Citazioni da «La vita inaspettata» di Telmo Pievani, e una piccola critica

Da La vita inaspettata,
di Telmo Pievani


Oggi su quegli altri quattro quinti della storia della vita sappiamo molto di più. Ma il messaggio che ci restituisce il tempo profondo è spiazzante, perché scopriamo anzitutto che l’evoluzione nelle sue prime fasi ha probabilmente preferito molto più l’associazione della competizione.

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Le specie non sono reali

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (Elèuthera, 2021),
introduzione al capitolo quarto

Il darwinismo e la genetica insieme formano il quadro teorico della biologia moderna che si è deciso di chiamare «teoria sintetica dell’evoluzione» o «neodarwinismo»1. Queste due teorie sono solitamente ritenute complementari al punto che opporsi a una vorrebbe dire opporsi anche all’altra. Può quindi sembrare paradossale criticare la genetica e al tempo stesso puntare i riflettori sulla teoria di Darwin. Ma non dimentichiamo che storicamente la loro sintesi è stata difficile. C’è voluto quasi un secolo per appianare alcune importanti divergenze2. Lungi dall’essere la teoria cristallina che si pensa, questa teoria sintetica nasconde una contrapposizione di fondo. Il darwinismo e la genetica si concentrano su aspetti diversi del vivente, o meglio su aspetti fra loro contraddittori. Darwin si interessa all’evoluzione e quindi alla variazione dei caratteri che ne costituisce il substrato, mentre la genetica cerca di spiegare la trasmissione intergenerazionale dei caratteri, cosa che all’opposto presuppone la conservazione degli stessi. Quando si è compiuta la sintesi fra le due, è andato perduto l’aspetto più radicale e innovativo del pensiero darwiniano. Mentre Darwin aveva rotto con i naturalisti che l’avevano preceduto, considerando la variazione come la proprietà primaria del vivente, la genetica ha riportato in auge l’invarianza.

Per cogliere fino a che punto il darwinismo è stato snaturato bisogna tornare alla genesi della teoria dell’evoluzione. La teoria della selezione naturale non è semplicemente il risultato di un accumulo di osservazioni che apportano prove empiriche a partire dalle quali la deduzione della teoria è obbligata. Essa è anche il compimento di una rivoluzione ontologica che tocca la questione della specie. Si tratta di un problema filosofico molto antico le cui implicazioni per la scienza sono critiche. Il termine «specie» indica gruppi di individui che si assomigliano, ma qual è lo statuto di questi raggruppamenti? Sono oggettivi o soggettivi? Le specie indicano classi reali esistenti indipendentemente dalla soggettività dei classificatori? A seconda della risposta data a questa questione concepiamo il mondo in maniera differente. Se le specie sono reali, esiste un ordine oggettivo corrispondente a queste specie. Se sono soggettive, cioè se sono solo raggruppamenti arbitrari che dipendono dal nostro potere di discernimento o comunque da criteri di nostra scelta, l’ordine che percepiamo non è reale. È relativo alla nostra percezione e alla nostra capacità cognitiva. I filosofi e i naturalisti hanno sostenuto due categorie di risposte. Le specie sono reali per i «realisti», ovvero indipendenti dalla nostra soggettività. Mentre per i «nominalisti» le specie non sono reali, ma sono costruzioni arbitrarie elaborate dagli umani3.

In questo capitolo riesamineremo la teoria sintetica. L’analisi mostrerà che è necessario dissociare darwinismo e genetica. In un primo tempo verrà esaminata la rottura che Darwin ha operato rispetto ai suoi predecessori. Vedremo che il fatto di non riuscire a sbarazzarsi dell’idea di un ordine naturale è ciò che ha impedito loro di formulare una teoria dell’evoluzione compiuta. Tale ordine corrisponde, in ultima analisi, alla messa in atto del disegno divino, che induce alla creazione di specie fisse nella loro essenza e nelle relazioni fra loro. All’opposto, Darwin ha confutato il realismo della specie e si è fatto carico di un nominalismo che riconosce la variazione come il principio primo del vivente. In virtù di questo fatto, il vivente è, a suo parere, un flusso continuo che fa variare gli esseri all’infinito, annichilendo ogni possibilità di instaurare un ordine naturale. Le ontologie antagoniste di darwinismo e genetica non sono mai state riconciliate nella loro cosiddetta sintesi. Predomina l’una o l’altra a seconda delle circostanze, degli ambiti di studio o degli autori. Nel caso dell’ontogenesi si è imposta l’ontologia della genetica con il suo corollario: un rigido determinismo. Ed è appunto questo il motivo per cui è importante capire questa storia: per dissociare il darwinismo dalla genetica e dissolvere così l’illusione di ordine che tale associazione fa perdurare.


1. Queste due espressioni non sono esattamente sinonimi. «Neodarwinismo» indica la reinterpretazione del lavoro di Darwin compiuta nel XIX secolo da alcuni precursori della genetica, soprattutto Weismann, mentre «teoria sintetica dell’evoluzione» indica la sintesi che ha fatto il suo esordio nella prima metà del XX secolo integrando dapprima darwinismo e genetica delle popolazioni e poi anche altre discipline fra cui la biologia molecolare. Oggi, però, le due espressioni sono spesso utilizzate come sinonimi in senso lato.

2. Peter J. Bowler, The Eclipse of Darwinism, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1983; Jean Gayon, Darwinism’s Struggle For Survival, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2007.

3. Il termine «realista» deriva dalla disputa sugli universali. È quasi sinonimo del termine «essenzialista», inventato nel XX secolo.

The necessary socialist International

[Last edited on Tuesday, 22 August 2025]

Like Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta, Emma Goldman and so many other anarchists, i think we need to take the means of production and the cultivated lands, in order to finally end it with this domination of exploitation, violence and death that patriarcapitalism is, and to save ourselves, our children and the future generations, because in addition to the usual exploitation and violence there’s the huge ecological problem, one of the most problematic elements of which is the average temperature of the world rising, while greenhouse gas emissions continue to increase, mainly driven by energy production and consumption for which “renewables” are not a real alternative, despite the many decades of peaceful pressures on governments and companies that we acted in every sauce from below, and climate change is only one of the six of nine planetary boundaries we are far beyond.

A “forced-by-nature-degrowth” would happen when it would be too late for our species and so many others to not extinguish and, at the same time, “degrowth-by-our-will” is impossible as well: it’s impossible that the people in the US, in Europe, in China, in Russia, in all these “developed” countries, and particularly the upper classes, who are by far the greatest GHG emitters, will “degrow” in numbers high enough and in times short enough to get our species out of the very sorrowful extinction by famine, thirst, warfare and pandemics, that we are already living today in many territories. This is why i think there’s no alternative to taking the lands, to cultivate them without polluting, to take and close the industrial “meat factories”, to take the means of production and turn off all the polluting ones.

Agricolture today produces the second most important part of greenhouse gases, but it is possible to cultivate without resorting to fossil fuels burning, that today is mostly used to produce synthetic nitrogen, by practicing agroforestry and permaculture, that are more productive than industrial agricolture and don’t pollute, so it would be possible to start anew everywhere, more or less on the model of Kurdish democratic confederalism, as a world of small communities, that in the cities would be municipalities, and in smaller towns the town itself, where decisions would be taken and current rules would be abrogated or redefined and refined in assemblies that would be open to all, with the municipalities commercially relating one another by public assemblies as well – because it should be clear by now, also due to the historical experiences of “real communisms,” with their marxist nonsense of the “dictatorship of the proletariat,” which produced some of the worst nefariousness in history, that social justice and good levels of social equality require to be backed by the constant possibility of open and public verbal confrontation about what to do with common goods and common spaces, and about which rules to give ourselves.

This kind of social organization has precedents in history, and today it would be easier to achive, with global free access for all to lay, egalitarian education and knowledge of horrors of the past, with the abolition of licenses and patents, and with the possibility for all to sublimate their “dark sides” in creativity and lash them out in harmless ways through arts, frugal sports and free, respectful love.

Yet time is crucial, and it’s running out not least with respect to the risk of extinction by ecological issues (climate change, loss of biodiversity, ocean acidification and so on), but especially with respect to the increasing probability that this umpteenth crisis of capitalism will end up again in an unfolded third world war, that would be an acceleration towards the extinction of our species and so many others, through the spread of worse and worse nationalisms and the already ongoing wars, that are still mainly driven by nationalist conflicting wills to hoard raw materials that we should have stopped using yesterday, such as fossil fuels and so many others.

This crisis of capitalism that we are living today is not only the umpteenth of a series of crises that have been increasingly damaging, but it’s also unprecedented, with its enormous ecological implications that are now, already tragic, with the amount of death and pain they have already caused and are causing now in the world, that would just get more and more tragic with the worsening of the already and since long ongoing crisis in the ability of the living to reproduce even in order to feed us, and with the worsening of water scarcity and drought that is already ongoing, and with so many other problems that patriarcapitalism has caused and is causing and that would certainly form a whole which, as if one or a few of its parts wasn’t enough, would be fatal for our species and so many others – unless we actually organize and do the socialist International we need to do, quickly, to transform what otherwise would certainly be a bitter and very painful end for most or all of us into the foundation and the beginning of a new and much more peaceful, just and happy world for all to live in. Because that which is holy and sacred is not much our individual lives, but life itself, that just can’t be stopped, and in order to be a living and healthy part of it, and to most peacefully live our individual lives in it, the upper classes, the higher they are, still have to understand that it is the only “god”, and that they are those who have the most to learn from it.

The socialist International could and would much better start from rich countries, where conscience of the huge inequalities of patriarcapitalism is more widespread and material and cultural conditions are still better than in those many countries where the vast majority of the people of the world lives. By putting an end to the domination of the masters and rulers in our countries we would not only save and free ourselves and our people, but also directly and greatly alleviate the semi-slavery conditions, that in many cases are materially worse than those of actual slavery, of people in the poorest countries, where the local rulers and masters would then no longer receive the more or less overt or covert support and the weapons they receive today from our rulers and masters, who are only interested in consolidating and extending their profits and power by obtaining at lower prices the raw materials to be used in the ecologically devastating production of tools that are so often overpowered, useless or damaging, and also designed, with planned obsolescence, to last much shorter than they could.

Finally: although it would still require being armed, if we managed to be many enough to take the means of production and the cultivated lands in our rich countries, maybe not even a single drop of blood, neither ours nor of our adversaries, would be shed. But time is running fast, and it’s very improbable that we will be that many soon enough. So, and in any case, we’d better start or continue with more conviction to organize ourselves secretly, in groups, on an operational level, while continuing to spread our knowledge and ideas publicly.

“The dawn of everything”, the “always turn the other cheek” Christian commandment, the Anarchic International and immersive fiction

In their The dawn of everything, David Graeber and David Wengrow prove with archaeological evidence that, in a relatively distant past, there were big cities where people already knew and practiced agriculture, and where, in some cases for more than one millennium, decisions and rules about the commons were taken in open assemblies; thus, they also had good levels of equality in distribution of wealth and resources.

At some point in the book they ask themselves, and obviously their readers too, why, at least now, there is no archaeological evidence of later examples of such big societies which worked that way, and they make an hypothesis: that when three issues or “traits” of centralized accumulation of power and wealth and resources, which i won’t summarize here (read the book! 🙂), intertwine in a given society (like our present societies, since very long time), it’s very difficult to get back, or forward, to equality in distribution of power, work, wealth and resources.

They also emphasize that it is an hypothesis, and that more studies should be done to prove it more, or modify it, or extend it.

Anyway, i have an hypothesis about something that has probably worsened the situation: the Christian commandment to “always turn the other cheek” when anyone treats you bad: although i guess nobody can sincerely tell to really always behave like that, i think it’s a commandment which worked and still works a lot as a moral condemnation of some of the most effective actions any oppressed people can implement against their oppressors, and as a self-justification of fear of implementing it or, sometimes, even of thinking about it.

This bugs me a lot, also because i think that today it would be much easier to build equal societies, after an Anarchic International like this, i.e. after taking the lands to cultivate them without polluting, and the industrial facilities to shut down the polluting ones and build the sustainable alternatives while consuming less and better, which would also save our species and many others from the already ongoing decimation and the otherwise very probable future extinction caused by the current ecological catastrophe and-or the equally severe risks of the ongoing and future wars that the ecological catastrophe itself is very intertwined with: after an Anarchic International like this, in the liberated context it could foster (i.e. a global context of many federated little-to-medium sized communities where decisions and rules about the commons would be defined and refined in open assemblies, and thus we would have very good levels of equality in distribution of work, wealth and resources too, and where two or more communities would settle about exchanges of resources and products with inter-communal assemblies which could be made through the internet), tomorrow we would also have a hugely wider possibility to access and share all knowledge, and to build fictional worlds, with or without fictional stories, using open hardware and software produced by the communities, and to virtually live some time there, and to play and fight and love and build there, with or without other avatars of others’ selves, thus sublimating our dark sides in creativity and lashing them out in almost or totally harmless ways to an extent and with an immersivity that we, as a whole, never had before.

This is what arts have always been about, and tomorrow it would be just freely accessible for all.

Genetica, epigenetica e concezione anarchica del vivente

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021),
6.3. L’epigenetica risolve i problemi della genetica

Ai giorni nostri, quando la spiegazione genetica viene colta in fallo, il ricorso all’epigenetica e all’ambiente è diventato un leitmotiv, una sorta di formula magica che si ritiene in grado di risolvere le difficoltà. È incontestabile che l’ambiente e le modificazioni della cromatina dette epigenetiche sono fattori importanti, ma la questione è sapere in che modo influenzano il funzionamento cellulare. Di solito la loro azione è interpretata in un sistema di pensiero informazionale e deterministico. Ci troviamo allora di fronte allo stesso problema presentato dal determinismo genetico. In che modo i fattori epigenetici o quelli ambientali possono esercitare un effetto specifico se gli effettori proteici che dovrebbero veicolarli nelle cellule non lo fanno? Prendiamo un esempio concreto. Il lievito Saccharomyces cerevisiae modifica il proprio comportamento o funzionamento in risposta a segnali ambientali differenti. Si tratta ad esempio della risposta a un feromone sessuale, a un cambiamento di pressione osmotica nell’ambiento o a una crescita filamentosa. Ma in tutti questi casi il lievito usa le stesse proteine non-specifiche. Come può in queste condizioni discriminare tra segnali differenti e ottenere una risposta adeguata? La questione del determinismo ambientale si pone con la stessa gravità riscontrata nel determinismo genetico. Di per sé, invocare l’influenza dell’ambiente non è una soluzione: adesso i determinismi problematici sono due!

La concezione anarchica diverge in maniera netta dall’epigenetica, così come viene abitualmente concepita, perché rinuncia all’idea di un supporto stabile dell’ereditarietà contenuto nei geni, e perché considera l’ontogenesi non come una diversificazione o un’interpretazione dell’informazione genetica, ma come una restrizione del gioco probabilistico del vivente. In questo quadro, l’azione dell’ambiente non è più quella di indurre effetti in maniera deterministica, ma quella di selezionare gli stati cellulari aleatori per la loro stabilizzazione. Perciò la non-specificità delle proteine non è più un problema. Diventa possibile integrare i ruoli delle modificazioni della cromatina: esse non sono un codice epigenetico portatore di informazioni. Sono gli effettori biochimici a consentire la stabilizzazione della cromatina.

Azoto di sintesi

Da Il dilemma dell’onnivoro, di Michael Pollan

La scoperta dell’azoto di sintesi ha rivoluzionato molte cose: non solo nella coltivazione del mais, non solo nella catena alimentare, ma nel modo stesso in cui si svolge la vita sulla terra. L’azoto è fondamentale nei cicli biologici, perché è il mattone con cui in natura si costruiscono aminoacidi, proteine e acidi nucleici: l’informazione genetica che dirige e fa replicare i viventi è scritta con questo elemento (ecco perché si dice che l’azoto rappresenta la qualità della vita e il carbonio la quantità). Ma le riserve di azoto disponibili sul nostro pianeta sono limitate. Anche se costituisce circa l’ottanta per cento dell’atmosfera, l’azoto allo stato naturale si trova in forma di molecola inerte, costituita da due atomi strettamente legati tra loro, e dunque inutilizzabile. Nelle parole del celebre chimico ottocentesco Justus von Liebig, l’azoto atmosferico è «indifferente a tutte le altre sostanze». Per essere di una qualche utilità a piante e animali, questi atomi egocentrici devono essere separati e uniti all’idrogeno, in modo da poter formare molecole sfruttabili dagli esseri viventi: in chimica, questo processo si definisce «fissazione». Fino al 1909, quando Fritz Haber, un chimico tedesco di origine ebraica, scoprì il trucco giusto, tutto l’azoto sfruttabile sulla terra era stato sicuramente fissato da certi batteri che vivono sulle radici delle leguminose (come ad esempio i piselli, l’erba medica o la soia), o più raramente da un fulmine, la cui corrente è in grado di spezzare gli atomi di azoto nell’aria, facendoli ricadere al suolo come una fertile pioggia.

«Non c’è modo di far crescere piante o uomini senza azoto» scrive il geografo Vaclav Smil nella sua affascinante biografia di Fritz Haber (intitolata Enriching the Earth). Prima del 1909, la quantità totale di vita che la terra poteva sostenere – ossia l’estensione delle aree coltivate e il numero di esseri umani – era limitata dalla quantità di azoto fissata dai batteri e dai fulmini. All’inizio del Novecento, in Europa ci si accorse che se non si fosse aumentata la disponibilità di questo elemento la crescita della popolazione umana avrebbe presto subìto una dolorosa battuta d’arresto. Qualche decennio dopo la Cina arrivò alle stesse conclusioni, ed è probabilmente per questo motivo che decise di aprirsi all’Occidente: dopo il primo viaggio di Nixon nel 1972, il governo cinese commissionò subito alle ditte americane l’apertura di tredici colossali fabbriche di fertilizzanti, senza le quali, forse, il paese si sarebbe ridotto alla fame.

Ecco perché Smil potrebbe non essere così lontano dal vero quando afferma che l’invenzione più importante del ventesimo secolo è stata il processo Haber-Bosch (Carl Bosch ebbe il merito di rendere sfruttabile commercialmente l’idea di Haber). Secondo le sue stime, senza l’invenzione del chimico tedesco due abitanti del pianeta su cinque non sarebbero vivi, oggi. È possibile, dice Smil, immaginare la terra senza computer, o energia elettrica, ma senza i concimi di sintesi miliardi di individui non sarebbero neppure venuti al mondo. Anche se, come suggeriscono questi numeri, quando Haber ci ha dato il potere di fissare l’azoto abbiamo forse stretto con la natura un patto faustiano.

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Un po’ di libero arbitrio

Da Sulla materia della mente,
di Gerald M. Edelman

Capitolo 16
Memoria e anima individuale:
contro il riduzionismo sciocco

La scienza non può spiegare il mistero ultimo della Natura. E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte del mistero che tentiamo di spiegare.

Max Planck

Se dovessi vivere di nuovo, mi piacerebbe vivere sopra un negozio di specialità gastronomiche.

Woody Allen

Dall’ultimo quarto del diciassettesimo secolo fino all’ultimo decennio del secolo successivo, un’esplosione di creatività chiamata Illuminismo trasformò la storia delle idee. Molte opinioni e molte concezioni fiorirono, ma al centro dell’interesse generale si trovavano soprattutto la ragione, la scienza, la libertà e l’individualità dell’uomo. La scienza che ne costituiva il fondamento era la fisica, il sistema di Newton, e la concezione filosofica della società era, in larga misura, quella di Locke. Tuttavia le idee di causalità e determinismo, assieme alla visione meccanicistica della scienza, minarono alla base le speranze in una teoria dell’azione umana basata sulla libertà. Se siamo determinati da forze naturali — da meccanismi — è difficile immaginare che un individuo libero possa compiere scelte di ordine morale. Inoltre, benché l’Illuminismo fosse molto attento al ruolo della ragione e della cultura in tali scelte, non espresse alcun concetto generale riguardo alla profonda influenza esercitata dalle forze inconsce e dalle emozioni sulla mente di ogni essere umano (compresi quelli «dotati di ragione», e cioè le persone «colte»).

Quali che fossero le forme assunte nei vari periodi e nei vari luoghi, l’Illuminismo fu prevalentemente una concezione laica, che forgiò molte delle idee a fondamento della democrazia moderna. Esso, però, è finito, pur lasciandoci una eredità preziosa. Quelle idee subirono un primo, fiero colpo con gli attacchi che Hume rivolse sia al razionalismo sia alla concezione che associava il progresso umano alle scienze naturali. La principale carenza dell’Illuminismo fu l’incapacità di formulare una adeguata descrizione scientifica dell’individuo che si potesse affiancare alla descrizione dell’universo come macchina. Nell’ambito sociale, invece, il fallimento fu l’incapacità di andare oltre il concetto di una società composta di individui egoisti, votati al successo nel campo degli affari, con una visione superficiale dell’«umanesimo». Gli illuministi tentarono, sì, di offrire una prospettiva più ispirata, ma la loro scienza era una fisica meccanicistica, sprovvista di un corpo di dati e di idee che consentisse di collegare il mondo, la mente e la società secondo i criteri della ragione scientifica cui aspiravano. A dispetto di fallimenti e contraddizioni, tuttavia, l’Illuminismo ci ha lasciato grandi speranze riguardo al posto dell’individuo nella società.

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Darwinismo e anarchia

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021)

Capitolo sesto
Risposta ad alcune obiezioni

[…]

6.4 Il darwinismo non è anarchico

Associare il darwinismo e l’anarchia nello stesso quadro concettuale potrebbe essere fonte di malintesi che vanno evitati. Una prima precisazione si impone. Quando si fa riferimento al darwinismo per spiegare i meccanismi di embriogenesi non si tratta evidentemente di trasferire il meccanismo preciso della selezione naturale così come viene descritto da Darwin. Si tratta piuttosto di recuperare in primis l’ontologia e la specifica causalità introdotte da Darwin, le quali forniscono un nuovo quadro generale per pensare l’ontogenesi. D’altronde, il meccanismo della selezione naturale non era del tutto precisato in Darwin, dal momento che all’epoca non erano completamente note le modalità della variazione. I biologi di solito fanno riferimento al darwinismo in senso lato quando traspongono la selezione naturale al di fuori del suo originale ambito di applicazione. Che sia nella teoria clonale degli anticorpi o nel darwinismo neuronale citati in precedenza, o ancora nel modello anarchico della differenziazione cellulare, il riferimento al darwinismo indica uno schema generale comune e non un’analogia dei meccanismi in senso stretto, cosa che sarebbe assurda. In ognuno di questi casi quel che si intende esattamente con variabilità e selezione è differente. Del resto, fin dall’inizio l’utilizzo del concetto di «selezione» da parte di Darwin era metaforico.

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Il demone di Maxwell

Da Il quark e il giaguaro, di Murray Gell-Mann,
parte seconda, capitolo 15

Il demone di Maxwell

[…] introdurremo un ipotetico diavoletto che passa il tempo a scegliere e ordinare: il famoso demone di Maxwell, escogitato da quello stesso James Clerk Maxwell che scoprì le equazioni per l’elettromagnetismo. Lo scienziato scozzese si stava occupando di un’applicazione molto comune (e forse la più antica) del secondo principio della termodinamica: quella a un corpo caldo e a un corpo freddo posti l’uno accanto all’altro. Immaginiamo di avere una camera divisa in due da un tramezzo asportabile. Metà della camera è riempita di un gas molto caldo e l’altra metà di un’uguale quantità del medesimo gas a temperatura molto inferiore. La camera può essere considerata un sistema isolato contenente una certa quantità d’ordine: infatti le molecole del gas caldo, in moto con velocità statisticamente maggiore da un lato del tramezzo, sono isolate dalle molecole, mediamente più lente, del gas freddo dall’altro lato.

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Paesaggi di fitness

Da Il quark e il giaguaro, di Murray Gell-Mann

Paesaggi di fitness

Una difficoltà generale si evidenzia quando introduciamo la nozione qualitativa di «paesaggio di fitness». Immaginiamo che i diversi genotipi siano disposti su una superficie orizzontale bidimensionale (in realtà si tratta di uno spazio matematico a molte dimensioni di possibili genotipi). Il valore di fitness di un dato genotipo è rappresentato dall’altezza di un punto; al variare del genotipo, la fitness descrive una superficie (bidimensionale), con moltissime colline e valli, nello spazio a tre dimensioni. I biologi rappresentano convenzionalmente la crescita della fitness con altezze progressivamente maggiori, così che i suoi massimi corrispondono alle cime delle colline e i suoi minimi agli avvallamenti più profondi; io userò invece la convenzione inversa, che è abituale in molti altri campi. Nella mia rappresentazione, quindi, la fitness aumenta con la profondità, e i suoi massimi coincidono con i punti più bassi delle depressioni, come mostra la figura di pagina 285 [qui sotto].

Un paesaggio di fitness: il valore della fitness aumenta al diminuire dell’altezza
Un paesaggio di fitness: il valore della fitness aumenta al diminuire dell’altezza

Il paesaggio è molto complicato, con numerose voragini (massimi locali di fitness) di profondità assai varia. Se l’effetto dell’evoluzione fosse sempre quello di scendere a valle – di migliorare sempre l’adattamento – il genotipo si fisserebbe probabilmente sul fondo di una depressione poco profonda e non avrebbe modo di raggiungere i buchi profondi vicini, cui corrisponde una fitness molto maggiore. Quanto meno, esso dovrebbe muoversi in un modo più complicato di quello di scivolare semplicemente verso valle. Se avesse anche qualche moto casuale in altre direzioni, potrebbe evadere da depressioni poco profonde e trovarne altre più profonde nelle vicinanze. Questi moti casuali non dovrebbero però superare certi limiti, altrimenti l’intero processo cesserebbe di funzionare. Come abbiamo visto in una varietà di situazioni, un sistema complesso adattativo funziona al meglio in una situazione intermedia fra l’ordine e il disordine.