Le specie non sono reali

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (Elèuthera, 2021),
introduzione al capitolo quarto

Il darwinismo e la genetica insieme formano il quadro teorico della biologia moderna che si è deciso di chiamare «teoria sintetica dell’evoluzione» o «neodarwinismo»1. Queste due teorie sono solitamente ritenute complementari al punto che opporsi a una vorrebbe dire opporsi anche all’altra. Può quindi sembrare paradossale criticare la genetica e al tempo stesso puntare i riflettori sulla teoria di Darwin. Ma non dimentichiamo che storicamente la loro sintesi è stata difficile. C’è voluto quasi un secolo per appianare alcune importanti divergenze2. Lungi dall’essere la teoria cristallina che si pensa, questa teoria sintetica nasconde una contrapposizione di fondo. Il darwinismo e la genetica si concentrano su aspetti diversi del vivente, o meglio su aspetti fra loro contraddittori. Darwin si interessa all’evoluzione e quindi alla variazione dei caratteri che ne costituisce il substrato, mentre la genetica cerca di spiegare la trasmissione intergenerazionale dei caratteri, cosa che all’opposto presuppone la conservazione degli stessi. Quando si è compiuta la sintesi fra le due, è andato perduto l’aspetto più radicale e innovativo del pensiero darwiniano. Mentre Darwin aveva rotto con i naturalisti che l’avevano preceduto, considerando la variazione come la proprietà primaria del vivente, la genetica ha riportato in auge l’invarianza.

Per cogliere fino a che punto il darwinismo è stato snaturato bisogna tornare alla genesi della teoria dell’evoluzione. La teoria della selezione naturale non è semplicemente il risultato di un accumulo di osservazioni che apportano prove empiriche a partire dalle quali la deduzione della teoria è obbligata. Essa è anche il compimento di una rivoluzione ontologica che tocca la questione della specie. Si tratta di un problema filosofico molto antico le cui implicazioni per la scienza sono critiche. Il termine «specie» indica gruppi di individui che si assomigliano, ma qual è lo statuto di questi raggruppamenti? Sono oggettivi o soggettivi? Le specie indicano classi reali esistenti indipendentemente dalla soggettività dei classificatori? A seconda della risposta data a questa questione concepiamo il mondo in maniera differente. Se le specie sono reali, esiste un ordine oggettivo corrispondente a queste specie. Se sono soggettive, cioè se sono solo raggruppamenti arbitrari che dipendono dal nostro potere di discernimento o comunque da criteri di nostra scelta, l’ordine che percepiamo non è reale. È relativo alla nostra percezione e alla nostra capacità cognitiva. I filosofi e i naturalisti hanno sostenuto due categorie di risposte. Le specie sono reali per i «realisti», ovvero indipendenti dalla nostra soggettività. Mentre per i «nominalisti» le specie non sono reali, ma sono costruzioni arbitrarie elaborate dagli umani3.

In questo capitolo riesamineremo la teoria sintetica. L’analisi mostrerà che è necessario dissociare darwinismo e genetica. In un primo tempo verrà esaminata la rottura che Darwin ha operato rispetto ai suoi predecessori. Vedremo che il fatto di non riuscire a sbarazzarsi dell’idea di un ordine naturale è ciò che ha impedito loro di formulare una teoria dell’evoluzione compiuta. Tale ordine corrisponde, in ultima analisi, alla messa in atto del disegno divino, che induce alla creazione di specie fisse nella loro essenza e nelle relazioni fra loro. All’opposto, Darwin ha confutato il realismo della specie e si è fatto carico di un nominalismo che riconosce la variazione come il principio primo del vivente. In virtù di questo fatto, il vivente è, a suo parere, un flusso continuo che fa variare gli esseri all’infinito, annichilendo ogni possibilità di instaurare un ordine naturale. Le ontologie antagoniste di darwinismo e genetica non sono mai state riconciliate nella loro cosiddetta sintesi. Predomina l’una o l’altra a seconda delle circostanze, degli ambiti di studio o degli autori. Nel caso dell’ontogenesi si è imposta l’ontologia della genetica con il suo corollario: un rigido determinismo. Ed è appunto questo il motivo per cui è importante capire questa storia: per dissociare il darwinismo dalla genetica e dissolvere così l’illusione di ordine che tale associazione fa perdurare.


1. Queste due espressioni non sono esattamente sinonimi. «Neodarwinismo» indica la reinterpretazione del lavoro di Darwin compiuta nel XIX secolo da alcuni precursori della genetica, soprattutto Weismann, mentre «teoria sintetica dell’evoluzione» indica la sintesi che ha fatto il suo esordio nella prima metà del XX secolo integrando dapprima darwinismo e genetica delle popolazioni e poi anche altre discipline fra cui la biologia molecolare. Oggi, però, le due espressioni sono spesso utilizzate come sinonimi in senso lato.

2. Peter J. Bowler, The Eclipse of Darwinism, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1983; Jean Gayon, Darwinism’s Struggle For Survival, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2007.

3. Il termine «realista» deriva dalla disputa sugli universali. È quasi sinonimo del termine «essenzialista», inventato nel XX secolo.

The necessary anarcho-communist International

[Last edited on Saturday, 27 January 2024]

TL;DR (AKA: an abstract)

It is necessary now more than ever before in history to take the means of production and the cultivated lands in the context of an anarcho-communist International, like Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta, Emma Goldman and so many other anarchists advocated and fought to make happen, because today we not only need to finally end it with the domination of exploitation, violence and death that patriarcapitalism is in the whole world, and with any other domination of man on man and of man on the other species, but we also need to save ourselves, our children and the future generations of our species, and so many others, from the decimation or, more probably, the extinction that otherwise would happen in some decades, or even before, by spreading and growing wars and by ecosystemic catastrophes like the escalating reduction of biodiversity, the escalating frequency of pandemics, and global warming driven disasters like the droughts, floods, fires, hurricanes, sea level rise, unlivable temperatures in the summer, and more and more cold winters, which are already happening and causing so much pain and death everywhere, but especially in areas of the planet that have less temperate climate conditions than ours, less financial and material resources to mitigate the effects of these disasters, and, in many cases, even more pollution than our countries.

Moreover: tomorrow it would be much easier than ever before to make a global, federated community of many little communities that would self-manage themselves with open-to-all, consensus driven assemblies (i.e. real, direct democracy, that is a necessary condition for achieving and maintaining good or very good levels of equality and social justice, along with periodic redistribution of wealth accumulation, to be culturally ritualized in the context of festivities), because when the huge advancements in technology that humanity has done since the ancient times when big self-managing communities existed before, particularly those in the many-to-many communications and in the increasingly immersive fiction production and fruition fields, would grant paritary confrontation and creative sublimation and cathartic release of our dark sides (competitiveness, aggressiveness, and so on) to all, when they actually were, hardware and software, in the hands of everybody.

Also: the anarcho-communist International could and would much better start from rich countries, where conscience of the huge inequalities of patriarcapitalism is more widespread and material and cultural conditions are still better than in those many countries where the vast majority of the people of the world lives: by putting an end to the domination of the masters and rulers in our countries we would directly and greatly alleviate the near-slavery conditions of  the populations of the poorest countries, where the local rulers and masters would then no longer receive the more or less overt or covert support and the weapons they receive today from our governments and masters, who are interested only in securing for themselves the possibility to obtain at very low prices the raw materials to be used in the production of tools which are so often overpowered, or even useless or damaging, and also designed, with planned obsolescence, to last much shorter than they could.

Finally: although it would still require being armed, if we managed to be many enough to take the means of production and the cultivated lands in our rich countries, maybe not even a single drop of blood, neither ours nor of our adversaries, would be shed; but time is running fast and it’s very improbable that we will be that many soon enough, so, and in any case, we’d better start or continue with more conviction to organize ourselves secretly, in groups, on an operational level, while continuing to spread our knowledge and ideas publicly.

Like Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta, Emma Goldman and so many other anarchists said, we have to take the means of production and the cultivated lands in order to finally end it with this domination of exploitation, violence and death that patriarcapitalism is, and with every other domination and exploitation and violence; and, nowadays, also to save ourselves, our children and the future generations: because in addition to the “usual” exploitation and violence, there’s the immense ecological problem of the average temperature of the world rising, that no one “from above” has even put a curb on (globally, greenhouse gas emissions continue to increase, instead of decreasing), despite more than two decades of peaceful pressures which we acted in every sauce from below; and there is covid with its variants, this never-ending tragic affair which is predominantly and by far yet another consequence of the material and cultural misery that patriarcapitalism produces, also in its state version (see [1], [2], and [3], or just mind that if it was not because of these miseries, in that Chinese market people would not have sold animals at the risk of causing that virus to jump to humans), and to date has already painfully killed almost 7 million persons worldwide, and would otherwise continue; because yes, the anti-covid vaccines which are currently disposable in the richest countries do work: they are statistically very effective in preserving from getting ill those who accept to get vaccinated, although they provide a rather brief cover; but, despite the fact their development was financed to a great extent by rich states with money from tax payers, these same states buy them at a price per dose that is up to 24 times its cost of production, while the states where the large majority of the people of the world lives can’t afford to buy them and the bosses of pharmaceutical multinationals producing them don’t remise, not even temporarily, to the related patents, and don’t publish the know-how that’s necessary to build the machines to produce them, nor are they disposable to help in building these machines and to train the people who could use them within less rich and poor countries; thus, covid and its variants would otherwise continue spreading, and new viruses would otherwise born and spread – see [1], [2], and [3] again – even in rich countries: viruses, in fact, know no borders, as covid and its variants proved.

These are some of the reasons why we need to take the industrial infrastructures and turn off those that produce the bulk of the global warming that threatens to drive us to extinction, and why we need to take and close the industrial “meat factories”, and why we need to take the cultivated lands, whose cultivation today produces the second most important part of the greenhouse effect, to cultivate them without resorting to fossil fuels burning,  which today is mostly used to produce synthetic nitrogen, letting instead work the good old little mushrooms that have taken billions of years to learn how to make nitrogen for good and without polluting, in synergy with the roots of the plants, and thus also letting the lands rest by turning the cultivated plants from year to year, etc., and soon build lots of wind, photovoltaic and photothermal, hydroelectric infrastructures, and produce the necessary batteries without polluting and exploiting people, and start anew everywhere as a world of small federated communities, more or less on the model of Kurdish democratic confederalism, which in the cities could be neighborhoods, and in smaller towns the town itself, where decisions and rules will be defined and refined in assemblies that will be open to all, and which will commercially relate one another by public assemblies as well, through the internet, basing their commercial relations on the answer to the question “which is the closest among other communities that can exchange that resource or that product or that service?”, that will be publicly available information, and socializing through the internet the knowledge they will develop so that, for example, with respect to viral pandemics – that would be then much more seldom anyway –, they would be globally stopped for real and also in a much shorter time; and because we should be clear, by now, also due to the historical experiences of “real communisms,” with their marxist nonsense of the “dictatorship of the proletariat,” which by the way has never been real and produced some of the worst nefariousness in history, that social justice and good levels of social equality require to be backed, along with periodic redistribution of wealth accumulation, that would be culturally ritualized and much more real than today in the context of festivities, by the constant possibility of openly and publicly, verbally confronting in open-to-all assemblies, in every community, about what to do with common goods and common spaces, and about which rules to give ourselves, as this happened already in history, and would happen much better tomorrow due to global free access for all to lay, egalitarian education and knowledge of horrors of the past, that would be widespread everywhere in the world also thanks to the technologies we have developed in the meantime, which should be common heritage of everybody, and due to the abolition of licenses, patents and trade or industrial secrets, and to the possibility that then everyone in the world would have to sublimate their “dark sides” in creativity and lash them out in almost or totally harmless ways, to an extent and with an immersivity that we, as a whole, never had before: the possibility for all to build fictional worlds, with or without fictional stories, using open hardware and software produced by the communities, and to virtually live some time there, and to play and fight and love and build there too, with or without other avatars of others’ selves. This is what arts have always been about, and tomorrow it would be just freely accessible for all, and it would be a great contribution to sublimation and catharsis of our “dark sides”, along with frugal sports and more usual arts and free, respectful love.

And we need to do the anarcho-communist International because it’s our interest not only to save ourselves and the future generations, but also to make the world a much better place for us and our children and everyone else.

There’s no alternative, and time is crucial at this historical stage, and it’s running out not least with respect to the risk of extinction by climate change, that otherwise would happen in this very century, but especially with respect to the increasingly less remote possibility that this umpteenth crisis “of capitalism” will end up again, through the spread of worse and worse nationalisms and wars in which access to those fossil fuels we should have stopped burning yesterday is still one of the main justifications, in an unfolded third world war with a decimation of the global population that would be much heavier than in the previous two (or perhaps, even in this case, with the total extinction of the human species, and so many others): because, in short, this crisis “of capitalism” that we are living today is not only the umpteenth of a series of crises which, on average, have been increasingly damaging, but it’s also totally unprecedented, with its enormous ecological implications which are now, already tragic, with the amount of death and pain they have already caused and are causing now in the world, and which will get much more tragic with the worsening of the already and since long ongoing crisis in the ability of the living to reproduce, even in order to feed us, and with the worsening of water scarcity and drought that is already ongoing, and with so many other problems that patriarcapitalism has caused and is causing, which will certainly worsen and will form a whole that, as if one or a few of its “pieces” wasn’t enough, will be totally fatal for our species and so many others, unless we actually organize and do the anarcho-communist International we need to do, quickly, to transform what otherwise would certainly be a bitter and very painful end for most or all of us, into the foundation and the beginning of a new and much more peaceful, and much more just, and much more happy world for all to live in, and, quite soon, also out of, when anyone who will so desire will have the ability to peacefully live with anyone else, members of terrestrial and non terrestrial species as well, on other planets too, to bring life to those planets were life is not already present and to protect it on those where it is. Because that which is holy and sacred is not much our individual lives, but life itself, that just can’t be stopped, and in order to be a living and healthy part of it, and to peacefully live our individual lives in it, we still have to understand that it is the only “god”, and we have so much more to learn from and about it.

The anarcho-communist International could and would much better start from rich countries, where conscience of the huge inequalities of patriarcapitalism is more widespread and material and cultural conditions are still better than in those many countries where the vast majority of the people of the world lives: by putting an end to the domination of the masters and rulers in our countries we would directly and greatly alleviate the near-slavery conditions of  the populations of the poorest countries, where the local rulers and masters would then no longer receive the more or less overt or covert support and the weapons they receive today from our governments and masters, who are interested only in securing for themselves the possibility to obtain at very low prices the raw materials to be used in the production of tools which are so often overpowered, or even useless or damaging, and also designed, with planned obsolescence, to last much shorter than they could.

Finally: although it would still require being armed, if we managed to be many enough to take the means of production and the cultivated lands in our rich countries, maybe not even a single drop of blood, neither ours nor of our adversaries, would be shed; but time is running fast and it’s very improbable that we will be that many soon enough, so, and in any case, we’d better start or continue with more conviction to organize ourselves secretly, in groups, on an operational level, while continuing to spread our knowledge and ideas publicly.

“The dawn of everything”, the “always turn the other cheek” Christian commandment, the Anarchic International and immersive fiction

In their The dawn of everything, David Graeber and David Wengrow prove with archaeological evidence that, in a relatively distant past, there were big cities where people already knew and practiced agriculture, and where, in some cases for more than one millennium, decisions and rules about the commons were taken in open assemblies; thus, they also had good levels of equality in distribution of wealth and resources.

At some point in the book they ask themselves, and obviously their readers too, why, at least now, there is no archaeological evidence of later examples of such big societies which worked that way, and they make an hypothesis: that when three issues or “traits” of centralized accumulation of power and wealth and resources, which i won’t summarize here (read the book! 🙂), intertwine in a given society (like our present societies, since very long time), it’s very difficult to get back, or forward, to equality in distribution of power, work, wealth and resources.

They also emphasize that it is an hypothesis, and that more studies should be done to prove it more, or modify it, or extend it.

Anyway, i have an hypothesis about something that has probably worsened the situation: the Christian commandment to “always turn the other cheek” when anyone treats you bad: although i guess nobody can sincerely tell to really always behave like that, i think it’s a commandment which worked and still works a lot as a moral condemnation of some of the most effective actions any oppressed people can implement against their oppressors, and as a self-justification of fear of implementing it or, sometimes, even of thinking about it.

This bugs me a lot, also because i think that today it would be much easier to build equal societies, after an Anarchic International like this, i.e. after taking the lands to cultivate them without polluting, and the industrial facilities to shut down the polluting ones and build the sustainable alternatives while consuming less and better, which would also save our species and many others from the already ongoing decimation and the otherwise very probable future extinction caused by the current ecological catastrophe and-or the equally severe risks of the ongoing and future wars that the ecological catastrophe itself is very intertwined with: after an Anarchic International like this, in the liberated context it could foster (i.e. a global context of many federated little-to-medium sized communities where decisions and rules about the commons would be defined and refined in open assemblies, and thus we would have very good levels of equality in distribution of work, wealth and resources too, and where two or more communities would settle about exchanges of resources and products with inter-communal assemblies which could be made through the internet), tomorrow we would also have a hugely wider possibility to access and share all knowledge, and to build fictional worlds, with or without fictional stories, using open hardware and software produced by the communities, and to virtually live some time there, and to play and fight and love and build there, with or without other avatars of others’ selves, thus sublimating our dark sides in creativity and lashing them out in almost or totally harmless ways to an extent and with an immersivity that we, as a whole, never had before.

This is what arts have always been about, and tomorrow it would be just freely accessible for all.

Genetica, epigenetica e concezione anarchica del vivente

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021),
6.3. L’epigenetica risolve i problemi della genetica

Ai giorni nostri, quando la spiegazione genetica viene colta in fallo, il ricorso all’epigenetica e all’ambiente è diventato un leitmotiv, una sorta di formula magica che si ritiene in grado di risolvere le difficoltà. È incontestabile che l’ambiente e le modificazioni della cromatina dette epigenetiche sono fattori importanti, ma la questione è sapere in che modo influenzano il funzionamento cellulare. Di solito la loro azione è interpretata in un sistema di pensiero informazionale e deterministico. Ci troviamo allora di fronte allo stesso problema presentato dal determinismo genetico. In che modo i fattori epigenetici o quelli ambientali possono esercitare un effetto specifico se gli effettori proteici che dovrebbero veicolarli nelle cellule non lo fanno? Prendiamo un esempio concreto. Il lievito Saccharomyces cerevisiae modifica il proprio comportamento o funzionamento in risposta a segnali ambientali differenti. Si tratta ad esempio della risposta a un feromone sessuale, a un cambiamento di pressione osmotica nell’ambiento o a una crescita filamentosa. Ma in tutti questi casi il lievito usa le stesse proteine non-specifiche. Come può in queste condizioni discriminare tra segnali differenti e ottenere una risposta adeguata? La questione del determinismo ambientale si pone con la stessa gravità riscontrata nel determinismo genetico. Di per sé, invocare l’influenza dell’ambiente non è una soluzione: adesso i determinismi problematici sono due!

La concezione anarchica diverge in maniera netta dall’epigenetica, così come viene abitualmente concepita, perché rinuncia all’idea di un supporto stabile dell’ereditarietà contenuto nei geni, e perché considera l’ontogenesi non come una diversificazione o un’interpretazione dell’informazione genetica, ma come una restrizione del gioco probabilistico del vivente. In questo quadro, l’azione dell’ambiente non è più quella di indurre effetti in maniera deterministica, ma quella di selezionare gli stati cellulari aleatori per la loro stabilizzazione. Perciò la non-specificità delle proteine non è più un problema. Diventa possibile integrare i ruoli delle modificazioni della cromatina: esse non sono un codice epigenetico portatore di informazioni. Sono gli effettori biochimici a consentire la stabilizzazione della cromatina.

Azoto di sintesi

Da Il dilemma dell’onnivoro, di Michael Pollan

La scoperta dell’azoto di sintesi ha rivoluzionato molte cose: non solo nella coltivazione del mais, non solo nella catena alimentare, ma nel modo stesso in cui si svolge la vita sulla terra. L’azoto è fondamentale nei cicli biologici, perché è il mattone con cui in natura si costruiscono aminoacidi, proteine e acidi nucleici: l’informazione genetica che dirige e fa replicare i viventi è scritta con questo elemento (ecco perché si dice che l’azoto rappresenta la qualità della vita e il carbonio la quantità). Ma le riserve di azoto disponibili sul nostro pianeta sono limitate. Anche se costituisce circa l’ottanta per cento dell’atmosfera, l’azoto allo stato naturale si trova in forma di molecola inerte, costituita da due atomi strettamente legati tra loro, e dunque inutilizzabile. Nelle parole del celebre chimico ottocentesco Justus von Liebig, l’azoto atmosferico è «indifferente a tutte le altre sostanze». Per essere di una qualche utilità a piante e animali, questi atomi egocentrici devono essere separati e uniti all’idrogeno, in modo da poter formare molecole sfruttabili dagli esseri viventi: in chimica, questo processo si definisce «fissazione». Fino al 1909, quando Fritz Haber, un chimico tedesco di origine ebraica, scoprì il trucco giusto, tutto l’azoto sfruttabile sulla terra era stato sicuramente fissato da certi batteri che vivono sulle radici delle leguminose (come ad esempio i piselli, l’erba medica o la soia), o più raramente da un fulmine, la cui corrente è in grado di spezzare gli atomi di azoto nell’aria, facendoli ricadere al suolo come una fertile pioggia.

«Non c’è modo di far crescere piante o uomini senza azoto» scrive il geografo Vaclav Smil nella sua affascinante biografia di Fritz Haber (intitolata Enriching the Earth). Prima del 1909, la quantità totale di vita che la terra poteva sostenere – ossia l’estensione delle aree coltivate e il numero di esseri umani – era limitata dalla quantità di azoto fissata dai batteri e dai fulmini. All’inizio del Novecento, in Europa ci si accorse che se non si fosse aumentata la disponibilità di questo elemento la crescita della popolazione umana avrebbe presto subìto una dolorosa battuta d’arresto. Qualche decennio dopo la Cina arrivò alle stesse conclusioni, ed è probabilmente per questo motivo che decise di aprirsi all’Occidente: dopo il primo viaggio di Nixon nel 1972, il governo cinese commissionò subito alle ditte americane l’apertura di tredici colossali fabbriche di fertilizzanti, senza le quali, forse, il paese si sarebbe ridotto alla fame.

Ecco perché Smil potrebbe non essere così lontano dal vero quando afferma che l’invenzione più importante del ventesimo secolo è stata il processo Haber-Bosch (Carl Bosch ebbe il merito di rendere sfruttabile commercialmente l’idea di Haber). Secondo le sue stime, senza l’invenzione del chimico tedesco due abitanti del pianeta su cinque non sarebbero vivi, oggi. È possibile, dice Smil, immaginare la terra senza computer, o energia elettrica, ma senza i concimi di sintesi miliardi di individui non sarebbero neppure venuti al mondo. Anche se, come suggeriscono questi numeri, quando Haber ci ha dato il potere di fissare l’azoto abbiamo forse stretto con la natura un patto faustiano.

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Un po’ di libero arbitrio

Da Sulla materia della mente,
di Gerald M. Edelman

Capitolo 16
Memoria e anima individuale:
contro il riduzionismo sciocco

La scienza non può spiegare il mistero ultimo della Natura. E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte del mistero che tentiamo di spiegare.

Max Planck

Se dovessi vivere di nuovo, mi piacerebbe vivere sopra un negozio di specialità gastronomiche.

Woody Allen

Dall’ultimo quarto del diciassettesimo secolo fino all’ultimo decennio del secolo successivo, un’esplosione di creatività chiamata Illuminismo trasformò la storia delle idee. Molte opinioni e molte concezioni fiorirono, ma al centro dell’interesse generale si trovavano soprattutto la ragione, la scienza, la libertà e l’individualità dell’uomo. La scienza che ne costituiva il fondamento era la fisica, il sistema di Newton, e la concezione filosofica della società era, in larga misura, quella di Locke. Tuttavia le idee di causalità e determinismo, assieme alla visione meccanicistica della scienza, minarono alla base le speranze in una teoria dell’azione umana basata sulla libertà. Se siamo determinati da forze naturali — da meccanismi — è difficile immaginare che un individuo libero possa compiere scelte di ordine morale. Inoltre, benché l’Illuminismo fosse molto attento al ruolo della ragione e della cultura in tali scelte, non espresse alcun concetto generale riguardo alla profonda influenza esercitata dalle forze inconsce e dalle emozioni sulla mente di ogni essere umano (compresi quelli «dotati di ragione», e cioè le persone «colte»).

Quali che fossero le forme assunte nei vari periodi e nei vari luoghi, l’Illuminismo fu prevalentemente una concezione laica, che forgiò molte delle idee a fondamento della democrazia moderna. Esso, però, è finito, pur lasciandoci una eredità preziosa. Quelle idee subirono un primo, fiero colpo con gli attacchi che Hume rivolse sia al razionalismo sia alla concezione che associava il progresso umano alle scienze naturali. La principale carenza dell’Illuminismo fu l’incapacità di formulare una adeguata descrizione scientifica dell’individuo che si potesse affiancare alla descrizione dell’universo come macchina. Nell’ambito sociale, invece, il fallimento fu l’incapacità di andare oltre il concetto di una società composta di individui egoisti, votati al successo nel campo degli affari, con una visione superficiale dell’«umanesimo». Gli illuministi tentarono, sì, di offrire una prospettiva più ispirata, ma la loro scienza era una fisica meccanicistica, sprovvista di un corpo di dati e di idee che consentisse di collegare il mondo, la mente e la società secondo i criteri della ragione scientifica cui aspiravano. A dispetto di fallimenti e contraddizioni, tuttavia, l’Illuminismo ci ha lasciato grandi speranze riguardo al posto dell’individuo nella società.

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Darwinismo e anarchia

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021)

Capitolo sesto
Risposta ad alcune obiezioni

[…]

6.4 Il darwinismo non è anarchico

Associare il darwinismo e l’anarchia nello stesso quadro concettuale potrebbe essere fonte di malintesi che vanno evitati. Una prima precisazione si impone. Quando si fa riferimento al darwinismo per spiegare i meccanismi di embriogenesi non si tratta evidentemente di trasferire il meccanismo preciso della selezione naturale così come viene descritto da Darwin. Si tratta piuttosto di recuperare in primis l’ontologia e la specifica causalità introdotte da Darwin, le quali forniscono un nuovo quadro generale per pensare l’ontogenesi. D’altronde, il meccanismo della selezione naturale non era del tutto precisato in Darwin, dal momento che all’epoca non erano completamente note le modalità della variazione. I biologi di solito fanno riferimento al darwinismo in senso lato quando traspongono la selezione naturale al di fuori del suo originale ambito di applicazione. Che sia nella teoria clonale degli anticorpi o nel darwinismo neuronale citati in precedenza, o ancora nel modello anarchico della differenziazione cellulare, il riferimento al darwinismo indica uno schema generale comune e non un’analogia dei meccanismi in senso stretto, cosa che sarebbe assurda. In ognuno di questi casi quel che si intende esattamente con variabilità e selezione è differente. Del resto, fin dall’inizio l’utilizzo del concetto di «selezione» da parte di Darwin era metaforico.

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Il demone di Maxwell

Da Il quark e il giaguaro, di Murray Gell-Mann,
parte seconda, capitolo 15

Il demone di Maxwell

[…] introdurremo un ipotetico diavoletto che passa il tempo a scegliere e ordinare: il famoso demone di Maxwell, escogitato da quello stesso James Clerk Maxwell che scoprì le equazioni per l’elettromagnetismo. Lo scienziato scozzese si stava occupando di un’applicazione molto comune (e forse la più antica) del secondo principio della termodinamica: quella a un corpo caldo e a un corpo freddo posti l’uno accanto all’altro. Immaginiamo di avere una camera divisa in due da un tramezzo asportabile. Metà della camera è riempita di un gas molto caldo e l’altra metà di un’uguale quantità del medesimo gas a temperatura molto inferiore. La camera può essere considerata un sistema isolato contenente una certa quantità d’ordine: infatti le molecole del gas caldo, in moto con velocità statisticamente maggiore da un lato del tramezzo, sono isolate dalle molecole, mediamente più lente, del gas freddo dall’altro lato.

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Paesaggi di fitness

Da Il quark e il giaguaro, di Murray Gell-Mann

Paesaggi di fitness

Una difficoltà generale si evidenzia quando introduciamo la nozione qualitativa di «paesaggio di fitness». Immaginiamo che i diversi genotipi siano disposti su una superficie orizzontale bidimensionale (in realtà si tratta di uno spazio matematico a molte dimensioni di possibili genotipi). Il valore di fitness di un dato genotipo è rappresentato dall’altezza di un punto; al variare del genotipo, la fitness descrive una superficie (bidimensionale), con moltissime colline e valli, nello spazio a tre dimensioni. I biologi rappresentano convenzionalmente la crescita della fitness con altezze progressivamente maggiori, così che i suoi massimi corrispondono alle cime delle colline e i suoi minimi agli avvallamenti più profondi; io userò invece la convenzione inversa, che è abituale in molti altri campi. Nella mia rappresentazione, quindi, la fitness aumenta con la profondità, e i suoi massimi coincidono con i punti più bassi delle depressioni, come mostra la figura di pagina 285 [qui sotto].

Un paesaggio di fitness: il valore della fitness aumenta al diminuire dell’altezza
Un paesaggio di fitness: il valore della fitness aumenta al diminuire dell’altezza

Il paesaggio è molto complicato, con numerose voragini (massimi locali di fitness) di profondità assai varia. Se l’effetto dell’evoluzione fosse sempre quello di scendere a valle – di migliorare sempre l’adattamento – il genotipo si fisserebbe probabilmente sul fondo di una depressione poco profonda e non avrebbe modo di raggiungere i buchi profondi vicini, cui corrisponde una fitness molto maggiore. Quanto meno, esso dovrebbe muoversi in un modo più complicato di quello di scivolare semplicemente verso valle. Se avesse anche qualche moto casuale in altre direzioni, potrebbe evadere da depressioni poco profonde e trovarne altre più profonde nelle vicinanze. Questi moti casuali non dovrebbero però superare certi limiti, altrimenti l’intero processo cesserebbe di funzionare. Come abbiamo visto in una varietà di situazioni, un sistema complesso adattativo funziona al meglio in una situazione intermedia fra l’ordine e il disordine.

Mucche e porcelli felici

Da Il dilemma dell’onnivoro,
di Michael Pollan

Da un punto di vista biologico, coltivare è sempre stato un processo di conversione della luce solare in una fonte alimentare; oggi è diventato in misura significativa un processo di trasformazione dei combustibili fossili in cibo. Ecco perché la terra della contea di Greene, che prima si copriva periodicamente di verde, è sempre nera: gli agricoltori si comprano la fertilità sintetica in negozio e non hanno più bisogno di tenere i campi coltivati con altre specie che catturino l’energia solare per tutto l’anno; è come se si fossero attaccati a una nuova presa di corrente. Se sommiamo il gas naturale presente nel concime, il combustibile utilizzato nella fabbricazione dei pesticidi, quello necessario per i trattori, per il raccolto, l’essiccazione e il trasporto, troviamo che un quintale di mais prodotto con metodi industriali consuma l’equivalente di 4-4,5 litri di petrolio, ovvero 470 litri all’ettaro (certe stime portano a valori molto più alti). Detto in altro modo, per produrre una caloria alimentare ci vuole più di una caloria di combustibili fossili.


Accanto a me 534 [un manzo] stava abbassando il testone, tuffandolo nel fiume di mangime fresco. Che assurdità, pensavo: siamo qui immersi nel letame, con una bella vista su una pozza marrone, in questo posto dimenticato da dio, nel mezzo del nulla in Kansas. Dimenticato, forse, ma non separato, come ho capito pensando ai molti altri luoghi connessi in qualche modo a questo sito dal fiume di mais industriale. Ho risalito il flusso da questa mangiatoia fino al campo in cui è stato raccolto e mi sono ritrovato nel mezzo dei trecentoventimila chilometri quadrati di monocoltura, sotto una fitta pioggia di pesticidi e fertilizzanti. Continuando, potevo seguire l’azoto mentre scappava via da tutto quel concime chimico e finiva nel Golfo del Messico, aggiungendo il suo veleno a quello che ha già reso duecentomila chilometri quadrati di mare un deserto così povero di ossigeno che nulla tranne le alghe vi può sopravvivere. E ancora, a ritroso, guardavo il fertilizzante (e il carburante, e i pesticidi) servito per far crescere tutto quel mais tornare indietro da dove era venuto, dai giacimenti di petrolio del Golfo Persico.

Non sono così immaginifico da fissare il mio manzo e vederci un barile di petrolio. Eppure questo è oggi uno degli ingredienti principali nella produzione di carne, e il Golfo Persico è sicuramente un anello della catena alimentare che passa per questo feedlot (e per tutti gli altri). 534 ha iniziato il suo ciclo vitale come parte di una catena la cui fonte di energia primaria era il sole, che faceva crescere le piante di cui si nutriva con sua madre. Quando si è trasferito dal ranch all’allevamento intensivo, passando dall’erba al mais, è entrato in una catena industriale spinta dal combustibile fossile, e quindi difesa dal complesso militare (un altro costo di cui non si tiene mai conto): un quinto di tutto il petrolio consumato in America viene utilizzato per la produzione e il trasporto degli alimenti. Ritornato a casa, ho chiesto a un economista che si occupa in modo specifico di agricoltura se fosse possibile calcolare precisamente quanto combustibile sarebbe stato necessario per far crescere il mio manzo e portarlo fino al macello. Supponendo che 534 continui a mangiare dodici chili di mais al giorno e raggiunga i seicento chili di peso, consumerebbe l’equivalente di centotrenta litri di petrolio (quasi un barile).


Il modo più elementare per convertire l’energia solare in una forma utilizzabile dagli animali è sfruttare l’erba. Come dice Joel, «questi fili sono i nostri impianti fotovoltaici». E il modo più efficiente, anche se forse non il più semplice, per coltivare grandi quantità di questi pannelli solari è la gestione intensiva del pascolo, un metodo che come dice la parola stessa si basa più sulla strategia che sul capitale, o sull’energia fornita dall’esterno. Per iniziare basta qualche recinto elettrificato mobile, la voglia di lavorare ogni giorno per spostare gli animali su pascoli freschi e quel tipo di profonda conoscenza delle specie erbacee che Joel cercava di infondermi quel mattino di primavera, sdraiato a pancia in giù su un prato.

«La cosa più importante da sapere è che la crescita delle erbe segue una curva sigmoidale, cioè a “S”». Joel mi prese penna e taccuino e si mise a disegnare un grafico, copiato da uno di quelli contenuti nel libro di Voisin. «L’asse verticale rappresenta l’altezza della pianta, giusto? E quello orizzontale è il tempo, cioè i giorni trascorsi dall’ultima volta che un prato è stato brucato». Cominciò a tracciare una grande S partendo dall’origine degli assi, l’angolo in basso a sinistra. «Vedi, la crescita all’inizio è davvero lenta, ma dopo qualche giorno inizia ad accelerare, tanto che si parla di “crescita esplosiva”. Quando la pianta si è riavuta dai morsi degli animali, ha ricostruito le sue riserve e la massa delle radici, è pronta per ripartire. Però dopo un po’» e mi mostrò la curva che si appiattiva più o meno al quattordicesimo giorno «rallenta di nuovo, nel momento in cui è pronta a fiorire e a spargere i semi. Entra nella fase di senescenza, aumenta il contenuto di lignina e diventa meno appetibile per i bovini.

«La cosa importante è mandare le bestie al pascolo esattamente in questo momento» mi disse picchiando con forza il dito sulla carta «al punto più alto della crescita esplosiva. E non bisogna mai, per nessun motivo, violare la legge del secondo morso: alle mucche non deve essere consentito ripassare su un pezzo di pascolo che non ha ancora avuto il tempo di rimettersi in forma».

Se questa «legge del secondo morso» esistesse davvero nel codice penale, gran parte degli allevatori del pianeta sarebbero fuori legge, visto che permettono ai loro animali di pascolare in modo continuo sulla stessa terra. Alla seconda o terza passata, le specie più prelibate (come trifoglio, erba mazzolina, festuche, sweet grass, coda di topo e fienarole) si indeboliscono e a poco a poco spariscono, lasciando sul terreno chiazze spelacchiate e specie infestanti o legnose che i bovini non toccano nemmeno. Una pianta cerca sempre di bilanciare la parte aerea con quella radicale, per cui se la si tiene sempre corta con un pascolo eccessivo questa non sviluppa più le radici profonde che servono a portare verso la superficie acqua e minerali. Con l’andare del tempo, una zona erbosa troppo sfruttata si deteriora, e se il clima della zona è secco o instabile questa finirà con il diventare desertica. Il motivo per cui gli ambientalisti hanno una visione così pessimista dell’allevamento nell’Ovest è che quasi tutti gli operatori del settore praticano il pascolo continuo, violano la legge del secondo morso e contribuiscono al degrado del territorio.

A quel punto Joel strappò un filo di erba mazzolina per mostrarmi il punto esatto in cui una mucca l’aveva tagliato, la settimana precedente: una zona di ricrescita di un verde brillante, lunga un dito, si era sviluppata nel frattempo. Quel filo d’erba era una sorta di linea temporale, su cui era segnata in modo deciso la differenza tra la zona verde scura precedente al pascolo e quella più chiara seguente. «Ecco, questa è proprio la fase di crescita esplosiva. Penso che questo tratto sarà pronto per ricevere di nuovo le bestie fra tre o quattro giorni» disse Joel.

«Gestione intensiva» non è un modo di dire. Joel deve aggiornare in continuazione il foglio elettronico con cui tiene sotto traccia il preciso stato vegetativo delle decine e decine di appezzamenti in cui è divisa la fattoria, di superficie variabile tra gli 0,4 e i due ettari, tenendo conto del tempo e delle stagioni. Al momento la sua attenzione era concentrata sul luogo dove ci trovavamo, una porzione di terra grande due ettari, abbastanza pianeggiante, situata subito accanto alla stalla e delimitata a nord da una siepe e a sud da un ruscello e dalla strada sterrata che unisce le varie zone della fattoria, serpeggiando come un tronco tortuoso. Il numero di variabili locali coinvolte nel processo decisionale mi dava alla testa, a dimostrazione di quanto sia difficile far rientrare la gestione intensiva del pascolo nel sistema dell’agricoltura industriale, fondato sulla standardizzazione e sulla semplicità. Il numero di giorni necessario perché un prato ritorni in forma è tutto fuorché fissato: cambia con la temperatura, la quantità di precipitazioni, l’esposizione solare, la stagione, la dimensione, l’età e la condizione del bestiame (una vacca in lattazione, ad esempio, mangia il doppio di una priva di latte).

L’unità di misura con cui in erbicoltura si fanno questi calcoli e si stabiliscono esattamente i tempi e i luoghi in cui consentire nuovamente l’accesso al pascolo è il «giornomucca» (cow day), definito semplicemente come la quantità media di foraggio che un capo di bestiame ingerisce in un giorno. Perché la rotazione funzioni, è importante sapere di preciso quanti giorni-mucca può fornire ogni singolo appezzamento. C’è da dire, però, che questa unità di misura risulta essere ben più elastica che non, ad esempio, la velocità della luce, perché i giorni-mucca di una zona aumentano e diminuiscono con il mutare di tutte le variabili viste sopra.

Non solo l’eccessivo sfruttamento, ma anche l’eccessivo abbandono può essere distruttivo per un pascolo, perché porta a prati pieni di piante legnose e senescenti, con conseguente calo della produttività. Ma se si riesce a trovare il giusto equilibrio, a far pascolare il numero ideale di capi al momento ideale, per sfruttare la crescita esplosiva dell’erba, le rese sono incredibili e la qualità del suolo migliora di volta in volta. Per Joel questo ritmo ottimale è il «polso dei pascoli». Secondo i suoi dati, la Polyface è arrivata a una produttività pari a mille giorni-mucca per ettaro, mentre la media degli altri allevatori della contea è attorno ai centottanta. «In effetti è come se ci fossimo comprati un’altra fattoria, al prezzo di qualche recinto mobile e di un sacco di lavoro organizzativo».

La buona riuscita dell’erbicoltura dipende quasi esclusivamente da una miriade di complesse conoscenze locali, proprio in un’epoca in cui l’agricoltura si basa sull’esatto opposto: un management esterno all’azienda e un approccio standard buono per tutti gli usi, rappresentato dalla chimica e dalla meccanizzazione. L’erbicoltore invece, che gestisce tutto da sé in un luogo molto particolare, deve giostrare in continuazione nello spazio e nel tempo le risorse della sua fattoria, affidandosi alle sue capacità di osservazione per organizzare una serie di appuntamenti quotidiani in cui pascoli e animali si incontrano con il massimo beneficio per entrambi.


A marzo, durante la mia prima visita, avevo già visto all’opera uno degli esempi più interessanti di stratificazione. Il tutto avveniva nella stalla, una struttura costruita abbastanza rozzamente, aperta ai lati, in cui i bovini trascorrono tre mesi durante l’inverno. In quel periodo, ogni capo consuma dodici chili di fieno e ne produce ventiquattro di sterco al giorno (la differenza la fa l’acqua). Joel non rimuove il letame dalla stalla, ma lo lascia lì per terra, coprendolo periodicamente con uno strato di trucioli. Man mano che questa specie di tiramisù di sterco e legno si alza di livello sotto le zampe delle bestie, Salatin non fa altro che sollevare un poco la mangiatoia regolabile dove mette il fieno: alla fine dell’inverno, il pavimento della stalla si sarà alzato quasi di un metro. C’è poi un ingrediente segreto che si deve unire a ogni strato: qualche secchio di granturco. Nel corso dei mesi freddi, in questa mistura avviene il compostaggio, che genera calore (e in questo modo riduce il fabbisogno calorico degli animali) e fa fermentare il mais. Joel dice che il compost è la coperta elettrica delle sue bestie.

Perché l’aggiunta di mais? Perché i maiali impazziscono per i chicchi fermentati ad alto contenuto alcolico, e sono in grado di scovarli senza problemi grazie al loro muso robusto e allo straordinario senso dell’olfatto. «Sono i miei porc-aeratori» mi spiegò Joel con orgoglio, mentre entravamo nella stalla. Quando in primavera i bovini tornano sui pascoli, decine e decine di maiali arrivano sul posto e iniziano a rovistare in modo sistematico nel compost, rivoltandolo e aerandolo alla ricerca dei chicchi alcolici. Un processo fino a quel momento anaerobico diviene così improvvisamente aerobico, con il risultato che la temperatura aumenta enormemente, il compostaggio si accelera e i patogeni vengono distrutti. Dopo poche settimane di «porc-aerazione», sul pavimento della stalla rimane un ricco strato di compost simile a un dolce al cioccolato, pronto per l’uso.

«Queste sono le macchine agricole che piacciono a me: non bisogna cambiargli l’olio, si rivalutano col passare del tempo e quando non ti servono più te le puoi mangiare». Eravamo seduti in cima a una staccionata di legno e stavamo osservando i maiali all’opera, mentre facevano il lavoro al posto nostro. Mi veniva in mente il vecchio modo di dire «godere come un porco». Semisepolti dal letame in fermentazione, in cui si tuffavano continuamente, questi animali, con i loro bei prosciuttoni e le codine a cavatappi, mi sembravano i più felici che avessi mai visto in vita mia.

Vedere quella flotta di riccioli rosa spostarsi sul mare marrone come tanti periscopi di sottomarini mi fece venire in mente il destino ben diverso delle code dei maiali allevati in modo tradizionale. Detto brutalmente, non esistono. Gli allevatori gliele tagliano alla nascita, seguendo una pratica che ha una sua logica perversa nel culto dell’efficienza che domina una porcilaia industriale. I maialini nati nei CAFO sono allontanati dalla madre a dieci giorni dalla nascita (in natura lo svezzamento avviene a tredici settimane), perché ingrassano meglio con un pastone pieno di medicine che con il latte di scrofa. Ma questo distacco prematuro frustra il loro desiderio innato di succhiare e mordicchiare, una voglia che cercano di soddisfare nelle gabbie con la coda di chi sta davanti a loro. Un maiale sano si ribellerebbe a questo morso, ma agli esemplari depressi degli allevamenti non importa più nulla. In psicologia si parla di «impotenza appresa», fenomeno molto diffuso nei CAFO, dove decine di migliaia di maiali passano la vita senza mai vedere la terra o il sole, stretti dentro gabbie di metallo chiuse sui quattro lati e sospese su una fossa settica. Non deve stupirci il fatto che un animale così intelligente si deprima in queste condizioni e si lasci mordere la coda fino a farsi venire un’infezione. Visto che curare gli esemplari malati non conviene economicamente, queste unità produttive non più efficienti vengono in genere ammazzate sul posto a bastonate.

Il ministero dell’Agricoltura raccomanda la mozzatura delle code come soluzione al «vizio» porcino di mordersele. Con l’aiuto di un paio di pinze, ma senza anestetico, si strappa via il codino lasciandone però un pezzetto attaccato. Questo perché lo scopo dell’operazione non è eliminare del tutto l’organo, ma renderlo ipersensibile. Dopo questo trattamento il morso di un altro individuo è talmente doloroso da provocare la reazione anche del maiale più depresso. Per quanto terribile ci possa sembrare questa pratica, è facile capirne la logica: la strada per l’inferno porcino è lastricata delle buone intenzioni dell’efficienza industriale.
Per contrasto, il paradiso qui in mostra nella stalla di Salatin è figlio di un’idea molto diversa di efficienza, che si basa su quella che lui chiama «natura maialesca del maiale». Anche questi animali sono sfruttati dall’uomo, ingannati in modo da produrre compost oltre che costolette. Ma questo sistema si distingue dagli altri perché è progettato seguendo le preferenze naturali delle bestie, e non secondo le specifiche di una macchina industriale, a cui gli animali si devono poi adeguare. La felicità di questi maiali è semplicemente conseguenza del fatto che li si tratta come veri maiali, non come macchine da carne difettose, con «difetti» come la coda e la tendenza a stressarsi se allevati in cattive condizioni.
Joel scese a terra, là dove le sue bestie stavano grufolando con entusiasmo, raccolse una manciata di compost fresco e me la mise sotto il naso. Ciò che fino a poche settimane prima era stato un insieme di letame bovino e trucioli di legno, ora mandava un odore caldo e dolce, simile a quello del sottobosco d’estate. Un miracolo di transustanziazione. Non appena i maiali finiscono la loro alchimia, il compost viene sparso sui pascoli, dove nutre l’erba che a sua volta nutrirà le mucche, che a loro volta nutriranno le galline [tramite le larve che le mosche depongono nello sterco delle mucche] e così via, fino a quando non cade la prima neve: una lunga, elegante e convincente prova del fatto che in un mondo dove l’erba si fa con il sole e gli animali si fanno con l’erba è davvero possibile mangiare gratis.