Lasciarsi attaccare per poter poi dire “Ha cominciato lui!”

1941: l’Europa è in gran parte in mano all’asse: Germania, Italia, Giappone. Gli USA non sono ancora in guerra. Ci entrano dopo l’attacco dei giapponesi a Pearl Harbor.

Secondo questa “teoria cospirativa” (sezione “Purple” – nel caso la pagina non ti si aprisse su quella direttamente – di questa pagina wikipedia come salvata su wayback machine il 31 maggio 2023), i giapponesi mandano alla propria ambasciata americana un messaggio cifrato diviso in 14 parti, le prime 13 con una cifratura chiamata “Purple” che i servizi USA possono leggere agevolmente dal 1940, l’ultima con un’altra cifratura, ancora molto difficile da decifrare per gli stessi servizi.

Il messaggio viene intercettato dai servizi USA: le prime 13 parti parlano solo di rottura dei rapporti diplomatici con gli USA, la quattordicesima, secondo il colonnello Bretton, pure.

Secondo altr*, che non vengono smentiti dal testo già linkato, Roosevelt lesse le prime 13 parti e disse “È guerra”. E quindi non capisco dove starebbe la cospirazione, in questa versione: Roosevelt sa a quel punto che gli USA saranno attaccati, e non dichiara guerra al Giappone, e non lo attacca, per non essere il primo a farlo: lascia che sia il Giappone ad attaccare (e solo poi dichiarare guerra) probabilmente soprattutto per poter sostenere in seguito che “han cominciato loro”; sacrificando per questo, scientemente,  2403 tra militari e civili.

E io sono convinto che qualcosa di simile sia accaduto tra il governo fascista e teocratico di Israele e i fascisti teocratici di Hamas intorno all’attacco di Hamas del 7 ottobre 2024: che i servizi israeliani non potessero non sapere che Hamas stava preparando il suo attacco, oppure che “ne sapessero poco” (abbastanza poco da poter sostenere, dal canto loro, che non erano segnali importanti, e dal canto del governo israeliano, che proprio non se l’aspettava, l’attacco), per la decisione del governo israeliano di concentrarli su altri “maggiori pericoli” che tra l’altro non sarebbero stati tali, almeno sul breve-medio termine, se il governo israeliano stesso non si fosse costruita così l’ennesima scusa per l’ennesimo macello espansionistico ai danni dei palestinesi, in cui ə militant* di Hamas catturat* o uccis* sono pochissim*, a fronte della decimazione ancora in corso della popolazione; anche perché si sa che Netanyahu, il quale avrebbe potuto impedirlo, ha lasciato per anni che Hamas venisse sostenuta economicamente dal Qatar.

El gato de Schrödinger

De El quark y el jaguar, de Murray Gell-Mann

En el dominio cuasiclásico, los objetos obedecen aproximadamente las leyes de la mecánica clásica. Se encuentran sujetos a fluctuaciones, pero éstas son sucesos individuales superpuestos a un patrón de comportamiento clásico. Sin embargo, una vez se produce una fluctuación en la historia de un objeto por lo demás clásico ésta puede verse arbitrariamente amplificada. Un microscopio puede aumentar la imagen de una partícula de tinta golpeada por una molécula y una fotografía puede preservar la imagen ampliada indefinidamente.

Esto nos trae a la memoria el famoso experimento mental del gato de Schrödinger, en el cual un suceso cuántico es amplificado de manera que decide si un gato resulta envenenado o no. Tal amplificación, aunque poco agradable, es perfectamente posible. Puede diseñarse un mecanismo de forma que la vida del gato dependa, por ejemplo, de la dirección que tome una partícula emitida por la desintegración de un núcleo atómico. (Empleando un arma termonuclear, podría decidirse de igual manera el destino de una ciudad).

La discusión clásica sobre el gato de Schrödinger se basa en la interferencia cuántica entre los escenarios del gato vivo y del gato muerto. Sin embargo, el gato vivo interacciona de modo considerable con el resto del universo —a través de su respiración, por ejemplo— e incluso el gato muerto interactúa hasta cierto punto con el aire. No sirve de nada encerrar al felino en una caja, porque la caja interactúa con el resto del universo, así como con el gato. De modo que hay abundantes oportunidades para la decoherencia entre las historias no detalladas en las que el gato vive y en las que muere. Los escenarios en los que el gato vive y aquellos en los que muere son decoherentes: no hay interferencia entre ellos.

Es tal vez este aspecto de la interferencia en la historia del gato lo que hace exclamar a Stephen Hawking: «Cuando oigo hablar del gato de Schrödinger, echo mano a mi pistola». Esta frase es en cualquier caso una parodia de otra que suele atribuirse a algún líder nazi, pero que de hecho aparece en la obra de teatro Schlageter, de Hanns Johst: «Cuando oigo la palabra Kultur, le quito el seguro a mi Browning».

Supongamos que el suceso cuántico que determina el destino del gato ha ocurrido ya; no sabremos lo que ha pasado hasta que destapemos la caja que encierra al animal. Dado que los dos resultados posibles son decoherentes, la situación no difiere del caso clásico en el que abrimos la caja que contiene a un pobre animal después de un largo viaje, tras el que no sabemos si está vivo o muerto. Se han gastados resmas de papel acerca del supuestamente misterioso estado cuántico del gato, vivo y muerto al mismo tiempo. Ningún objeto cuasiclásico real puede mostrar tal comportamiento, porque su interacción con el resto del universo conducirá a la decoherencia de las posibles alternativas.

Michael Pollan su Timothy Leary

Da Come cambiare la tua mente,
di Michael Pollan (Adelphi, 2019)

«A Harvard stavamo concependo pensieri storicamente estremi» scrisse in seguito Leary a proposito di quel periodo: convinti che «fosse arrivato il momento (dopo i superficiali e nostalgici anni Cinquanta) per visioni rivoluzionarie, sapevamo che l’America aveva esaurito la filosofia, e che era urgentemente necessaria una nuova meta-fisica empirica e tangibile». La bomba e la guerra fredda costituivano lo sfondo essenziale di quelle idee, conferendo al progetto un carattere d’urgenza.

Nel suo passaggio da scienziato a evangelizzatore Leary fu incoraggiato anche da alcuni degli artisti che aveva egli stesso iniziato agli psichedelici. In una memorabile seduta nella sua casa di Newton, nel dicembre del 1960, Leary diede la psilocibina al poeta beat Allen Ginsberg, un uomo che per vestire i panni del profeta visionario non aveva bisogno di alcuna induzione chimica. Verso la fine di un trip estatico, Ginsberg scese incespicando al piano di sotto, si tolse tutti i vestiti e annunciò la propria intenzione di marciare nudo per le strade di Newton predicando il nuovo vangelo.

«Insegneremo alla gente a smettere di odiare» disse, «inizieremo un movimento di pace e amore». Nelle sue parole si può quasi udire la nascita degli anni Sessanta, come un pulcino fluorescente ancora bagnato che rompe il guscio dell’uovo. Quando Leary riuscì a persuadere Allen a non uscire di casa (tra l’altro, era dicembre), il poeta andò al telefono e cominciò a chiamare vari leader mondiali, cercando di farsi passare Kennedy, Chruščëv e Mao Zedong, per cercare di appianare le loro divergenze. Alla fine riuscì a parlare solo con il suo amico Jack Kerouack, presentandosi come Dio («qui è D-I-O che parla») e dicendogli che doveva prendere quei funghi magici.

Al pari di chiunque altro.

Ginsberg era convinto che Leary, il professore di Harvard, fosse l’uomo perfetto per guidare la nuova crociata psichedelica. Per Ginsberg, il fatto che il nuovo profeta «emergesse dall’Università di Harvard», l’alma mater del neoeletto presidente, era un esempio di «commedia storica», giacché qui c’era «il solo e unico Dr. Leary, un essere umano rispettabile, un uomo navigato, messo di fronte al compito d’un Messia». Venendo dal grande poeta, quelle parole caddero come semi sul terreno fertile e ben innaffiato dell’ego di Timothy Leary. (Il fatto che le sostanze psichedeliche possano promuovere un’esperienza di dissoluzione dell’ego, la quale in alcuni individui porta poi rapidamente a una sua colossale espansione, è uno dei loro numerosi paradossi. Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo, chi riceve tale conoscenza tende a sentirsi speciale, prescelto per grandi imprese).

[«Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo», mah, boh, io al massimo poi così]

Genetica, epigenetica e concezione anarchica del vivente

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021),
6.3. L’epigenetica risolve i problemi della genetica

Ai giorni nostri, quando la spiegazione genetica viene colta in fallo, il ricorso all’epigenetica e all’ambiente è diventato un leitmotiv, una sorta di formula magica che si ritiene in grado di risolvere le difficoltà. È incontestabile che l’ambiente e le modificazioni della cromatina dette epigenetiche sono fattori importanti, ma la questione è sapere in che modo influenzano il funzionamento cellulare. Di solito la loro azione è interpretata in un sistema di pensiero informazionale e deterministico. Ci troviamo allora di fronte allo stesso problema presentato dal determinismo genetico. In che modo i fattori epigenetici o quelli ambientali possono esercitare un effetto specifico se gli effettori proteici che dovrebbero veicolarli nelle cellule non lo fanno? Prendiamo un esempio concreto. Il lievito Saccharomyces cerevisiae modifica il proprio comportamento o funzionamento in risposta a segnali ambientali differenti. Si tratta ad esempio della risposta a un feromone sessuale, a un cambiamento di pressione osmotica nell’ambiento o a una crescita filamentosa. Ma in tutti questi casi il lievito usa le stesse proteine non-specifiche. Come può in queste condizioni discriminare tra segnali differenti e ottenere una risposta adeguata? La questione del determinismo ambientale si pone con la stessa gravità riscontrata nel determinismo genetico. Di per sé, invocare l’influenza dell’ambiente non è una soluzione: adesso i determinismi problematici sono due!

La concezione anarchica diverge in maniera netta dall’epigenetica, così come viene abitualmente concepita, perché rinuncia all’idea di un supporto stabile dell’ereditarietà contenuto nei geni, e perché considera l’ontogenesi non come una diversificazione o un’interpretazione dell’informazione genetica, ma come una restrizione del gioco probabilistico del vivente. In questo quadro, l’azione dell’ambiente non è più quella di indurre effetti in maniera deterministica, ma quella di selezionare gli stati cellulari aleatori per la loro stabilizzazione. Perciò la non-specificità delle proteine non è più un problema. Diventa possibile integrare i ruoli delle modificazioni della cromatina: esse non sono un codice epigenetico portatore di informazioni. Sono gli effettori biochimici a consentire la stabilizzazione della cromatina.

Chi​dove​quando​come​cosa​perché

In risposta a questo post fediversico di Gubi: si sono tutte cose belle e giuste e utili e sarebbe bello si diffondessero di più, ma sono anche cose che non si è mai smesso di fare e che non si sono mai diffuse granché, anzi a occhio mi pare siano sempre più minoritarie, forse soprattutto per la repressione sempre più pesante e, per quanto riguarda il tirare in mezzo più gente, secondo me anche o forse soprattutto perché non si definisce in modo almeno vagamente unitario cosa vogliamo fare per risolvere i problemi sempre più enormi in cui stiamo precipitando, e non solo per ammortizzarne gli effetti; ma tra l’altro penso nessuno creda davvero che i sacrosantissimi, meravigliosissimi e sempre sian lodati orti autogestiti, la guerriglia piantamento alberi, filiere corte e mangiare poca carne o niente, occupazioni di case e posti sociali, masse critiche, server sicuri, recupero di hardware vecchio, videogiochi raramente indipendenti, commenti critici più o meno ficcanti e-o efficacemente ironici sui social intorno alle cose sempre più turpi che stanno accadendo, antiproibizionismo non sempre tanto consapevole per non dire poco, e far l’amore ognun* come gli va ma non sempre (porco dio) rispettoso di come davvero va a ognun* — penso nessuno poi creda davvero che tutte queste cose, sacrosante e meravigliose ma a volte anche poco, se anche si diffondessero tanto di più sarebbero una rete in grado di ammortizzare più che poco il dilagare dello spremimento lavorativo a cui sempre più gente è costretta per sopravvivere male, quello del fascismo, quello della miseria materiale – anche quella di chi ancora può tentare di scappare da inferni per ora comunque ben peggiori del nostro -, di quella culturale, e poi soprattutto le siccità e le alluvioni, il clima che ieri era primavera e oggi è autunno inoltrato e in mezzo c’è stato il vento che fa danni sempre più gravi e la grandine coi chicchi da 2 etti che distrugge le coltivazioni, il probabile estendersi della guerra tra russia e ucraina e-o di altri fronti a venire, la relativa crescita della probabilità di ricorso ad armi atomiche, ecc. — figuriamoci fermarli e magari svoltarli.

Chiarito ormai che dall’alto nessun* ha fatto, sta facendo o farà mai cose utili anche solo ad arginare tutto ciò, e che ne sta facendo e continuerà a farne invece di sempre più dannose, cos’altro potremmo fare in pratica per fermare questo disastro, e magari svoltarlo, se non un’Internazionale per tentare di prendere le terre, gli allevamenti, le infrastrutture industriali critiche per spegnere quelle inquinanti e costruire le alternative sostenibili per la produzione energetica e coltivare la terra coi trattori a elettricità pulita e lasciandola riposare invece di usare l’azoto di sintesi che ha un consumo energetico enorme, e chiudere gli allevamenti industriali in cui gli animali, oltre a fare vite d’inferno, consumano quantità immani di acqua e cibarie che vengono da coltivazioni ad azoto di sintesi, ecc., ecc.?

Forse se definissimo meglio di come ho fatto qui come fare queste cose sempre più necessarie anche solo per uno straccio di sopravvivenza, delineando meglio anche come ci organizzeremmo socialmente nell’anarchia distribuita, riusciremmo a tirare in mezzo abbastanza gente per farle davvero.

O forse no.

Boh, però magari avrebbe senso provarci, forse un contesto buono per cominciare a parlarne anche informalmente potrebbe essere questo.

Skinamarink

Una volta, da piccolo, avrò avuto tra i 6 e gli 8 anni, ero a casa con mio padre perché avevo una influenza forte, con febbre alta arginata da qualche farmaco. Dopo aver mangiato per pranzo, con poca voglia, una minestrina preparatami da lui, tornai a letto ed ebbi, tra sonno e veglia, quello che ancora ricordo come l’incubo peggiore della mia vita. Mentre stavo lì sul letto, mio padre entrò in camera e abbassò la tapparella in modo tale per cui la sua estremità inferiore toccava il davanzale, la sua parte inferiore era completamente chiusa, ma nella parte superiore rimanevano, tra i listelli, delle fessure da cui entrava un po’ di luce. Questo probabilmente avvenne nella realtà, e io poi, in sogno, guardando la luce che filtrava tra i listelli della tapparella, in alto, sentii una vocina strana, molto acuta, che sembrava venire da qualche parte vicino, davanti o dietro la tapparella, e che disse “Tuo padre è morto”, e io in quel momento “capii” che era stato decapitato dalla tapparella, e ne fui così terrorizzato che non riuscivo più a muovermi nel letto e l’idea di alzarmi e passare di fronte alla tapparella mi spaventava a morte. Nel sogno entrò poi in camera mia nonna, andava verso la tapparella e pensai volesse risollevarla, avrei voluto avvertirla che era pericolosa, che aveva ucciso mio padre, che c’era qualcuno che forse l’aveva usata per farlo, ma non riuscivo nemmeno a parlare. Mia nonna aprì la tapparella e la tapparella subito si richiuse, la vocina disse “Tua nonna è morta”, io immaginai che mia nonna fosse stata decapitata dalla tapparella, come già mio padre, ma non riuscivo nemmeno a sporgermi dal letto per guardare se sul pavimento davanti alla finestra ci fossero i loro corpi. In seguito entrarono altri miei parenti, e ogni volta andava come già ho raccontato riguardo a mia nonna. A un certo punto mi svegliai, senza rendermi conto di svegliarmi e quindi convinto che tutto quello che avevo visto fosse accaduto davvero. La tapparella era alzata, forse nella realtà mio padre nel frattempo era entrato e l’aveva rialzata. Con la luce mi sentii un po’ meno terrorizzato e riuscii a sporgermi dal letto e guardare sul pavimento: ovviamente non c’erano corpi, ma pensai che forse erano stati spostati, o fatti sparire in qualche modo, e sebbene un flebile dubbio che tutto quello che avevo visto fosse stato un sogno cominciasse a farsi strada in me, rimasi quasi convinto che tutti quei miei parenti, che erano quelli a me più cari, fossero morti. Il gatto che avevamo allora, un micino bianco e nero, giovane a quel tempo, si spostò dai piedi del letto e venne ad accoccolarsi sulla mia pancia. Cominciai a piangere e presi ad accarezzarlo mormorando “È finita, è finita”, e continuai a piangere a lungo: pensavo di essere rimasto solo al mondo, a parte lui. Poi sentii dei rumori in cucina, mi alzai e andai alla porta della mia camera, che era chiusa, e ascoltai con attenzione. Qualcuno stava lavando i piatti. Forse era mio padre, forse davvero avevo sognato. La paura di scoprire che non era così era fortissima e rimasi a lungo in piedi davanti alla porta chiusa con la mano sulla maniglia, ma ascoltando i rumori che venivano dalla cucina andavo convincendomi un po’ di più che fosse stato tutto un sogno e dopo un po’ aprii la porta, con grande ansia andai in cucina e vidi mio padre che stava asciugando i piatti. Mi chiese “Come va?” e risposi “Ho fatto un incubo tremendo”, forse aggiunsi “ho sognato che morivate tutti”, forse poi gli raccontai il sogno più nel dettaglio, non ricordo, comunque dopo questo episodio, per qualche giorno, prima di andare a letto la sera ci guardavo sotto perché temevo di trovarci i corpi di qualche parente o amico (in particolare di mia nonna).

Credo tutto questo risulti tutto sommato abbastanza normale a chi ricorda com’è essere bambini, e che possa risultare strano solo a chi non lo ricorda più.

Skinamarink è un film che tenta di far vivere o rivivere questo tipo di esperienze oniriche infantili a chi lo guarda, e con me ci è riuscito abbastanza bene, nonostante a tratti mi abbia un po’ annoiato, però lo consiglio solo a un pubblico adulto, perché temo che invece per un pubblico giovane rischi di essere troppo terrificante, temo rischi di amplificarne le paure invece di aiutarlo ad affrontarle.

Quello che segue è un po’ uno spoiler, con una interpretazione mia del film, un po’ scherzosa e un po’ no. Per leggerlo basta selezionarne il testo nascosto.

From “Entangled life”

From Entangled Life. How Fungi Make Our Worlds,
Change Our Minds and Shape Our Futures
, Merlin Sheldrake, 2020

From the Introduction

Fungal solutions don’t stop at human health. Radical fungal technologies can help us respond to some of the many problems that arise from ongoing environmental devastation. Antiviral compounds produced by fungal mycelium reduce colony collapse disorder in honeybees. Voracious fungal appetites can be deployed to break down pollutants, such as crude oil from oil spills, in a process known as mycoremediation. In mycofiltration, contaminated water is passed through mats of mycelium, which filter out heavy metals and break down toxins. In mycofabrication, building materials and textiles are grown out of mycelium and replace plastics and leather in many applications. Fungal melanins, the pigments produced by radio-tolerant fungi, are a promising new source of radiation-resistant biomaterials.

From chapter 7, Radical mycology

IN THE CARBONIFEROUS period, 290 to 360 million years ago, the earliest wood-producing plants spread across the tropics in swampy forests, supported by their mycorrhizal fungal partners. These forests grew and died, pulling huge quantities of carbon dioxide out of the atmosphere. And for tens of millions of years, much of this plant matter didn’t decompose. Layers of dead and un-rotted forest built up, storing so much carbon that atmospheric carbon dioxide levels crashed, and the planet entered a period of global cooling. Plants had caused the climate crisis, and plants were hit the hardest by it: Huge areas of tropical forest were wiped out in an extinction event known as the Carboniferous rainforest collapse. How had wood become a climate-change-inducing pollutant?

From a plant perspective wood was, and remains, a brilliant structural innovation. As plant life boomed, the jostle for light intensified, and plants grew taller to reach it. The taller they became, the greater their need for structural support. Wood was plants’ answer to this problem. Today, the wood of some three trillion trees—more than fifteen billion of which are cut down every year—accounts for about sixty percent of the total mass of every living organism on Earth, some three hundred gigatons of carbon.

Wood is a hybrid material. Cellulose—a feature of all plant cells, whether woody or not—is one of the ingredients and the most abundant polymer on earth. Lignin is another ingredient, and the second most abundant. Lignin is what makes wood wood. It is stronger than cellulose and more complex. Whereas cellulose is made up of orderly chains of glucose molecules, lignin is a haphazard matrix of molecular rings.

To this day, only a small number of organisms have worked out how to decompose lignin. By far the most prolific group are the white rot fungi—so-called because in decomposition they bleach wood a pale color. Most enzymes—biological catalysts that living organisms use to conduct chemical reactions—lock onto specific molecular shapes. Faced with lignin, this approach is hopeless; its chemical structure is too irregular. White rot fungi work around the problem using nonspecific enzymes that don’t depend on shape. These “peroxidases” release a torrent of highly reactive molecules, known as “free radicals,” which crack open lignin’s tightly bonded structure in a process known as “enzymatic combustion.”

Fungi are prodigious decomposers, but of their many biochemical achievements, one of the most impressive is this ability of white rot fungi to break down the lignin in wood. Based on their ability to release free radicals, the peroxidases produced by white rot fungi perform what is technically known as “radical chemistry.” “Radical” has it right. These enzymes have forever changed the way that carbon journeys through its earthly cycles. Today, fungal decomposition—much of it of woody plant matter—is one of the largest sources of carbon emissions, emitting about eighty-five gigatons of carbon to the atmosphere every year. In 2018, the combustion of fossil fuels by humans emitted around ten gigatons.

How did tens of millions of years’ worth of forest go un-rotted over the Carboniferous period? Opinions differ. Some point to climatic factors: Tropical forests were stagnant, waterlogged places. When trees died, they were submerged in anoxic swamps, where white rot fungi were unable to follow. Others suggest that when lignin first evolved in the early Carboniferous period, white rot fungi weren’t yet able to decompose it and required several million more years to upgrade their apparatus of decay.

So what happened to the vast areas of forest that didn’t decompose? It’s an inconceivably large amount of matter to pile up, kilometers deep.

The answer is coal. Human industrialization has been powered on these seams of un-rotted plant matter, somehow kept out of fungal reach. (If given the chance, many types of fungi readily decompose coal, and a species known as the “kerosene fungus” thrives in the fuel tanks of aircraft.) Coal provides a negative of fungal histories: It’s a record of fungal absence, of what fungi did not digest. Rarely since then has so much organic material escaped fungal attention.

I lay buried among white rot fungi for twenty minutes, slow-cooked by their radical chemistry. My skin seemed to dissolve into the heat, and I lost track of where my body started and stopped; a complex cuddle, blissful and unbearable in turn. No wonder coal can give off such heat: It is made from wood that hasn’t yet been burned. When we burn coal, we physically combust the material that fungi were unable to combust enzymatically. We thermally decompose what fungi were unable to decompose chemically.

La “Nota dell’Autore”, Philip K. Dick, alla fine di “Un oscuro scrutare”

Quello che avete letto è un romanzo che riguarda alcune persone che sono state punite eccessivamente per quello che hanno fatto. Volevano divertirsi, ma si comportarono come quei bambini che giocano per strada, che per quanto possano vedere come ciascuno di loro, l’uno dopo l’altro, rimanga ucciso, travolto, mutilato, annientato, non per questo smettono di giocare. Per un certo lasso di tempo noi tutti siamo stati per davvero felici, seduti qua e là senza faticare, semplicemente cazzeggiando e giocando. Ma questo lasso di tempo è stato terribilmente breve e la punizione che ne è seguita è stata al di là di ogni immaginazione; e anche quando infine la vedemmo abbattersi su di noi, non riuscivamo a crederci. Per esempio, mentre stavo scrivendo questo libro ho appreso che la persona su cui ho modellato il personaggio di Jerry Fabin si era suicidata. L’amico, da cui ho tratto le caratteristiche del personaggio di Ernie Luckman, è morto prim’ancora che cominciassi il romanzo. Per un po’ di tempo io stesso sono stato uno di questi bambini che giocano per strada; come tutti loro, cercavo semplicemente di giocare invece di fare l’adulto, e sono stato punito. Io sono nell’elenco che riporto più giù, che è l’elenco di coloro ai quali è dedicato questo romanzo, con tutto quello che di loro è avvenuto.

L’abuso di droga non è una malattia, è una decisione, come quella di sbucare davanti a un’auto in corsa. Questa non la si definirebbe una malattia ma un errore di valutazione. Quando un certo errore comincia a essere commesso da un bel po’ di persone, allora diviene un errore sociale, uno stile di vita. E in questo particolare stile di vita il motto è: ‘Sii felice oggi perché domani morirai’; ma s’incomincia a morire ben presto e la felicità è solo un ricordo. In definitiva, allora, l’abuso di droga è soltanto un’accelerazione, un’intensificazione dell’ordinaria esistenza di ciascun uomo. Non è differente dal tuo stile di vita, è semplicemente più veloce. Tutto avviene nel giro di mesi o di settimane o di giorni, invece che di anni. ‘Prendi i contanti e lascia andare i crediti,’ diceva Villon nel 1460. Pensarla così può essere un errore, se i contanti sono un soldo e i crediti una vita intera.

Non c’è una morale in questo romanzo, non ve n’è di certo una borghese. Non vi si dice che va considerato sbagliato il fatto che loro giocassero invece di faticare; si raccontano semplicemente quali sono state le conseguenze della loro scelta. Nel teatro greco si cominciò, in ambito sociale, a scoprire la scienza, il che vuol dire la legge di causa-effetto. Qui, in questo romanzo, agisce dunque la Nemesi: non il destino, perché ciascuno di noi avrebbe potuto scegliere di smettere di giocare per strada, ma, così come avrete potuto evincere da questa narrazione sorta dalla parte più intima della mia vita e dei miei affetti, una terribile Nemesi per tutti coloro che hanno continuato a giocare. Io stesso non sono un personaggio di questo romanzo: io sono il romanzo. Tuttavia, così appariva la nostra nazione in quel periodo. Questo romanzo riguarda molte più persone di quante ne abbia conosciuto personalmente. Di alcune di loro, noi tutti abbiamo letto qualcosa sui giornali. È stata, quella di starsene seduti qua e là con i nostri amiconi a cazzeggiare e a registrare le stronzate che dicevamo, la decisione sbagliata di un intero decennio, gli anni Sessanta, sia dentro sia fuori dal sistema. E la natura ci è rovinata addosso. Siamo stati costretti a smettere da cose terribili.

Se queste persone hanno commesso un ‘peccato’, è stato quello di voler continuare a divertirsi per sempre, e sono state punite per questo; ma, come ho già detto, se si tratta per davvero di una punizione, sento che è stata eccessiva. Pertanto preferisco pensare a ciò soltanto alla maniera del teatro greco, vale a dire in termini moralmente neutri, come pura scienza, come rapporto deterministico e imparziale di causa-effetto. Li ho amati tutti. Questo è l’elenco di coloro ai quali dedico il mio amore:

A Gaylene, defunta.
A Ray, defunto.
A Francy, psicosi permanente.
A Kathy, disturbi cerebrali permanenti.
A Jim, defunto.
A Val, gravi disturbi cerebrali permanenti.
A Nancy, psicosi permanente.
A Joanne, disturbi cerebrali permanenti.
A Maren, defunta.
A Nick, defunto.
A Terry, defunta.
A Dennis, defunta.
A Phil, disturbi permanenti al pancreas.
A Sue, disturbi vascolari permanenti.
A Jerri, psicosi permanente e disturbi vascolari.

…E così via.

In memoriam. Questi sono stati i miei compagni; non ce ne sono di migliori. Restano nella mia memoria e il nemico non sarà mai perdonato. Il ‘nemico’ è stato il loro errore durante il gioco. Che possano tutti loro giocare ancora, in un qualche altro modo, e che siano felici.

Azoto di sintesi

Da Il dilemma dell’onnivoro, di Michael Pollan

La scoperta dell’azoto di sintesi ha rivoluzionato molte cose: non solo nella coltivazione del mais, non solo nella catena alimentare, ma nel modo stesso in cui si svolge la vita sulla terra. L’azoto è fondamentale nei cicli biologici, perché è il mattone con cui in natura si costruiscono aminoacidi, proteine e acidi nucleici: l’informazione genetica che dirige e fa replicare i viventi è scritta con questo elemento (ecco perché si dice che l’azoto rappresenta la qualità della vita e il carbonio la quantità). Ma le riserve di azoto disponibili sul nostro pianeta sono limitate. Anche se costituisce circa l’ottanta per cento dell’atmosfera, l’azoto allo stato naturale si trova in forma di molecola inerte, costituita da due atomi strettamente legati tra loro, e dunque inutilizzabile. Nelle parole del celebre chimico ottocentesco Justus von Liebig, l’azoto atmosferico è «indifferente a tutte le altre sostanze». Per essere di una qualche utilità a piante e animali, questi atomi egocentrici devono essere separati e uniti all’idrogeno, in modo da poter formare molecole sfruttabili dagli esseri viventi: in chimica, questo processo si definisce «fissazione». Fino al 1909, quando Fritz Haber, un chimico tedesco di origine ebraica, scoprì il trucco giusto, tutto l’azoto sfruttabile sulla terra era stato sicuramente fissato da certi batteri che vivono sulle radici delle leguminose (come ad esempio i piselli, l’erba medica o la soia), o più raramente da un fulmine, la cui corrente è in grado di spezzare gli atomi di azoto nell’aria, facendoli ricadere al suolo come una fertile pioggia.

«Non c’è modo di far crescere piante o uomini senza azoto» scrive il geografo Vaclav Smil nella sua affascinante biografia di Fritz Haber (intitolata Enriching the Earth). Prima del 1909, la quantità totale di vita che la terra poteva sostenere – ossia l’estensione delle aree coltivate e il numero di esseri umani – era limitata dalla quantità di azoto fissata dai batteri e dai fulmini. All’inizio del Novecento, in Europa ci si accorse che se non si fosse aumentata la disponibilità di questo elemento la crescita della popolazione umana avrebbe presto subìto una dolorosa battuta d’arresto. Qualche decennio dopo la Cina arrivò alle stesse conclusioni, ed è probabilmente per questo motivo che decise di aprirsi all’Occidente: dopo il primo viaggio di Nixon nel 1972, il governo cinese commissionò subito alle ditte americane l’apertura di tredici colossali fabbriche di fertilizzanti, senza le quali, forse, il paese si sarebbe ridotto alla fame.

Ecco perché Smil potrebbe non essere così lontano dal vero quando afferma che l’invenzione più importante del ventesimo secolo è stata il processo Haber-Bosch (Carl Bosch ebbe il merito di rendere sfruttabile commercialmente l’idea di Haber). Secondo le sue stime, senza l’invenzione del chimico tedesco due abitanti del pianeta su cinque non sarebbero vivi, oggi. È possibile, dice Smil, immaginare la terra senza computer, o energia elettrica, ma senza i concimi di sintesi miliardi di individui non sarebbero neppure venuti al mondo. Anche se, come suggeriscono questi numeri, quando Haber ci ha dato il potere di fissare l’azoto abbiamo forse stretto con la natura un patto faustiano.

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E2ee and the web

English version

I wonder how including end-to-end encryption in a webapp, like corporations such as whatsapp, telegram, protonmail, tutanota and probably many others already do, could not be a bad idea even for less commercial projects like Mastodon, etc., basically for a very simple reason: every time a user’s browser connects to an url, it downloads from the server code (html, javascript, ecc.) that, despite showing a potentially identical interface to the user, can be different and do different things than the code the browser downloaded from the same url the previous time, so there’s no way for third parties to check that code and verify it doesn’t do malicious things, and even without big technical skills a malicious admin of a web server claiming to host a webapp implementing end-to-end encryption can alter it, even just for a short amount of time, so that the server, to make an example, will send to the browser of a single targeted user – let’s call him Pippo -, even just once, code that will make it do things which Pippo doesn’t want it to do, such as sending his private key, on first submission of a new post/message, to a mailbox owned by the admin, which would allow the admin, soon after that, to revert the webapp to its official version, having by then obtained the possibility to decrypt and thus read, since that very moment, all the posts or messages which Pippo will continue to consider accessible only to his recipients, as well as the possibility to impersonate him, without risking any longer Pippo noticing it before he possibly finds himself in big troubles, and maybe even later.

A false sense of security is worse than no security at all, thus i think it would be better to not implement end-to-end encryption in webapps, warning their users that anything they send will be potentially readable by the admins, and reserving end-to-end encryption to “classical” apps which are distributed by safer means like f-droid.

Versione in italiano

Mi chiedo in che modo implementare la crittografia end-to-end in una webapp, come già fanno aziendone quali whatsapp, telegram, protonmail, tutanota e chissà quante altre più piccole, potrebbe non essere una cattiva idea anche per progetti meno commerciali come Mastodon, ecc., fondamentalmente per un motivo molto semplice: ogni volta che il browser di un utente accede a una url, scarica dal server del codice (html, javascript, ecc.) che, pur mostrando all’utente un’interfaccia potenzialmente identica, può essere diverso e fare cose diverse rispetto al codice che il browser ha scaricato dalla stessa url la volta precedente, quindi non c’è modo per terze parti di controllare quel codice e verificare che non faccia cose cattive, e anche senza grandi conoscenze e capacità tecniche un admino malevolo di un server web che dichiari di ospitare una webapp che implementa crittografia end-to-end può alterarla, anche solo per un breve lasso di tempo, in modo che il server, per fare un esempio, mandi al browser di un singolo utente preso di mira – chiamiamolo Pippo -, anche una volta sola, del codice che gli farà fare cose che Pippo non vorrebbe facesse, come mandare la sua chiave privata a una mailbox dell’admino al primo invio, da parte di Pippo, di un nuovo post/messaggio, ciò che permetterebbe all’admino di ripristinare, subito dopo, la webapp ufficiale, avendo nel frattempo ottenuto la possibilità di decrittare e quindi leggere, da quel momento in poi, tutti i post o i messaggi che Pippo continuerà a presumere accessibili soltanto ai suoi destinatari, come pure quella di impersonarlo, senza più nemmeno il remotissimo rischio che Pippo se ne accorga prima di trovarsi magari in guai seri, e forse anche dopo.

Un falso senso di sicurezza è peggio di nessuna sicurezza, meglio quindi una webapp che non implementa crittografia end-to-end ma avverte gli utenti che qualsiasi cosa inviino tramite la stessa può essere letta dagli admin, riservando la crittografia end-to-end alle app “classiche” distribuite tramite sistemi più sicuri tipo f-droid.