).

The anti-covid vaccines which are currently disposable in the richest countries do work: they are statistically very effective in preserving people who accept to get vaccinated from getting ill, although they provide a rather brief cover. But, despite the fact their development was financed to a great extent by rich states with money from tax payers, these same states in developed countries buy them at a price per dose that is up to 24 times its cost of production, while the states where the large majority of the people of the world lives can’t afford to buy them and the bosses of pharmaceutical multinationals producing them don’t remise, not even temporarily, to the related patents, and don’t publish the know-how that’s necessary to build the machines to produce them, nor are they disposable to help in building these machines and to train the people who could use them within less rich and poor countries.

This way, the covid and variants pandemic will never be defeated, and other, new pandemics will happen more and more frequently.

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L’ultimo capitolo di “La penultima verità”

Da La penultima verità,
di Philip K. Dick

Capitolo 29

All’una di quel pomeriggio Carol Tigh effettuò con successo l’operazione di trapianto del pancreas sul corpo ancora congelato di Maury Souza; poi, grazie alle risorse mediche più sofisticate del formicaio, ripristinò la circolazione sanguigna, il battito cardiaco e la respirazione del vecchio. Il suo cuore cominciò a pompare sangue da solo, e subito, con cautela e abilità, gli stimolatori artificiali delle funzioni vennero rimossi uno dopo l’altro.

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Artaud a caso

Da Al paese dei Tarahumara e altri scritti, di Antonin Artaud

Ieri venerdì 15 marzo, nell’insediarsi del mio dolore, la dialettica è entrata in me come derisione della mia carne viva che soffre, ma non capisce.

Della morfina su una gamba di legno, fatta, la morfina, con la cancrena delle ossa della gamba morta, poi spillata, ecco cosa fu la santa trinità.

Non basta agitare fluidi per spiegare la coscienza che non è uno spirito di corpo, ma il volume del timbro di un corpo sul punto di farsi largo con le braccia per essere, contro lo spirito che lo computerà.

Gli spiriti maligni non sono stati mentali, ma esseri che non hanno mai voluto sop-portarsi.

L’amore è uno stregone, un fuoco isterico, magnifico

Tanto tempo fa, quando mia madre decise che 8 anni di psicoanalisi a 4 sedute la settimana eran troppi, visti i costi molto alti per noi e quelli che per lei erano “scarsi risultati” (in effetti non eran granché, però qualcosina si), la mia psicoanalista (di formazione freudiana) nell’ultima seduta mi chiese “Le emozioni da dove arrivano, dal corpo o dalla mente?”; io ero già pronto ad argomentare che “un po’ dal corpo, ma anche un po’ dalla mente”, però va be’ era l’ultima seduta e non avevo voglia di discutere e risposi “dal corpo”, e lei annuì. E a volte mi pare vero che le emozioni vengono dal corpo, e penso che un’ipotetica mente “da sempre senza corpo” non proverebbe niente, né avrebbe modo di (ri)evocare emozioni. Però forse invece il desiderio è innato: forse un’ipotetica mente “da sempre senza corpo” desidererebbe, e soffrirebbe l’impossibilità. Anzi, sono proprio di questa idea. E a volte penso che la condizione prenatale, una volta sviluppatosi un sistema nervoso centrale, sia il “paradiso perduto” da cui tutt* veniamo: una fusione con un altro corpo che soddisfa ogni nostro desiderio, bisogno; e forse il desiderio amoroso-sessuale non è che un desiderio di ritorno, per quanto fugace, a quella condizione… “L’amore è uno stregone, un fuoco isterico, magnifico”:

La sperimentazione con psilocibina nel trattamento della depressione

Da Come cambiare la tua mente,
di Michael Pollan (Adelphi, 2019)

Al principio del 2017, quando Roland Griffiths e Stephen Ross presentarono alla FDA i risultati dei loro studi clinici sperando di ottenere l’approvazione per una più ampia sperimentazione di fase III sull’uso della psilocibina nei pazienti oncologici, accadde qualcosa di inatteso. Impressionato dai loro dati ed evidentemente per nulla scoraggiato dalle difficoltà esclusive poste dalla ricerca con gli psichedelici – per esempio il problema del mascheramento, la combinazione di terapia e medicina, e il fatto che la sostanza in questione è ancora illecita –, lo staff dell’FDA sorprese i ricercatori chiedendo loro di espandere il proprio interesse e le proprie ambizioni, verificando se la psilocibina non potesse essere usata per trattare il problema ben più vasto e urgente della depressione nella popolazione generale. Secondo le autorità regolatorie, i dati contenevano un «segnale» abbastanza forte del fatto che la psilocibina potesse alleviare la depressione; considerando l’enorme necessità di terapie e i limiti di quelle oggi disponibili, sarebbe stato un peccato non verificare quell’ipotesi. Ross e Griffiths si erano concentrati sui pazienti oncologici perché pensavano che sarebbe stato più semplice ottenere l’approvazione per lo studio di una sostanza controllata in persone già seriamente ammalate o in fase terminale. Adesso invece le autorità stavano dicendo loro di mirare più in alto. «Una cosa surreale» commentò Ross – due volte – raccontandomi l’episodio, ancora sbalordito dalla reazione e dall’esito di quell’incontro. (La FDA rifiutò di confermare o negare questa descrizione, spiegando che non rilascia dichiarazioni su sostanze in corso di sviluppo o in esame per l’approvazione).

Qualcosa di molto simile accadde in Europa, quando nel 2016 alcuni ricercatori si rivolsero all’EMA (l’European Medicines Agency, ovvero l’agenzia per la valutazione dei medicinali dell’Unione Europea) chiedendo l’approvazione per l’uso della psilocibina nel trattamento dell’ansia e della depressione in pazienti con diagnosi che stravolgono la vita. La «sofferenza esistenziale» non è una diagnosi ufficiale del DSM, sottolinearono le autorità, e quindi i servizi sanitari nazionali non ne copriranno i costi. Esiste tuttavia un segnale che la psilocibina possa essere utile nel trattamento della depressione: perché allora non fare un grande studio multicentrico per quell’indicazione?

L’EMA stava reagendo non solo ai dati della Hopkins e della NYU ma anche al piccolo «studio di fattibilità» sul possibile uso della psilocibina nella depressione diretto da Robin Carhart-Harris nel laboratorio di David Nutt all’Imperial College. In quest’ultimo lavoro, i cui risultati preliminari apparvero su «Lancet Psychiatry» nel 2016, i ricercatori somministrarono la psilocibina a sei uomini e sei donne con «depressione resistente al trattamento» – in altre parole, persone che avevano già provato senza successo almeno due terapie. Non era previsto gruppo di controllo, e quindi ciascuno sapeva che stava prendendo la psilocibina.

In capo a una settimana tutti i volontari mostrarono un miglioramento dei sintomi, e due terzi di essi non erano più depressi, in alcuni casi per la prima volta dopo anni. A tre mesi di distanza sette dei dodici volontari mostravano ancora un sostanziale beneficio. Lo studio fu ampliato così da comprendere un totale di venti volontari; dopo sei mesi, sei restavano in remissione, mentre gli altri avevano avuto ricadute di diversa entità, a indicazione del fatto che probabilmente il trattamento va ripetuto. Lo studio era di scala modesta e non randomizzato, ma dimostrò che in quella popolazione la psilocibina era ben tollerata, giacché non aveva indotto eventi avversi e la maggior parte dei soggetti aveva tratto benefici rapidi e marcati. L’EMA rimase a tal punto impressionata dai dati, che suggerì la conduzione di uno studio molto più ampio per il trattamento della depressione resistente al trattamento, un problema che in Europa affligge più di ottocentomila persone (su un totale – secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità – di circa quaranta milioni di europei con disturbi depressivi).

Rosalind Watts era una giovane psicologa clinica che lavorava per il National Health Service quando lesse sul «New Yorker» un articolo riguardante la terapia con gli psichedelici. L’idea che si potesse effettivamente riuscire a curare la malattia mentale invece di limitarsi a gestirne i sintomi la spinse a scrivere a Robin Carhart-Harris, che la ingaggiò per collaborare allo studio sulla depressione: la prima incursione del suo laboratorio nella ricerca clinica. Watts guidò diverse sedute e poi condusse interviste qualitative con tutti i volontari a sei mesi dai trattamenti, sperando di capire esattamente quale fosse stato l’impatto della seduta con gli psichedelici.

Le interviste di Watts portarono alla luce due «temi» principali. Il primo era che i volontari descrivevano la propria depressione soprattutto come uno stato di «disconnessione»: dagli altri, dal proprio sé precedente, dai sensi e dai sentimenti, dalle convinzioni profonde e dai valori spirituali, oppure dalla natura. Diversi soggetti riferivano di vivere in una «prigione mentale», altri di essere «bloccati» in circoli viziosi di ruminazione infinita che paragonavano a «ingorghi» mentali. Mi tornò in mente l’ipotesi di Carhart-Harris, e cioè che la depressione possa derivare da un’iperattività della DMN – il sito del cervello in cui sembra aver luogo la ruminazione.

I soggetti depressi dell’Imperial si sentivano scollegati anche dai propri sensi. «Guardavo le orchidee» disse a Watts uno di loro «e razionalmente capivo che c’era della bellezza, ma non la sentivo».

Anche se solo temporaneamente, l’esperienza con la psilocibina aveva fatto uscire moltissimi volontari dalle loro gabbie mentali. Una partecipante allo studio mi disse che il mese successivo alla sua seduta era stato il primo periodo, dal 1991, in cui non si era sentita depressa. Altri descrissero esperienze simili.

«Fu come prendermi una vacanza dalla prigione del mio cervello. Mi sono sentito libero, pieno di energia».

«Fu come accendere la luce in una casa buia».

«Non sei più immerso negli schemi di pensiero; la copertura di cemento è saltata via».

«Un po’ come quando fai la deframmentazione dell’hard disk del computer… Pensavo: “il mio cervello si sta deframmentando, è proprio fantastico!”».

Per molti volontari queste modificazioni nell’esperienza della propria mente si dimostrarono persistenti.

«La mia mente funziona in modo diverso. Rumino molto meno, e ho la sensazione che i miei pensieri siano ordinati, contestualizzati».

Diversi soggetti riferirono di essersi nuovamente connessi ai propri sensi.

«Mi cadde un velo che avevo sugli occhi, e all’improvviso le cose divennero chiare, luminose, brillanti. Guardavo le piante e percepivo la loro bellezza. Ancora adesso guardo le mie orchidee e riesco a sentirla – questa è una cosa che effettivamente è rimasta».

Alcuni rientrarono in connessione con se stessi:

«Provai tenerezza nei miei confronti».

«In sostanza, mi sento come prima della depressione».

Ci fu chi rientrò in contatto con le altre persone.

«Stavo parlando con degli sconosciuti. Avevo lunghe e intense conversazioni con chiunque incontrassi».

«Guardavo la gente per strada e pensavo: “Quanto siamo interessanti” – mi sentivo legato a tutti loro».

E alla natura.

«Prima, la natura mi dava piacere; adesso mi sento parte di essa. Prima la guardavo come un oggetto, come la tv o come un quadro. Invece tu sei parte di lei, non c’è alcuna separazione o distinzione, tu sei lei».

«Ero chiunque, un’unità, una vita con sei miliardi di facce. Ero quello che chiedeva amore e dava amore; nuotavo in mare, e allo stesso tempo il mare era me».

Il secondo tema principale era un nuovo accesso a emozioni difficili, che spesso la depressione ottunde o blocca completamente. Watts ipotizza che l’incessante ruminazione dei pazienti depressi limiti il loro repertorio emozionale. In altri casi, il depresso tiene a bada le emozioni perché viverle è troppo doloroso.

Questo è vero soprattutto per i traumi infantili. Watts mi mise in contatto con un trentanovenne che aveva partecipato allo studio: Ian Rouiller, un giornalista che scriveva di musica, il quale, da bambino, insieme alla sorella maggiore, era stato abusato dal padre. Divenuti adulti, i due fratelli denunciarono il genitore, che finì in carcere per diversi anni, ma questo non aveva alleviato la depressione che ha perseguitato Ian per gran parte della sua vita.

«Ricordo benissimo il momento in cui quell’orribile nube mi sovrastò la prima volta. Ero nella sala del Fighting Cocks, un pub di St. Albans. Avevo dieci anni». Gli antidepressivi furono d’aiuto per un po’, ma «mettere il cerotto sulla ferita non guarisce nulla». Con la psilocibina, Ian riuscì per la prima volta a confrontarsi con il suo dolore di sempre – e con il padre.

«In genere, quando mi viene in mente papà, mi limito a respingere il pensiero. Ma quella volta andò diversamente». La sua guida gli aveva detto che doveva «affrontare e sperimentare» qualsiasi materiale spaventoso gli si presentasse durante il viaggio.

«Così questa volta lo guardai negli occhi. Per me fu una cosa veramente grandissima, letteralmente come affrontare il demonio. E eccolo lì. Ma era un cavallo! Un cavallo militare in piedi sulle zampe posteriori, in divisa, con un elmo e un’arma da fuoco. Era terrificante, e volevo allontanare l’immagine, ma non lo feci. Affrontare e sperimentare. Così guardai il cavallo negli occhi – e cominciai immediatamente a ridere, era veramente ridicolo».

«Fu il momento della vera svolta in quello che era stato un bad trip. Adesso avevo ogni genere di emozione – positiva, negativa, non importa. Pensavo ai rifugiati [siriani] a Calais e cominciai a piangere per loro, e capivo che ogni emozione è valida come qualsiasi altra. Non devi scegliere felicità e divertimento, le cosiddette emozioni buone; andava bene anche avere pensieri negativi. È la vita. Per me, cercare di resistere alle emozioni non faceva che amplificarle. Una volta che entrai in questo stato fu bellissimo – un senso di profondo appagamento. Avevo questa sensazione travolgente – non era nemmeno un pensiero – che tutto e tutti, me compreso, dovessero essere avvicinati con amore».

Ian godette diversi mesi di sollievo dalla depressione e maturò anche una nuova prospettiva sulla sua vita – qualcosa che nessun antidepressivo gli aveva mai offerto. «Come Google Earth, avevo zoomato all’indietro» disse a Watts nell’intervista svoltasi sei mesi dopo. Per diverse settimane dopo la seduta «rimasi completamente connesso con me stesso, con ogni creatura vivente, con l’universo». Alla fine, però, l’effetto della veduta di insieme sparì, e Ian fece ritorno allo Zoloft.

«Il brillio e la lucentezza che la vita e l’esistenza avevano riacquisito subito dopo la sperimentazione, e che conservarono per diverse settimane, a poco a poco svanirono» scriveva un anno dopo. «Le rivelazioni avute durante la sperimentazione non mi hanno mai lasciato e non mi lasceranno mai. Ora, però, sembrano più delle idee» dice. Afferma che adesso sta meglio di prima ed è riuscito a conservarsi un lavoro, ma la depressione è tornata. Mi ha detto che vorrebbe poter fare un’altra seduta con la psilocibina all’Imperial; poiché attualmente non è possibile, a volte fa meditazione e riascolta la playlist usata nella sua seduta. «Mi aiuta molto a riportarmi laggiù».

Alla fine, più di metà dei volontari partecipanti alla sperimentazione dell’Imperial hanno visto tornare le nubi della depressione, e quindi sembra probabile che, qualora si dimostrasse utile e fosse approvata, la terapia psichedelica non si risolva in un unico intervento. Ad ogni modo i volontari consideravano preziosa anche la tregua temporanea, perché ricordava loro che esisteva un altro modo di essere, e che per riconquistarlo valeva la pena di impegnarsi. Come la terapia elettroconvulsiva, a cui per certi versi somiglia, la terapia con gli psichedelici è uno shock inferto al sistema – un «riavvio» o una «deframmentazione» – che può dover essere ripetuto di tanto in tanto (supponendo che, quando viene ripetuto, il trattamento funzioni altrettanto bene). Il potenziale della terapia spinge tuttavia autorità regolatorie, ricercatori e gran parte di coloro che si occupano di salute mentale a nutrire delle speranze.

«Io credo che questo possa rivoluzionare l’assistenza nel campo della salute mentale» mi disse Watts. La sua convinzione è condivisa da tutti gli altri ricercatori che lavorano sugli psichedelici e che ho intervistato.

«Quando contro una data malattia si ordinano tante medicine,» scrisse Čechov, che era medico oltre che scrittore, «significa solo che la malattia è incurabile». Ma che dire dell’inverso di quell’affermazione? Che cosa dovremmo pensare di un unico rimedio prescritto per moltissime malattie? Come è possibile che la terapia con gli psichedelici si riveli utile per disturbi diversi come la depressione, le dipendenze, l’ansia dei pazienti oncologici – per non parlare del disturbo ossessivo compulsivo (sul quale è stato svolto uno studio incoraggiante) e dei disturbi del comportamento alimentare (che la Hopkins ha in programma di studiare)?

Non dovremmo dimenticare che fin dall’inizio la ricerca sugli psichedelici è stata afflitta da entusiasmi irrazionali; la convinzione che queste molecole siano una panacea per qualsiasi nostro male risale almeno a Timothy Leary. Può darsi benissimo che l’attuale entusiasmo lascerà infine il passo a una valutazione più moderata del loro potenziale: all’inizio i nuovi trattamenti sembrano sempre più brillanti e promettenti. Nei primi studi condotti su piccoli campioni, i ricercatori – che tendono a essere sbilanciati a favore del riscontro di un effetto – si permettono il lusso di selezionare i volontari che hanno maggiori probabilità di rispondere. Poiché i numeri sono tanto esigui, questi volontari si avvantaggiano delle cure e dell’attenzione di terapeuti eccezionalmente preparati e dedicati, anch’essi con una visione parziale a favore del successo del trattamento. Di solito, poi, l’effetto placebo è più forte per un nuovo medicinale, e col tempo tende a ridursi, come è stato osservato nel caso degli antidepressivi: oggi non sono neanche lontanamente efficaci com’erano negli anni Ottanta, dopo la loro introduzione. Nessuna di queste terapie psichedeliche si è finora dimostrata efficace in grandi popolazioni; più che dimostrazioni definitive di guarigione, i successi finora riportati dovrebbero essere considerati segnali promettenti che emergono dal rumore di fondo dei dati.

Nondimeno, il fatto che gli psichedelici abbiano prodotto tale segnale in una serie di indicazioni diverse può essere interpretato in una luce più positiva. Parafrasando Čechov, il fatto che un singolo rimedio sia prescritto per moltissime malattie potrebbe significare che esse sono più simili di quanto siamo soliti pensare. Se una terapia ha in sé un’implicita teoria del disturbo cui si propone di rimediare, il fatto che la terapia psichedelica sembri affrontare così tante indicazioni che cosa può insegnarci? Che cosa ha da dirci su ciò che quei disturbi hanno forse in comune, e sulla malattia mentale in genere?

Ho posto questa domanda a Tom Insel, l’ex direttore del National Institute of Mental Health. «Non mi sorprende affatto» che lo stesso trattamento si mostri promettente in moltissime indicazioni. Sottolinea poi che il DSM – il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ormai alla quinta edizione – traccia confini alquanto arbitrari tra i disturbi mentali, confini che si spostano a ogni nuova edizione.

Secondo Insel, «le categorie del DSM non riflettono la realtà»; esistono più che altro per comodità delle compagnie assicurative. «Questi disturbi mentali si trovano lungo un continuum, molto più di quanto riconosca il DSM». Qui si riferisce al fatto che, quando funzionano, gli SSRI sono utili per trattare, oltre alla depressione, tutta una serie di condizioni, compresi l’ansia e il disturbo ossessivo-compulsivo, il che suggerisce l’esistenza di qualche meccanismo comune di fondo.

Andrew Solomon, nel suo libro Il demone di mezzogiorno, traccia i collegamenti tra dipendenze e depressione, spesso presenti simultaneamente, come pure l’intimo rapporto tra depressione e ansia. Cita un esperto di ansia che ci suggerisce di pensare ai due disturbi come a «gemelli fraterni»: «La depressione è la risposta a una perdita passata, l’ansia a una perdita futura». Entrambi sono il riflesso di una mente impantanata nella ruminazione, in un caso intenta a rimuginare sul passato, nell’altro a preoccuparsi per il futuro. A distinguere i due disturbi è più che altro il tempo verbale.

Alcuni ricercatori attivi nel campo della salute mentale sembrano procedere a tentoni verso una grande teoria unificata della malattia mentale, benché non siano così pretenziosi da definirla così. David Kessler, il medico già a capo della FDA, ha recentemente pubblicato un libro intitolato Capture: Unraveling the Mystery of Mental Suffering, nel quale sostiene un tale approccio. «Capture» – cattura – è il suo termine per descrivere il comune meccanismo alla base di problemi quali dipendenze, depressione, ansia, mania e ossessione; secondo lui, tutti questi disturbi comportano abitudini apprese di pensiero e comportamento negativi che sequestrano la nostra attenzione intrappolandoci in circoli viziosi di autoriflessione. «Quello che era cominciato come un piacere diventa poi una necessità; quello che un tempo era cattivo umore diventa un continuo autoaccusarsi; quello che un tempo era un fastidio diventa una persecuzione», in un processo che Kessler descrive come una forma di «apprendimento inverso». «Ogni volta che rispondiamo [a uno stimolo], rafforziamo il circuito neurale che ci spinge a ripetere» i medesimi pensieri o comportamenti distruttivi.

La scienza degli psichedelici potrebbe offrire un contributo allo sviluppo di una grande teoria unificata della malattia mentale – o almeno di alcune malattie mentali? La maggior parte dei ricercatori attivi nel campo – da Robin Carhart-Harris a Roland Griffiths, Matthew Johnson e Jeffrey Guss – è convinta che, nel cervello e nella mente, gli psichedelici agiscano su alcuni meccanismi di ordine superiore che probabilmente sono alla base di un’ampia gamma di disturbi mentali e comportamentali, e forse anche della comune infelicità – e che contribuiscano a spiegarli.

Potrebbe essere qualcosa di semplice come il concetto di «riavvio mentale» – il control-alt-delete biologico di Matt Johnson –, che scuote il cervello liberandolo da schemi distruttivi (quali la «cattura» di Kessler) offrendo a nuovi schemi l’opportunità di metter radici. Potrebbe essere che, come ha ipotizzato Franz Vollenweider, gli psichedelici aumentino la neuroplasticità. La miriade di nuove connessioni che spuntano nel cervello durante l’esperienza psichedelica e che sono state mappate negli esperimenti di neuroimaging effettuati all’Imperial College, insieme alla disintegrazione di vecchie connessioni a lungo utilizzate, può servire semplicemente – per usare l’espressione di Robin Carhart-Harris – ad «agitare la palla di vetro con la neve»: una premessa per aprire nuove vie.

Mendel Kaelen, un olandese che svolge il suo lavoro di post-dottorato all’Imperial, propone un’altra metafora, sempre con la neve, ma più estesa: «Pensi al cervello come a una collina innevata e ai pensieri come a slitte che scivolano giù dal pendio. Via via che, una dopo l’altra, le slitte scendono sulla neve, vi lasceranno un piccolo numero di solchi più profondi. E ogni volta che scenderà un’altra slitta, sarà attirata nei solchi preesistenti, quasi come da una calamita». Quelle tracce più profonde rappresentano, nel cervello, le connessioni neurali più utilizzate, molte delle quali attraversano la DMN. «Col tempo, è sempre più difficile scendere dalla collina in una direzione diversa o percorrendo una qualsiasi altra traiettoria.

«Ora, pensi agli psichedelici come agenti che, temporaneamente, battono la neve. I solchi più profondi scompaiono, e all’improvviso le slitte possono andare anche in altre direzioni, esplorando nuovi paesaggi e creando letteralmente nuove piste». Quando la neve è più fresca, la mente è più impressionabile, e basta una minima esortazione – qualsiasi cosa, una canzone, un’intenzione o il suggerimento di un terapeuta – per esercitare un’influenza potente sulla sua direzione futura.

La teoria del cervello entropico proposta da Robin Carhart-Harris rappresenta una promettente elaborazione di quest’idea generale, e un primo tentativo in direzione d’una teoria unificata della malattia mentale che contribuisca a spiegare tutti e tre i disturbi esaminati in queste pagine. Secondo lui, un cervello felice è un cervello flessibile ed elastico; la depressione, l’ansia, le ossessioni e il fortissimo desiderio tipico delle dipendenze sono ciò che si prova ad avere un cervello troppo rigido o fissato nelle sue vie e nei suoi collegamenti: un cervello con più ordine del giusto. Sullo spettro da lui tracciato nell’articolo sul cervello entropico – spettro che si estende dall’eccesso di ordine a quello di entropia – la depressione, la dipendenza e i disturbi ossessivi coincidono tutti con l’estremo del troppo ordine. (La psicosi si trova invece all’estremo entropico dello spettro, il che probabilmente spiega perché non risponda alla terapia con gli psichedelici).

Nella visione di Carhart-Harris, il valore terapeutico degli psichedelici sta nella loro capacità di aumentare temporaneamente l’entropia di un cervello troppo rigido, riscuotendo il sistema dai suoi schemi di default. Carhart-Harris usa la metafora della ricottura, prelevata dalla metallurgia: gli psichedelici introducono energia nel sistema, conferendogli la flessibilità necessaria perché esso si pieghi, e quindi cambi. I ricercatori della Hopkins usano una metafora simile per ribadire lo stesso concetto: la terapia psichedelica crea un intervallo di massima plasticità in cui, con una guida appropriata, è possibile apprendere nuovi schemi di pensiero e di comportamento.

Tutte queste metafore riferite all’attività del cervello sono esattamente quello – metafore – e non l’oggetto in sé. Nondimeno gli studi di neuroimaging eseguiti sui cervelli in trip all’Imperial College (da allora replicati in diversi altri laboratori usando non solo la psilocibina ma anche l’LSD e l’ayahuasca) hanno identificato modificazioni cerebrali misurabili conferendo credibilità a queste metafore. In particolare, i cambiamenti di attività e connettività riscontrati nella DMN sotto l’effetto degli psichedelici indicano la possibilità di mettere in relazione l’esperienza percepita in alcuni tipi di sofferenza mentale con qualcosa di osservabile e alterabile nel cervello. Se la DMN fa quello che i neuroscienziati pensano faccia, allora un intervento che abbia come bersaglio quella rete può forse contribuire ad attenuare diverse forme di malattia mentale, compresi i disturbi che i ricercatori interessati agli psichedelici hanno sottoposto finora a sperimentazione.

Moltissimi dei volontari con cui ho parlato – sia tra i malati terminali, sia tra le persone con dipendenze o con depressione – raccontavano la sensazione di essere mentalmente «bloccati», catturati in circoli viziosi di ruminazione che sentivano di non poter spezzare. Parlavano di «prigioni del sé», di spirali di introspezione ossessiva che alzavano un muro tra loro e gli altri, la natura, il loro sé precedente e il momento attuale. Tutti questi pensieri e sentimenti possono essere generati da una DMN iperattiva, ovvero da quell’insieme di strutture cerebrali strettamente collegate che sono implicate nella ruminazione, nel pensiero autoreferenziale e nella metacognizione (pensare al pensiero). Il fatto che silenziando la rete cerebrale responsabile del pensiero su se stessi e della metacognizione sia possibile spingersi al di là di quella pista, o cancellarla dalla neve, ha una sua logica.

La DMN sembra essere la sede non soltanto dell’ego, o del sé, ma anche della abilità mentale di viaggiare nel tempo. Ovviamente le due cose sono strettamente legate: senza la capacità di ricordare il nostro passato e di immaginare un futuro, il concetto di un sé coerente sarebbe difficile da sostenere; noi ci definiamo facendo riferimento alla nostra storia personale e ai nostri obiettivi futuri (come scopre chi fa meditazione, se si smette di pensare al passato o al futuro e ci si immerge nel presente, il sé sembra scomparire). Il viaggio mentale nel tempo ci porta costantemente lontano dalla frontiera del momento presente, il che può avere un grande valore adattativo: ci permette di imparare dal passato e di pianificare il futuro. Ma quando il viaggio nel tempo diventa ossessivo, alimenta lo sguardo volto all’indietro della depressione e il protendersi in avanti dell’ansia. Anche la dipendenza sembra implicare un viaggio nel tempo incontrollabile – chi ne soffre se ne serve per scandire il tempo: Quand’è stato l’ultimo buco, e quando posso farmi il prossimo?

Affermare che la DMN è la sede del sé non è un’asserzione semplice, soprattutto se si considera che il sé può non essere del tutto reale. Nondimeno, possiamo dire che esiste un insieme di operazioni mentali – il viaggio nel tempo ne è un esempio – associate al sé; pensate dunque ad esso semplicemente come al luogo di questo particolare insieme di attività mentali, molte delle quali sembrano avere la propria sede nelle strutture della DMN.

Un altro tipo di attività mentale che il neuroimaging ha collocato nella DMN (e specificamente nella corteccia del cingolo posteriore) è il lavoro del cosiddetto sé autobiografico o esperienziale: l’operazione mentale responsabile delle narrazioni che legano la nostra prima persona al mondo esterno, contribuendo in tal modo a definirci. «Questo sono io», «Non merito di essere amata», «Sono il tipo di persona che non ha la forza di volontà per spezzare questa dipendenza». Attaccarsi eccessivamente a queste narrazioni, ripeterle come verità immutabili su se stessi e non come storie soggette a revisione, contribuisce in modo potente alle dipendenze, alla depressione e all’ansia. La terapia con gli psichedelici sembra indebolire la presa di tali narrazioni, forse disintegrando temporaneamente le regioni della DMN in cui esse operano.

E poi c’è l’ego, forse la creazione più formidabile della DMN, il quale lotta per difenderci da minacce interne ed esterne. Quando tutto funziona come dovrebbe, l’ego mantiene l’organismo in carreggiata, aiutandolo a realizzare i suoi obiettivi e a far fronte alle sue necessità, in particolare quelle mirate alla sopravvivenza e alla riproduzione. Fa quel che va fatto. È anche, però, fondamentalmente conservatore. Come dice Matt Johnson, «l’ego ci trattiene nei nostri solchi»: nel bene e, a volte, nel male. Sporadicamente infatti può diventare tirannico e rivolgere i suoi formidabili poteri contro altre parti di noi stessi. Forse è questo che lega le varie forme di malattia mentale in cui la terapia con gli psichedelici sembra essere di maggior aiuto: implicano tutte un disturbo dell’ego – dispotico, punitivo e deviato.

Nel discorso pronunciato a un college tre anni prima di togliersi la vita, David Foster Wallace chiese al suo pubblico di «pensare al vecchio luogo comune sulla mente, che “è un ottimo servitore ma un pessimo padrone”. Come molti luoghi comuni, in superficie tanto deboli e banali, esso esprime in effetti una verità grande e terribile» disse.

«Il fatto che quando commettono suicidio con un’arma da fuoco, quasi sempre gli adulti si sparino in testa, non è affatto una coincidenza. Sparano a quel pessimo padrone».

Di tutti gli effetti fenomenologici riferiti dalle persone sotto l’effetto degli psichedelici, la dissoluzione dell’ego mi sembra di gran lunga il più importante e il più terapeutico. Ho trovato uno scarso consenso terminologico tra i ricercatori che ho intervistato; tuttavia, in ultima analisi, quando esplicitano le proprie metafore e i propri vocabolari – siano essi di natura spirituale, umanistica, psicoanalitica o neurologica –, essi indicano quale fondamentale fattore psicologico che orienta l’esperienza la perdita dell’ego o del sé (quella che Jung chiamava la «morte psichica»). È questa perdita a donarci l’esperienza mistica, il processo di far pratica della morte, l’effetto della veduta d’insieme, l’idea di un riavvio mentale, la costruzione di nuovi significati e l’esperienza dell’awe.

Consideriamo il caso dell’esperienza mistica: le sensazioni di trascendenza, sacralità, coscienza unitiva, infinitezza e beatitudine riferite dai soggetti possono tutte essere spiegate come ciò che una mente prova quando le viene improvvisamente a mancare il suo senso di essere, o di avere, un sé distinto. C’è forse da meravigliarsi se ci sentiamo tutt’uno con l’universo, nel momento in cui i confini tra il sé e il mondo, sorvegliati dall’ego, improvvisamente vengono meno? Poiché siamo creature che generano significati, la nostra mente cerca di escogitare nuove storie per spiegare quanto sta accadendo durante l’esperienza. Alcune di esse probabilmente saranno soprannaturali o «spirituali», se non altro perché i fenomeni sono così straordinari che è difficile dar loro una spiegazione utilizzando le nostre consuete categorie concettuali. Il cervello predittivo riceve un tal numero di segnali d’errore che è costretto a sviluppare nuove e stravaganti interpretazioni di un’esperienza che va oltre le sue capacità di comprensione.

Se poi le più grandiose di queste storie rappresentino una regressione al pensiero magico, come credeva Freud, oppure l’accesso a domini transpersonali quali l’«Intelletto in Genere», come credeva invece Huxley, è essa stessa una questione di interpretazione. Chi può dirlo con sicurezza? A me comunque sembra molto probabile che la perdita o la contrazione del sé faccia sentire più «spirituali», comunque si decida di definire la parola, e che questo tenda a far stare meglio.

Il consueto antonimo del termine «spirituale» è «materiale». Questo almeno è ciò che credevo quando ho cominciato questa ricerca – ovvero che l’intera questione della spiritualità dipendesse da una questione di metafisica. Adesso sono incline a pensare che probabilmente un antonimo di «spirituale» molto migliore e di certo più efficace sia «egotistico». Il sé e lo spirito definiscono gli estremi opposti di uno spettro, ma affinché quello spettro abbia per noi un significato non occorre che si spinga al cielo: può benissimo restare qui sulla terra. Quando l’ego si dissolve, si dissolve anche una concezione limitata non soltanto del nostro sé ma anche del nostro personale interesse. Immancabilmente, quella che emerge al suo posto è un’idea più ampia, più magnanima e altruistica – in altre parole, più spirituale – di ciò che conta nella vita: un’idea in cui sembra essere prominente un nuovo senso di connessione o di amore, comunque lo si definisca.

«Il viaggio psichedelico può non darle ciò che desidera,» fu il memorabile avvertimento di più d’una guida; «ma le darà ciò di cui ha bisogno». Credo che nel mio caso sia stato così – forse nulla di simile a ciò per cui mi ero imbarcato, ma adesso capisco che in definitiva il viaggio è stato un’educazione spirituale.