Entropizzarsi un po’

Da Come cambiare la tua mente,
di Michael Pollan (Adelphi, 2019)

«Nel cervello umano, un eccesso di entropia può condurre a modalità di pensiero ancestrali e, qualora sia portato all’estremo, alla follia; d’altra parte, se l’entropia si riduce, può ugualmente paralizzarci. La presa di un ego dispotico può costringere a una rigidità di pensiero psicologicamente distruttiva. Può rivelarsi tale anche sul piano sociale e politico, in quanto chiude la mente alle informazioni e a punti di vista alternativi.»

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NEUROSCIENZE
IL CERVELLO E LE SOSTANZE PSICHEDELICHE

Che cosa era appena accaduto nel mio cervello?

Era stata una molecola a lanciarmi in ciascuno di quei trip, ed ero tornato dai miei viaggi con un’intensa curiosità di apprendere sia quello che la chimica poteva raccontarmi sulla coscienza, sia ciò che quelle informazioni avrebbero potuto eventualmente rivelarmi sulla relazione tra cervello e mente. Come si passa dall’ingestione di un composto sintetizzato da un fungo o da un rospo (o anche da un chimico) a un nuovo stato della coscienza con il potere di modificare la tua visione delle cose non soltanto durante il viaggio, ma per molto tempo dopo che la sostanza ha abbandonato il tuo corpo?

In effetti, le molecole in questione erano tre – psilocina, LSD e 5-MeO-DMT –, ma anche un’occhiata superficiale alla loro struttura (e lo dice uno che in chimica alle superiori aveva una sufficienza tirata) denota una somiglianza. Tutte e tre sono triptamine: un tipo di composto organico (per la precisione un indolo) caratterizzato dalla presenza di due anelli, uno dei quali a sei atomi e l’altro a cinque. La natura vivente è traboccante di triptamine; sono presenti nelle piante, nei funghi e negli animali, dove di solito agiscono come molecole per la segnalazione tra le cellule. La triptamina più famosa nel corpo umano è un neurotrasmettitore, la serotonina, il cui nome chimico è 5-idrossitriptamina. Non è una coincidenza che questa molecola abbia una forte somiglianza con quella delle sostanze psichedeliche.

La serotonina sarà anche famosa come neurotrasmettitore, tuttavia molti suoi aspetti rimangono ancora un mistero. Per esempio, si lega a una dozzina di recettori diversi che si trovano non soltanto in molte parti del cervello, ma anche in tutto il corpo, con una notevole rappresentazione nel tratto digerente. A seconda del tipo di recettore in questione e della sua localizzazione, la serotonina è responsabile di effetti molto diversi: in alcuni casi eccita un neurone così da farlo scaricare, in altri lo inibisce. Visualizzatela come una parola il cui significato o la cui importanza possano cambiare drasticamente a seconda del contesto o addirittura della posizione nella frase.

Le triptamine appartenenti al gruppo degli «psichedelici classici» hanno una forte affinità per un particolare tipo di recettore serotoninergico, denominato 5-HT2A, presente in grande abbondanza nella corteccia cerebrale umana, ovvero nello strato più esterno ed evolutivamente recente del cervello. In pratica, le sostanze psichedeliche sono abbastanza simili alla serotonina da potersi legare al suo sito recettoriale e attivarlo, con varie conseguenze.

Fatto curioso, l’LSD ha un’affinità per il recettore 5-HT2A addirittura maggiore – è più «adesiva» nei suoi confronti – della stessa serotonina: un esempio in cui, dal punto di vista chimico, l’imitazione è più convincente dell’originale. Questo ha indotto molti scienziati a ipotizzare che il corpo umano debba produrre qualche altra sostanza chimica, tagliata su misura per il recettore 5-HT2A, con la chiara funzione di attivarlo: forse uno psichedelico endogeno che viene rilasciato in particolari circostanze, per esempio mentre sogniamo. Un possibile candidato è la DMT, molecola psichedelica isolata in tracce nella ghiandola pineale del ratto.

La scienza della serotonina e quella dell’LSD sono strettamente intrecciate fin dagli anni Cinquanta: fu proprio la scoperta che l’LSD agisce sulla coscienza a dosi infinitesime a contribuire, in quel decennio, al progresso della neurochimica – allora un campo di studi nuovo – portando allo sviluppo degli antidepressivi SSRI, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. Soltanto nel 1998, però, il ricercatore svizzero Franz Vollenweider, uno dei pionieri delle neuroscienze degli psichedelici, dimostrò che sostanze come l’LSD e la psilocibina agiscono nel cervello umano legandosi ai recettori 5-HT2A. Per farlo, somministrò ad alcuni soggetti una sostanza denominata ketanserina, che blocca quel recettore; quando poi somministrò loro la psilocibina, non accadde nulla.

D’altra parte, la scoperta di Vollenweider, per quanto importante, non è che un primo passo sulla strada lunga (e tortuosa) che porta dalla chimica delle sostanze psichedeliche agli stati della coscienza da essi indotti. Probabilmente il recettore 5-HT2A è la serratura sulla porta della mente, aperta da quelle tre molecole; ma in che modo quell’apertura chimica conduce a quello che io avevo provato e sperimentato? Alla dissoluzione del mio ego, per esempio, e alla scomparsa di qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto? O all’effetto morphing, alla trasformazione nell’occhio della mia mente, di Mary in María Sabina? In altre parole: che cosa può insegnarci la chimica del cervello sulla «fenomenologia» dell’esperienza psichedelica (sempre che abbia qualcosa da insegnarci)?

Tutte queste domande riguardano naturalmente i contenuti della coscienza, la quale almeno fino a questo punto ha eluso gli strumenti delle neuroscienze. Per coscienza io non intendo semplicemente l’«essere consci» – la fondamentale consapevolezza sensoriale degli esseri viventi riguardo ai mutamenti che hanno luogo nel loro ambiente, qualcosa che è facile misurare sperimentalmente. In questo senso stretto, anche le piante sono «coscienti», benché sia improbabile che possiedano una coscienza pienamente sviluppata. Quello che neuroscienziati, filosofi e psicologi intendono per «coscienza» è la nostra inconfondibile sensazione di essere, o di possedere, un sé con delle esperienze.

Sigmund Freud scrisse che «nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io». Nondimeno, giacché non esiste alcuna evidenza fisica esteriore dell’esistenza della coscienza così come la sperimentiamo noi, è difficile essere altrettanto certi del fatto che chiunque altro, e meno che mai altre creature, la possieda. La cosa di cui abbiamo maggior certezza è dunque fuori della portata della nostra scienza, che si presume sia il modo più sicuro di cui disponiamo per conoscere qualsiasi cosa.

Questo dilemma ha lasciato socchiusa una porta attraverso cui sono entrati scrittori e filosofi. Il classico esperimento di pensiero per determinare se un altro essere sia in possesso di una coscienza fu proposto dal filosofo Thomas Nagel in un famoso saggio del 1974, Che cosa si prova ad essere un pipistrello? Nagel sosteneva che se «a essere un pipistrello si prova qualcosa» – se nella sua esperienza esiste una qualche dimensione soggettiva –, allora esso possiede una coscienza. Proseguiva poi ipotizzando che questo «che cosa si prova» potesse non essere riducibile a termini materiali. Mai.

A prescindere dal fatto che Nagel abbia o meno ragione, si tratta del più importante dibattito in corso nel campo degli studi sulla coscienza. Il nucleo della questione è spesso indicato come «problema difficile» oppure «iato esplicativo». Come si fa a spiegare la mente – la qualità soggettiva dell’esperienza – in termini di carne, ovvero in termini delle strutture anatomiche o della chimica del cervello? La domanda presuppone, come fa la maggior parte (anche se non la totalità) degli scienziati, che la coscienza sia un prodotto del cervello e che alla fine sarà spiegata in quanto epifenomeno di oggetti materiali quali i neuroni, le strutture anatomiche, le sostanze chimiche e le reti di comunicazione cerebrali. Di certo questa sembrerebbe l’ipotesi più parsimoniosa. Tuttavia, è ben lungi dall’essere dimostrata e diversi neuroscienziati dubitano che mai lo sarà: dubitano che qualcosa di elusivo come l’esperienza soggettiva – che cosa si prova a essere te – cederà mai al riduzionismo scientifico. Questi scienziati e questi filosofi sono a volte denominati «misteriani», che non va inteso come un complimento. Alcuni scienziati hanno sollevato la possibilità che la coscienza possa pervadere l’universo, e propongono di pensare ad essa come facciamo per l’elettromagnetismo o la gravità, ovvero come a uno dei fondamentali componenti della realtà.

L’idea che le droghe psichedeliche possano fare un po’ di luce sui problemi della coscienza ha una sua logica. Una sostanza psichedelica è abbastanza potente da disturbare profondamente il sistema che noi chiamiamo «coscienza in stato di veglia», così da spingere forse allo scoperto alcune delle sue fondamentali proprietà. Certo, anche gli anestetici disturbano la coscienza, tuttavia, poiché la mettono a silenzio, rendono accessibile una quantità di dati relativamente esigua. Al contrario, un soggetto sotto l’effetto degli psichedelici rimane sveglio e in grado di riferire in tempo reale quello che sta provando. Oggigiorno questi rapporti soggettivi possono essere correlati a varie misure dell’attività cerebrale, utilizzando diverse modalità di imaging – strumenti che negli anni Cinquanta e Sessanta, ai tempi della prima ondata di studi sulle sostanze psichedeliche, non erano disponibili.

Impiegando queste tecnologie in combinazione con l’LSD e la psilocibina, alcuni scienziati che lavorano in Europa e negli Stati Uniti stanno alzando il velo sulla coscienza, e ciò che cominciano a vedere promette di cambiare la nostra interpretazione dei legami tra mente e cervello.

La spedizione neuroscientifica più ambiziosa che fa uso di psichedelici per mappare il territorio della coscienza umana è forse quella in corso all’Imperial College di Londra, in un laboratorio del Centre for Psychiatry dell’Hammersmith Campus. Completato di recente, quest’ultimo consiste di una rete di edifici futuristici, benché stranamente deprimenti, collegati tra loro da passaggi aerei con pareti in vetro e porte scorrevoli pure in vetro, che si aprono silenziosamente quando rilevano il codice di identificazione corretto. È qui, nel laboratorio dell’insigne psicofarmacologo inglese Davit Nutt, che un gruppo di ricerca guidato da Robin Carhart-Harris, neuroscienziato non ancora quarantenne, lavora dal 2009 per identificare i «correlati neurali», ovvero le controparti fisiche, dell’esperienza psichedelica. Iniettando ad alcuni volontari LSD e psilocibina, e poi utilizzando varie tecnologie di scansione – compresa la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la magnetoencefalografia (MEG) – per osservare i cambiamenti che hanno luogo nel loro cervello, lui e il suo gruppo ci hanno consentito di dare un primo sguardo a come appaiono nel cervello fenomeni quali la dissoluzione dell’ego, o un’allucinazione, quando si dispiegano nella mente.

Il fatto che un progetto di ricerca tanto improbabile e potenzialmente controverso sia decollato dipende dal convergere – in Inghilterra nel 2005 – di tre personaggi quanto mai insoliti, e delle rispettive carriere: David Nutt, Robin Carhart-Harris e Amanda Feilding, nota anche come la contessa di Wemyss e di March.

Robin Carhart-Harris arrivò al laboratorio di psicofarmacologia di David Nutt percorrendo una via non convenzionale passata per un corso di specializzazione in psicoanalisi. Di questi tempi la psicoanalisi è una teoria che pochi neuroscienziati prendono sul serio, giacché la considerano non tanto una scienza quanto piuttosto un insieme di credenze non verificabili. Carhart-Harris era però di tutt’altro avviso. Immerso negli scritti di Freud e Jung, era affascinato dalla teoria psicoanalitica e allo stesso tempo esasperato tanto dalla sua mancanza di rigore scientifico, quanto dalle limitazioni degli strumenti di cui essa dispone per esplorare l’inconscio, che peraltro considera l’aspetto più importante della mente.

«Se l’unico modo per avere accesso all’inconscio è grazie ai sogni e alle libere associazioni,» mi spiegò la prima volta che parlammo «non andremo da nessuna parte. Di certo dev’esserci qualcos’altro». Un giorno Robin domandò al suo professore se quel qualcos’altro potesse essere una sostanza chimica (gli chiesi se quel presentimento fosse basato su esperienze o ricerche personali, ma lui chiarì che non era un argomento di cui desiderava discutere). Il professore lo mandò a leggere un libro intitolato Realms of the Human Unconscious, di Stanislav Grof.

«Andai in biblioteca e lessi il libro dalla prima pagina all’ultima. Ne rimasi enormemente impressionato. Orientò il resto della mia gioventù».

Carhart-Harris – energico e sempre di fretta, giovane e snello, con la barba curata e grandi occhi celesti che raramente battono ciglio – mise a punto un programma il cui avvio richiese qualche anno: avrebbe usato le sostanze psichedeliche e le moderne tecnologie di brain imaging per dare un fondamento di solida scienza all’edificio della psicoanalisi. «Freud disse che i sogni erano la via regia per l’inconscio;» mi ricordò «gli psichedelici potrebbero rivelarsi l’autostrada». Carhart-Harris ha un atteggiamento modesto, perfino umile, che non lascia trapelare in alcun modo l’audacia della sua ambizione. Gli piace citare la grandiosa asserzione di Grof: gli psichedelici saranno per la comprensione della mente quello che il telescopio è stato per l’astronomia e il microscopio per la biologia.

Completato il master in psicoanalisi nel 2005, Carhart-Harris cominciò a programmare il suo passaggio alle neuroscienze degli psichedelici. Chiese in giro e fece qualche ricerca in rete che alla fine lo condusse da David Nutt e Amanda Feilding, due persone potenzialmente interessate al suo progetto e nella posizione di aiutarlo. Dapprima interpellò Feilding, che nel 1998 aveva istituito la Beckley Foundation sia per studiare gli effetti delle sostanze psicoattive sul cervello, sia per fare pressione a favore della riforma in materia di politica sulle droghe. La fondazione prende il nome da Beckley Park, nell’Oxfordshire, il grande maniero del quattordicesimo secolo dove Feilding è cresciuta e dove, nel 2005, invitò Carhart-Harris a pranzo (in una mia visita recente, ho contato due torri e tre fossati).

Nata nel 1943, Amanda Feilding è un’eccentrica come ne possono nascere solo nell’aristocrazia inglese (discende dagli Asburgo e da due figli illegittimi di Carlo II). Studiosa di religioni comparate e misticismo, nutre da tempo un profondo interesse per gli stati alterati della coscienza e in particolare per l’importanza del flusso ematico cerebrale che, secondo lei, in Homo sapiens è stato compromesso da quando la nostra specie cominciò ad assumere la postura eretta. L’LSD, secondo Feilding, potenzia la funzione cognitiva e promuove stati di coscienza superiore, aumentando la circolazione cerebrale. Un altro modo per raggiungere un risultato simile è per mezzo dell’antica pratica della trapanazione, che merita una breve digressione.

La trapanazione comporta che si pratichi un foro superficiale nel cranio, teoricamente per migliorare la circolazione cerebrale; in effetti, l’operazione ripristina lo stadio precedente la saldatura delle ossa craniche che ha luogo nell’infanzia. A giudicare dal numero di antichi crani rinvenuti con evidenti fori, la trapanazione fu per secoli una procedura medica comune. Convinta che avrebbe facilitato il raggiungimento di stati di coscienza superiore, Feilding si mise alla ricerca di qualcuno disposto a eseguire l’operazione su di lei. Quando capì che nessun professionista si sarebbe prestato, nel 1970 si operò da sola praticandosi un piccolo foro in mezzo alla fronte con un trapano elettrico (documentò la procedura in un video, breve ma terrificante, intitolato Heartbeat in the Brain). Soddisfatta dei risultati, si presentò due volte alle elezioni per il parlamento, con una piattaforma intitolata «Trapanazione per la salute pubblica».

D’altra parte, per quanto possa essere eccentrica, Amanda Feilding di certo non è inconcludente. Il suo lavoro sulle droghe – sia in tema di ricerca, sia in tema di riforma della politica che le riguarda – è stato serio, strategico e produttivo. In anni recenti il centro del suo interesse si è spostato dalla trapanazione alla capacità delle sostanze psichedeliche di migliorare la funzione cerebrale. Feilding ha usato personalmente l’LSD come una sorta di «tonico per il cervello», optando per una dose quotidiana che conduce a «quel punto cruciale in cui creatività ed entusiasmo sono aumentati, ma il controllo è mantenuto». (Mi disse che c’era stato un tempo in cui collocava quella dose «tonica» di LSD sui 150 microgrammi – ben al di sopra di una microdose, e sufficiente a spedire la maggior parte delle persone, me compreso, in un vero e proprio trip. Tuttavia, poiché l’uso frequente dell’LSD può portare alla tolleranza, è perfettamente possibile che per alcuni soggetti 150 microgrammi si limitino ad «aggiungere una certa vivacità alla coscienza»). Come constatai io stesso, quando parla del proprio contributo al nuovo dibattito sulla scienza degli psichedelici, Feilding è d’una schiettezza disarmante: «Io sono una drogata. Vivo in questa grande casa. E ho un buco in testa. Immagino che questo mi squalifichi».

Perciò, quando nel 2005 un aspirante giovane scienziato di nome Robin Carhart-Harris si presentò a Beckley per pranzo e condivise con lei le sue ambizioni di combinare Freud e la ricerca sull’LSD, Feilding colse immediatamente il suo potenziale, insieme all’opportunità di verificare le proprie idee sulla circolazione cerebrale. Disse quindi a Carhart-Harris che probabilmente la fondazione Beckley sarebbe stata disposta a finanziargli la ricerca e gli suggerì di contattare David Nutt, all’epoca professore all’Università di Bristol e suo alleato nella campagna per la riforma della politica sulle droghe.

In Inghilterra la reputazione di David Nutt è a suo modo problematica come quella di Amanda Feilding. Classe 1951, corpulento e allegro, baffuto e con una risata fragorosa, Nutt si guadagnò la sua particolare notorietà nel 2009, quando il segretario di stato per gli Affari interni lo licenziò dall’ACMD (Advisory Council on the Misuse of Drugs), organismo del quale era stato presidente. L’ACMD ha il compito di consigliare il governo sulla classificazione delle droghe illecite in base al rischio che esse comportano per gli individui e per la società. Nutt, che è un esperto di dipendenze e di benzodiazepine, una classe di sostanze a cui appartiene per esempio il valium, aveva commesso il fatale errore politico di quantificare empiricamente i rischi di varie sostanze psicoattive, lecite e illecite. Dalla sua ricerca aveva concluso – e lo raccontava a chiunque glielo chiedesse – che l’alcol è più pericoloso della cannabis e che usando l’ecstasy si corrono meno rischi che andando a cavallo.

«Ma la battuta che determinò il mio benservito» mi spiegò quando ci incontrammo nel suo studio all’Imperial «fu quando partecipai in diretta televisiva a un programma del mattino. Mi chiesero: “Non starà dicendo sul serio che l’LSD è meno pericolosa dell’alcol, vero?”. Ma certo che sì!».

Robin Carhart-Harris andò a conoscere David Nutt nel 2005, sperando di studiare i sogni e le sostanze psichedeliche a Bristol, sotto la sua guida; cercando di essere strategico, menzionò la possibilità di finanziamento da parte di Feilding. Per come Carhart-Harris ricorda il colloquio, Nutt gli riservò un brusco rifiuto: «“Quella che lei propone è un’idea incredibilmente forzata; lei non ha alcuna esperienza nel campo delle neuroscienze – è del tutto irrealistico”. Ma io gli dissi che puntavo tutto su quel progetto». Impressionato dalla determinazione del giovane, Nutt gli fece una proposta: «Venga a fare un PhD con me. Cominceremo con qualcosa di semplice» – uno studio degli effetti dell’MDMA sul sistema serotoninergico – «e poi forse, in seguito, potremo passare agli psichedelici».

Quell’«in seguito» arrivò nel 2009, quando Carhart-Harris, che adesso era armato di un PhD e lavorava nel laboratorio di Nutt con i finanziamenti di Amanda Feilding, ricevette dal National Health Service e dall’Home Office l’autorizzazione per studiare l’effetto della psilocibina sul cervello (il momento dell’LSD sarebbe arrivato qualche anno dopo). Carhart-Harris si offrì come primo volontario. «Se intendi dare questa droga a delle persone e poi infilarle in uno scanner, pensavo, la cosa più onesta da fare è provare tu per primo». Ma, non appena lo disse a Nutt, «mi dissuase, perché ho un’indole ansiosa e probabilmente non sarei stato psicologicamente nelle condizioni migliori; pensava anche che partecipare all’esperimento avrebbe potuto compromettere la mia obiettività». Alla fine il primo volontario a ricevere un’iniezione di psilocibina, e poi a scivolare dentro uno scanner per la fMRI, così da ottenere le immagini del suo cervello durante il trip, fu un collega.

L’ipotesi di lavoro di Carhart-Harris era che il cervello dei soggetti avrebbe mostrato un aumento di attività, in particolare nei centri delle emozioni. «Pensavo che sarebbe stato simile al cervello mentre sogna» mi disse. Impiegando una tecnologia di scansione diversa, Franz Vollenweider aveva pubblicato alcuni dati secondo i quali gli psichedelici stimolavano l’attività cerebrale, soprattutto nei lobi frontali (un’area responsabile di funzioni esecutive e cognitive superiori di altro tipo). Ma, quando arrivò la prima serie di dati, per Carhart-Harris fu una sorpresa: «Eravamo di fronte a una riduzione del flusso ematico», una delle variabili proxy dell’attività cerebrale misurate dalla fMRI. «Avevamo sbagliato qualcosa? Era veramente un rompicapo». I dati iniziali sul flusso ematico furono tuttavia confermati da altre misure, in particolare delle variazioni del consumo di ossigeno, effettuate per individuare aree di aumentata attività cerebrale. Carhart-Harris e i suoi colleghi avevano scoperto che la psilocibina riduce l’attività del cervello, e che tale riduzione è concentrata in una particolare rete cerebrale di cui all’epoca si sapeva ben poco, la DMN (default mode network: la rete della modalità di default o, più tecnicamente, «connettività funzionale intrinseca»).

Carhart-Harris cominciò a documentarsi. Fino al 2001 la DMN era sconosciuta alle neuroscienze. Fu allora che Marcus Raichle, un neurologo della Washington University, la descrisse in un articolo poi rivelatosi una pietra miliare, pubblicato su «Proceedings of the National Academy of Sciences» («PNAS»). La DMN costituisce, per l’attività cerebrale, un hub localizzato centralmente, di importanza fondamentale, che connette alcune regioni corticali a strutture più profonde (e più antiche) implicate nella memoria e nell’emozione.

In effetti, la scoperta della DMN fu un accidente scientifico, un felice prodotto collaterale dell’uso, nella ricerca sul cervello, delle tecniche di brain imaging. Un tipico esperimento con la fMRI comincia con la registrazione basale dell’attività neurale in «stato di riposo», mentre il volontario sta tranquillamente all’interno dello scanner in attesa del test che il ricercatore ha in serbo per lui. Raichle aveva osservato che alcune aree del cervello mostravano un aumento dell’attività proprio quando, mentalmente, i soggetti non stavano facendo nulla: era la DMN, la rete di strutture cerebrali che si accende di attività quando la nostra attenzione non è richiesta e non dobbiamo eseguire alcun compito mentale. In altre parole, Raichle aveva scoperto il luogo in cui la nostra mente si ritira a vagabondare – a sognare a occhi aperti, a ruminare, a viaggiare nel tempo, a riflettere su noi stessi, a preoccuparsi. Può darsi che il flusso della coscienza scorra proprio attraverso queste strutture.

La DMN si trova in una sorta di reciprocità con le reti che si risvegliano ogniqualvolta il mondo esterno richiede la nostra attenzione; come un’altalena, quando una è attiva le altre si mettono a riposo, e viceversa. D’altra parte – chiunque può testimoniarlo – quando fuori di noi non sta accadendo un gran che, nella mente accade moltissimo (in effetti la DMN consuma una proporzione esorbitante dell’energia a disposizione del cervello). Operando a una certa distanza rispetto all’elaborazione dei dati sensoriali provenienti dal mondo esterno, la DMN è attiva soprattutto quando siamo impegnati in processi «metacognitivi» di livello superiore come l’autoriflessione, i viaggi mentali nel tempo, le costruzioni mentali (quali il sé o l’ego), il ragionamento morale, e la «teoria della mente» – ovvero l’abilità di attribuire stati mentali agli altri, per esempio quando cerchiamo di immaginare «come sia» essere qualcun altro. Tutte queste funzioni sono probabilmente esclusive degli esseri umani e, più specificamente, degli esseri umani adulti, giacché la DMN entra in funzione tardi, nel corso dello sviluppo.

«Il cervello è un sistema gerarchico» mi spiegò Carhart-Harris in una delle nostre interviste. «Le parti del livello superiore» – quelle sviluppatesi più tardi nella nostra evoluzione, di solito localizzate nella corteccia – «esercitano un’influenza inibitoria sulle parti del livello inferiore [le più antiche] come quelle deputate all’emozione e alla memoria». Nel complesso, la DMN esercita un’influenza top-down su altre parti del cervello, molte delle quali comunicano tra loro attraverso il suo hub centrale. Robin ha descritto la DMN in vario modo, come il «direttore d’orchestra», il «dirigente d’azienda» o la «capitale» del cervello, i quali sono tutti dotati di funzioni direttive e «tengono insieme l’intero sistema». E controllano le tendenze più ribelli del cervello.

Quest’ultimo consiste di numerosi sistemi specializzati differenti – uno per l’elaborazione visiva, per esempio, un altro per controllare l’attività motoria –, ciascuno impegnato nel proprio compito. «Il caos viene evitato perché i sistemi non sono creati tutti equivalenti» ha scritto Marcus Raichle. «La segnalazione elettrica proveniente da alcune aree cerebrali ha la precedenza rispetto a quella che viene da altre. Al vertice di questa gerarchia si trova la DMN che agisce come un über-direttore per assicurare che la cacofonia dei segnali in competizione provenienti da un sistema non interferisca con quelli provenienti da un altro». La DMN mantiene quindi l’ordine in un sistema talmente complesso che altrimenti potrebbe precipitare nell’anarchia della malattia mentale.

Come accennato, la DMN sembra avere una parte nella creazione di proiezioni o costrutti mentali, il più importante dei quali è quello che chiamiamo «sé o ego». Ecco perché alcuni neuroscienziati la chiamano «rete del “me”». Se un ricercatore ti mostra una lista di aggettivi chiedendoti di considerare in che modo si applichino a te, è la DMN a entrare in azione (si attiva anche quando riceviamo dei «like» sui social media). I nodi della rete DMN sono ritenuti responsabili della memoria autobiografica, ovvero del materiale a partire dal quale componiamo la nostra storia collegando le esperienze passate sia con quanto sta accadendo ora, sia con le proiezioni dei nostri obiettivi per il futuro.

La conquista di un sé individuale – di un essere con un passato esclusivo e una sua traiettoria verso il futuro – è uno dei trionfi dell’evoluzione umana, ma non è scevra da inconvenienti e potenziali disturbi. Il prezzo da pagare per la percezione di un’identità individuale è un senso di separazione dagli altri e dalla natura. La contemplazione di sé può portare ad alte vette intellettuali e artistiche, ma anche a forme distruttive di orgoglio e a molti tipi di infelicità (in un articolo spesso citato, intitolato A Wandering Mind Is an Unhappy Mind, alcuni psicologi rilevarono una forte correlazione tra infelicità e tempo passato nei vagabondaggi della mente, una delle principali attività della DMN). Accettando i pro e i contro, tuttavia, la maggior parte di noi considera questo sé come un dato di fatto incrollabile, più reale di tutto ciò che conosciamo, fondamento della nostra vita di esseri umani coscienti. Per lo meno, io l’avevo sempre considerato così, finché le esperienze psichedeliche mi indussero a farmi qualche domanda.

Forse la scoperta più impressionante del primo esperimento di Carhart-Harris fu che, nei volontari, i cali più bruschi di attività della DMN erano correlati all’esperienza soggettiva di «dissoluzione dell’ego» («esistevo soltanto come un’idea o un concetto» disse uno; un altro ricordava: «non sapevo dove finivo io e dove cominciava l’ambiente intorno a me»). Più il calo del flusso ematico e del consumo di ossigeno nella DMN era precipitoso, maggiore era la probabilità che il volontario riportasse la perdita di un senso del sé.

Carhart-Harris aveva da poco pubblicato i suoi risultati in un articolo del 2012 uscito su «PNAS» (Neural Correlates of the Psychedelic State as Determined by fMRI Studies with Psilocybin) quando Judson Brewer, un ricercatore di Yale che stava usando la fMRI per studiare il cervello di meditatori esperti, si accorse che le sue scansioni e quelle di Robin erano straordinariamente simili. Il superamento del sé riportato dai meditatori esperti appariva nelle scansioni fMRI come un silenziamento della DMN. Nel momento in cui l’attività di quest’ultima si riduce drasticamente, sembra che abbia luogo una temporanea scomparsa dell’ego, e che i consueti confini sperimentati tra sé e mondo esterno, tra soggetto e oggetto, si dissolvano tutti.

Questo senso di fusione in una qualche totalità più vasta è naturalmente uno dei tratti caratteristici dell’esperienza mistica; il nostro senso di individualità e separazione s’incardina su un sé ben delimitato, e su una chiara demarcazione tra soggetto e oggetto. Ma tutto questo può essere una costruzione mentale, una sorta di illusione: proprio come i buddhisti hanno sempre cercato di dirci. L’esperienza psichedelica di «non dualità» indica che la coscienza sopravvive alla scomparsa del sé, il quale pertanto non è così indispensabile come a noi – e a lui – piace credere. Carhart-Harris sospetta che la perdita di una chiara distinzione tra soggetto e oggetto possa aiutare a spiegare un altro aspetto dell’esperienza mistica: il fatto cioè che le rivelazioni che essa promuove siano percepite come oggettivamente vere – non tanto semplici vecchie intuizioni, ma verità rivelate. Può darsi che per giudicare un’intuizione come meramente soggettiva – per giudicarla un’opinione individuale – si debba prima di tutto avere un senso della soggettività: precisamente ciò che il mistico sotto l’effetto degli psichedelici ha perduto.

L’esperienza mistica potrebbe essere, semplicemente, quel che si prova quando la DMN viene disattivata, il che può essere realizzato in vario modo: grazie agli psichedelici e alla meditazione, come hanno dimostrato Robin Carhart-Harris e Judson Brewer, ma forse anche tramite particolari esercizi di respirazione (per esempio la respirazione olotropica), la deprivazione sensoriale, il digiuno, la preghiera, potenti esperienze di «rapimento», sport estremi, esperienze di quasi-morte eccetera. Che cosa rivelerebbe una scansione cerebrale effettuata in tali situazioni? Possiamo soltanto fare qualche ipotesi, ma forse vedremmo lo stesso silenziamento della DMN riscontrato da Brewer e Carhart-Harris, che potrebbe essere realizzato limitando il flusso ematico alla rete DMN, oppure stimolando i recettori serotoninergici 2A corticali, o disturbando altrimenti i ritmi oscillatori che normalmente organizzano l’attività cerebrale. Comunque sia, mettere fuori servizio questa rete particolare può darci accesso a stati di coscienza straordinari – momenti di perfetta armonia o estasi che non sono meno meravigliosi per il fatto d’avere una causa fisica.

Se la DMN dirige l’orchestra che esegue la sinfonia dell’attività cerebrale, ci aspettiamo che la sua temporanea assenza dal palcoscenico porti a un aumento della dissonanza e del disturbo mentale – come in effetti sembra accadere durante il viaggio psichedelico. In una serie di successivi esperimenti eseguiti con diverse tecniche per l’imaging cerebrale, Carhart-Harris e colleghi hanno cominciato a studiare che cosa accade nelle altre sezioni dell’orchestra neurale quando la DMN posa la bacchetta.

Nel complesso la DMN esercita la sua influenza inibitoria sulle altre parti del cervello – in particolare sulle regioni limbiche implicate nelle emozioni e nella memoria – in modo molto simile a come Freud immaginava facesse l’ego, impegnato a tenere sotto controllo le forze anarchiche dell’id inconscio (David Nutt non ci gira intorno, e afferma che nella DMN «abbiamo trovato il correlato neurale della rimozione»). Carhart-Harris ipotizza che quando la DMN abbandona la scena questi e altri centri di attività mentale vengano «sguinzagliati»: in effetti, sotto l’influenza degli psichedelici, le scansioni cerebrali mostrano un aumento di attività (rivelato dall’aumento del flusso ematico e del consumo d’ossigeno) in diverse altre parti del cervello, comprese le regioni limbiche. Questa disinibizione potrebbe spiegare come mai, con gli psichedelici, materiali ai quali la coscienza non ha accesso nel normale stato di veglia – compresi ricordi, emozioni e, a volte, traumi infantili rimasti a lungo sepolti – affiorino invece alla superficie della nostra consapevolezza. È per questa ragione che alcuni scienziati e psicoterapeuti credono che tali sostanze possano essere proficuamente impiegate per far emergere, ed esplorare, i contenuti dell’inconscio.

D’altra parte, la DMN non esercita soltanto un controllo top-down sul materiale proveniente dall’interno; aiuta anche a regolare quello che viene lasciato entrare nella coscienza dal mondo esterno. Funziona come una sorta di filtro (o di «valvola di riduzione») con il compito di ammettere soltanto quel «misero rigagnolo» di informazione necessario per arrivare a fine giornata. Se non fosse per i meccanismi-filtro del cervello, il torrente di informazioni rese disponibili dai sensi in ogni dato istante potrebbe dimostrarsi difficile da elaborare – come in effetti a volte accade durante l’esperienza psichedelica. «C’è da chiedersi» dice David Nutt «perché – invece di essere così aperto – il cervello sia di norma tanto costretto». La risposta potrebbe essere molto semplice: «efficienza». Oggi la maggior parte dei neuroscienziati adotta un paradigma del cervello inteso come macchina che produce previsioni. Per formare la percezione di qualcosa presente nel mondo esterno, il cervello accoglie la quantità di informazioni sensoriali strettamente indispensabile a compiere un’ipotesi ben fondata. In sostanza, quando si tratta di dar forma alle percezioni attuali, noi andiamo sempre dritti al punto e saltiamo alle conclusioni basandoci su esperienze precedenti.

L’esperimento della maschera che avevo cercato di eseguire durante il mio viaggio con la psilocibina è una dimostrazione convincente di questo fenomeno. Se qualche indizio visivo suggerisce che stiamo guardando una faccia, il cervello – almeno in condizioni normali – insiste nel vederla come una struttura convessa anche quando non lo è, perché di solito è così che sono le facce.

Il modello della «codificazione predittiva» ha implicazioni strane e profonde, ovvero che le nostre percezioni non ci offrano una trascrizione letterale della realtà, ma piuttosto un’illusione, priva di soluzioni di continuità, intessuta a partire tanto dai dati forniti dai sensi, quanto dai modelli presenti nella memoria. Nel normale stato di veglia la coscienza sembra perfettamente trasparente; eppure, più che una finestra sulla realtà, è un prodotto della nostra immaginazione – una sorta di allucinazione controllata. Questo solleva un interrogativo: in che misura la normale coscienza in stato di veglia è diversa da altri prodotti della nostra immaginazione, in apparenza meno fedeli, come i sogni, i deliri psicotici o i trip psichedelici? In effetti, tutti questi stati della coscienza sono «immaginari»: sono costrutti mentali che intrecciano nuove informazioni con precedenti di vario genere. Nel caso della coscienza normale in stato di veglia, però, a siglare l’accordo tra i dati offerti dai sensi e i nostri preconcetti è una stretta di mano particolarmente salda. L’accordo è infatti soggetto a un continuo processo di «esame di realtà», un po’ come quando ci protendiamo per assicurarci dell’esistenza di un oggetto nel campo visivo, oppure quando, dopo esserci risvegliati da un incubo, consultiamo la nostra memoria per capire se davvero ci siamo presentati a far lezione senza vestiti addosso. A differenza di quegli altri stati, la consueta coscienza in stato di veglia è stata ottimizzata dalla selezione naturale affinché facilitasse al meglio la nostra quotidiana sopravvivenza.

In realtà, quella sensazione di trasparenza che associamo alla coscienza ordinaria è forse dovuta più alla familiarità e all’abitudine che non all’autenticità. Come mi disse uno psiconauta che conosco, «se fosse possibile sperimentare temporaneamente lo stato mentale di un’altra persona, credo che – a causa della sua enorme disparità con il nostro stato mentale abituale, quale che esso sia – ci sembrerebbe più simile a uno stato psichedelico che non a uno stato “normale”».

Un altro esperimento di pensiero che ha il sapore di un trip consiste nel cercare di immaginare come appaia il mondo a una creatura con un apparato sensoriale e modalità di vita completamente diversi dai nostri. Qui si capisce subito che non esiste un’unica realtà in attesa di essere trascritta in modo completo e fedele; i nostri sensi sono evoluti per uno scopo molto più limitato e catturano solo quello che serve alle nostre necessità di animali d’un particolare tipo. L’ape è sensibile a uno spettro di luce completamente diverso dal nostro; guardare il mondo con i suoi occhi significa vedere i disegni ultravioletti sui petali dei fiori (evoluti per guidarla nell’atterraggio, quasi che fossero le luci ai bordi di una pista) – disegni che per noi non esistono. E questo esempio almeno si riferisce a un particolare tipo di vista, cioè a un senso che noi e le api condividiamo. Ma come possiamo anche solo lontanamente concepire i sensi che permettono loro (mediante certi «peli» che hanno sulle zampe) di registrare i campi elettromagnetici prodotti dalle piante? (Un campo debole indica che un’altra ape ha recentemente visitato il fiore, il quale, ormai svuotato di nettare, probabilmente non vale una fermata). E poi c’è il mondo secondo i polpi! Immaginate come la realtà debba presentarsi diversa a un cervello che è stato così drasticamente decentralizzato, la cui intelligenza è distribuita su otto braccia in modo che ciascuna di esse possa assaggiare, toccare e perfino prendere le proprie «decisioni» senza consultare il quartier generale.

Che cosa accade quando, sotto l’influenza degli psichedelici, quella stretta di mano tra cervello e realtà – generalmente salda – viene meno? Nulla, a quanto pare. Ho chiesto a Carhart-Harris se, quando è in trip, il cervello favorisca le previsioni top-down o i dati sensoriali bottom-up. «Questo è il classico dilemma» disse: se la mente, libera dai vincoli, tenda a favorire i precedenti oppure le evidenze fornite dai sensi. «Spesso si riscontra una sorta di irruenza o di zelo eccessivo verso i precedenti, come quando si vedono dei volti nelle nuvole». Impaziente di dare un senso al veloce flusso dei dati in entrata, il cervello salta a conclusioni erronee e a volte ne risulta un’allucinazione (il paranoide fa più o meno la stessa cosa, imponendo senza tregua una falsa narrazione al flusso delle informazioni in entrata). In altri casi, però, la valvola di riduzione si spalanca, così da lasciar passare una gran quantità di informazioni, a volte gradite e accolte senza alcun editing.

Quando assumono gli psichedelici, le persone con cecità cromatica riferiscono di poter vedere per la prima volta certi colori, e alcune ricerche indicano che sotto l’effetto di tali sostanze la musica viene sentita in modo diverso: il timbro o il colore – una dimensione della musica che trasmette emozione – è elaborato in modo più intenso. Durante il mio viaggio con la psilocibina, quando ascoltai la suite di Bach, ero certo di averne colto più di quanto mi fosse mai capitato: d’averne registrato sfumature e toni che non ero stato in grado di sentire prima, e che non ho più sentito da allora.

Carhart-Harris ritiene che, nella percezione, gli psichedelici rendano la consueta stretta di mano tra cervello e realtà meno salda e più scivolosa: durante un trip il cervello può «oscillare avanti e indietro» tra l’imposizione dei precedenti e l’accettazione di evidenze non elaborate offerte dai sensi. Sospetta, per esempio, che durante l’esperienza psichedelica vi siano momenti in cui la fiducia nelle nostre consuete nozioni top-down sulla realtà viene meno, aprendo così la strada al passaggio, attraverso il filtro, di una maggior quantità di informazioni bottom-up; quando però tutta quell’informazione sensoriale minaccia di sopraffarci, la mente genera freneticamente nuove idee (folli o geniali, poco importa) per dare un senso a tutto l’insieme – «e così magari vedi saltar fuori delle facce dalla pioggia».

«È il cervello che fa quel che fa il cervello»: in altre parole, lavora per ridurre l’incertezza raccontandosi, in buona sostanza, delle storie.

Il cervello umano è un sistema inconcepibilmente complesso – forse il più complesso mai esistito –, nel quale è emerso un ordine le cui massime espressioni sono il sé sovrano e la normale coscienza in stato di veglia. In età adulta il cervello è ormai diventato abilissimo a osservare e verificare la realtà, come pure a formulare previsioni attendibili tali da ottimizzare i nostri investimenti di energia (mentale e non solo) e pertanto le nostre probabilità di sopravvivenza. L’incertezza è la più grande sfida che un cervello complesso debba affrontare, e la codificazione predittiva evolse per aiutarci a ridurla. In generale il tipo di pensiero predigerito o convenzionale prodotto da questo adattamento ci rende un buon servizio. Ma solo fino a un certo punto.

Dove si trovi precisamente quel punto è una questione che Robin Carhart-Harris e colleghi hanno esplorato in un articolo ambizioso e stimolante intitolato The Entropic Brain: A Theory of Conscious States Informed by Neuroimaging Research with Psychedelic Drugs, pubblicato nel 2014 su «Frontiers in Human Neurosciences»: qui Carhart-Harris cerca di esporre la sua ambiziosa sintesi tra psicoanalisi e scienze cognitive. Il nocciolo della questione è: il raggiungimento, nella mente umana adulta, di un ordine e di un’individualità ha un prezzo? L’articolo conclude che sì, lo ha. Se è vero che, nel cervello, sopprimere l’entropia (in questo contesto sinonimo di incertezza) «serve a promuovere il realismo, la lungimiranza, la riflessione ponderata e una capacità di riconoscere e superare le pie illusioni e le fantasie paranoidi», allo stesso tempo questo traguardo tende a «vincolare la cognizione» e a esercitare «un’influenza limitante o riduttiva sulla coscienza».

A qualche mese dalla pubblicazione dell’articolo sull’entropia, dopo una serie di colloqui via Skype, Robin Carhart-Harris e io stavamo per incontrarci nel suo appartamento al quinto piano di una casa senz’ascensore, in una zona senza pretese di Notting Hill. Di persona, fui colpito dalla spontaneità e dall’intensità di Robin. Malgrado l’ambizione, ha un atteggiamento straordinariamente modesto che non ti prepara alla sua inclinazione ad avventurarsi in imprese intellettuali che spaventerebbero scienziati meno intrepidi.

L’articolo sull’entropia ci chiede di concepire la mente come una macchina per la riduzione di incertezza gravata da qualche serio difetto. La grande complessità del cervello umano e il maggior numero di stati mentali presenti nel suo repertorio rispetto ad altri animali fanno del mantenimento dell’ordine una priorità assoluta, per evitare che il sistema sprofondi nel caos.

Un tempo, scrive Carhart-Harris, il cervello umano o protoumano presentava una forma di «coscienza primaria » molto più anarchica, caratterizzata dal «pensiero magico» – convinzioni sulla realtà generate da desideri, paure e interpretazioni in chiave soprannaturale (nella coscienza primaria, scrive Carhart-Harris, «la cognizione effettua un campionamento della realtà esterna meno meticoloso ed è invece facilmente indotta al pregiudizio dall’emozione, ovvero da ansie e desideri»). Il pensiero magico è un modo grazie al quale la mente umana riduce la propria incertezza nei confronti della realtà, ma si rivela tutt’altro che ottimale per il successo della specie.

Secondo Carhart-Harris, con l’evoluzione della DMN – un sistema di regolazione cerebrale assente o meno sviluppato negli animali inferiori e nei bambini piccoli – emerse un modo migliore per sopprimere, nel cervello umano, incertezza ed entropia. Insieme alla DMN, «compare un senso coerente del sé o dell’“ego”» e, con quello, la capacità umana di autoriflessione e ragionamento. Il pensiero magico lascia così il posto a «uno stile di pensiero più aderente alla realtà, governato dall’ego». Attingendo da Freud, Carhart-Harris chiama questa modalità di cognizione più evoluta «coscienza secondaria». La coscienza secondaria «rispetta la realtà, e cerca di rappresentarla diligentemente nel modo più preciso possibile» così da minimizzare «la sorpresa e l’incertezza (ovvero, l’entropia)».

L’articolo contiene una bella illustrazione che mostra uno «spettro di stati cognitivi», da quelli ad alta entropia a quelli a bassa entropia. All’estremo dello spettro corrispondente ai primi, gli autori collocano gli stati psichedelici, la coscienza dei bambini piccoli, le fasi iniziali delle psicosi, il pensiero magico e il pensiero divergente o creativo. All’estremo corrispondente agli stati a bassa entropia, elencano invece il pensiero rigido o limitato, le dipendenze, il disturbo ossessivo-compulsivo, la depressione, l’anestesia e infine il coma.

Carhart-Harris ipotizza che i «disturbi» psicologici collocati sull’estremo a bassa entropia dello spettro non derivino da una mancanza di ordine a livello cerebrale, ma piuttosto da un suo eccesso. Quando i solchi del pensiero autoriflessivo si fanno più rigidi e profondi, l’ego diventa dispotico. Forse è nella depressione – quando l’ego si ripiega su se stesso e a poco a poco la realtà viene oscurata da un’introspezione incontrollabile – che questo diventa più chiaramente palese. Carhart-Harris cita ricerche che indicano come questo stato mentale debilitante (a volte denominato heavy self-consciousness o realismo depressivo) possa essere il risultato di una DMN iperattiva, in grado di intrappolarci in cicli di ruminazione ripetitivi e distruttivi che alla fine ci escludono dal mondo esterno. La valvola di riduzione di Huxley si contrae a zero. Secondo Carhart-Harris chi soffre di vari disturbi caratterizzati da schemi di pensiero eccessivamente rigidi – tra cui le dipendenze, le ossessioni e i disturbi alimentari, come pure la depressione – può aspettarsi di trarre beneficio dalla «capacità degli psichedelici di interrompere schemi di pensiero e comportamento stereotipati, disintegrando gli schemi di attività [neurale] sui quali essi si fondano».

È dunque possibile che alcuni cervelli riescano a trarre vantaggio da un po’ più di entropia – e non da un po’ meno. È qui che entrano in scena gli psichedelici. Silenziando la DMN, questi composti possono allentare la presa dell’ego sui meccanismi della mente e «lubrificare» la cognizione là dove questa, come un ingranaggio arrugginito, s’era precedentemente inceppata. «Gli psichedelici alterano la coscienza disorganizzando l’attività cerebrale» scrive Carhart-Harris. Aumentano l’entropia, con il risultato che il sistema torna a una modalità di cognizione meno vincolata.

«Non c’è soltanto l’attenuazione di un sistema,» dice «ma anche il riaffiorare di un sistema più antico». Il quale è la coscienza primaria, una modalità di pensiero in cui l’ego perde temporaneamente il suo dominio e l’inconscio, ora non più controllato, «viene portato in uno spazio osservabile». Questo è il valore euristico degli psichedelici per lo studio della mente, secondo Carhart-Harris – che peraltro ne riconosce anche il valore terapeutico.

Vale la pena di notare che Carhart-Harris non romanticizza gli psichedelici ed è piuttosto insofferente verso il tipo di «pensiero magico» e di «metafisica» che essi alimentano nei loro accoliti – per esempio l’idea che la coscienza sia «transpersonale», cioè una proprietà dell’universo invece che del cervello umano. Secondo lui, le forme di coscienza liberate dagli psichedelici sono regressioni a una modalità di cognizione «più primitiva». Come Freud, Carhart-Harris crede che la perdita del sé e il senso di perfetta armonia, caratteristici dell’esperienza mistica – sia essa indotta dalla chimica o dalla religione –, ci riportino alla condizione psicologica del bambino attaccato al seno materno, cioè a uno stadio in cui deve ancora sviluppare un senso del sé come individuo separato e distinto. Per Carhart-Harris, l’apice dello sviluppo umano è il raggiungimento di questo sé o ego differenziato, con la sua imposizione di un ordine all’anarchia di una mente primitiva spinta da desideri e paure, e dedita a varie forme di pensiero magico. Benché sostenga come Aldous Huxley che gli psichedelici spalanchino le porte della percezione, non è d’accordo con lui sul fatto che tutto quanto arriva da quell’apertura – compreso l’«Intelletto in Genere» intravisto da Huxley – sia necessariamente reale. «L’esperienza psichedelica può offrire una gran quantità di oro falso» mi disse.

Nondimeno, crede che nell’esperienza psichedelica vi sia anche dell’oro autentico. Quando ci incontrammo, mi portò l’esempio di scienziati che avevano avuto alcune intuizioni sul funzionamento del cervello grazie alle proprie esperienze personali con l’LSD. Nel cervello umano, un eccesso di entropia può condurre a modalità di pensiero ancestrali e, qualora sia portato all’estremo, alla follia; d’altra parte, se l’entropia si riduce, può ugualmente paralizzarci. La presa di un ego dispotico può costringere a una rigidità di pensiero psicologicamente distruttiva. Può rivelarsi tale anche sul piano sociale e politico, in quanto chiude la mente alle informazioni e a punti di vista alternativi.

In una delle nostre conversazioni, Robin ipotizzò che una classe di sostanze in grado, nella mente, di rovesciare le gerarchie e di promuovere il pensiero non convenzionale abbia il potenziale di rimodellare gli atteggiamenti dei suoi consumatori nei confronti di autorità di ogni tipo; in altre parole, che questi composti possano avere un effetto politico. Molti ritengono che l’LSD abbia avuto esattamente quel ruolo nel rivolgimento politico degli anni Sessanta.

«Furono gli hippie a gravitare verso gli psichedelici – oppure furono questi ultimi a creare gli hippie? Nixon pensava che fosse corretta la seconda ipotesi. Può darsi che avesse ragione!». Robin crede che gli psichedelici siano anche in grado di spostare in modo impercettibile l’atteggiamento degli individui nei confronti della natura, anch’esso andato incontro a cambiamenti epocali negli anni Sessanta. Quando l’influenza della DMN declina, viene meno anche il nostro senso di separazione dall’ambiente. Il suo gruppo all’Imperial College ha sottoposto alcuni volontari a un test con una scala psicologica standard che misura la «connessione con la natura» (i rispondenti valutano il proprio accordo nei confronti di affermazioni come questa: «Io non sono separato dalla natura, ma parte di essa»). Un’esperienza psichedelica aumentava i punteggi dei partecipanti.

Che aspetto ha, dunque, un cervello nella modalità ad alta entropia? Le varie tecnologie di scansione utilizzate dal laboratorio dell’Imperial College per mappare il cervello durante un trip psichedelico dimostrano che mentre le singole reti neurali specializzate – come la DMN e il sistema di elaborazione visiva – si disintegrano, il cervello diventa nel complesso più integrato e compaiono nuove connessioni tra regioni di norma reciprocamente isolate oppure connesse soltanto attraverso l’hub centrale della DMN. In altri termini, le varie reti del cervello diventano meno specializzate.

«Sotto l’effetto della droga, reti distinte diventano meno distinte,» scrivevano Carhart-Harris e i colleghi «il che implica una comunicazione più libera» con altre reti cerebrali. «Sotto l’effetto degli allucinogeni, il cervello opera con maggior flessibilità e interconnessione».

In un articolo pubblicato nel 2014 sul «Journal of the Royal Society Interface» il gruppo dell’Imperial College ha dimostrato che quando la DMN è disattivata e si permette alla marea dell’entropia di montare, le consuete vie di comunicazione presenti all’interno del cervello vengono radicalmente riorganizzate. Utilizzando la magnetoencefalografia, una tecnica di scansione che localizza l’attività elettrica cerebrale, gli autori hanno prodotto una mappa delle comunicazioni che hanno luogo nel cervello sia in corrispondenza della normale coscienza in stato di veglia sia dopo un’iniezione di psilocibina (i risultati sono mostrati nelle pagine seguenti). In condizioni normali – come mostra l’immagine in alto – le varie reti del cervello (qui raffigurate sulla circonferenza, ciascuna con un colore diverso) comunicano per lo più al proprio interno, mentre tra di loro le vie molto trafficate sono in numero relativamente limitato.

Quando però – come mostrato in basso – il cervello è sotto l’influenza della psilocibina, si formano migliaia di nuove connessioni tra regioni cerebrali lontane che nella coscienza in un normale stato di veglia non si scambiano molta informazione. In effetti, il traffico viene reindirizzato da un numero relativamente contenuto di autostrade, a una miriade di strade più piccole che collegano molte più destinazioni. Il cervello sembra diventare meno specializzato e, nell’insieme, più interconnesso, con una quantità considerevolmente superiore di rapporti, o «conversazioni», tra i suoi vari quartieri.

Placebo

Psilocibina

Questo temporaneo ricablaggio può influenzare l’esperienza mentale in diversi modi. Quando i centri della memoria e delle emozioni sono in grado di comunicare direttamente con i centri dell’elaborazione visiva, è possibile che desideri e paure, come pure pregiudizi ed emozioni, comincino a ispirare ciò che vediamo: un tratto caratteristico della coscienza primaria, e una ricetta per il pensiero magico. Allo stesso modo, l’instaurarsi di nuovi legami tra i sistemi cerebrali può dar luogo alla sinestesia, per esempio quando le informazioni sensoriali vengono incrociate così che i colori diventano suoni, o i suoni informazioni tattili. Oppure, i nuovi legami generano allucinazioni, come accadde quando i contenuti della mia memoria trasformarono la percezione visiva di Mary in María Sabina, o l’immagine della mia faccia allo specchio in una visione di mio nonno. La formazione di nuove connessioni di tipo ancora diverso potrebbe manifestarsi nell’esperienza mentale come una nuova idea, una prospettiva originale, un’intuizione creativa, l’attribuzione di nuovi significati a oggetti familiari – o tutti quei fenomeni mentali bizzarri che vengono riferiti nel corso di un’esperienza psichedelica. L’aumento di entropia consente la fioritura di migliaia di stati mentali, molti dei quali bizzarri e privi di senso, ma alcuni rivelatori, fantasiosi e, almeno potenzialmente, trasformativi.

Un modo di pensare a questa fioritura di stati mentali è che essa aumenta temporaneamente la diversità presente nella nostra vita mentale. Se la risoluzione di problemi è qualcosa di simile a un adattamento evolutivo, quanto più numerose sono le possibilità di cui la mente dispone, tanto più creative saranno le sue soluzioni. In questo senso, l’entropia è nel cervello un po’ come la variazione nell’evoluzione: in altre parole, fornisce la diversità dei materiali sui quali la selezione potrà poi operare così da risolvere problemi e portare innovazione nel mondo. Se, come molti artisti e scienziati hanno testimoniato, l’esperienza psichedelica è d’aiuto alla creatività – al pensiero «fuori dagli schemi» –, questo modello potrebbe contribuire a spiegare perché: può darsi che in realtà il problema sorga quanto si ha a che fare con uno «schema» soltanto.

Una questione fondamentale, a cui la scienza non ha neanche lontanamente iniziato a rispondere, è se le nuove connessioni neurali rese possibili dagli psichedelici siano in qualche modo durature o se, una volta esaurito l’effetto della droga, il cablaggio del cervello ritorni allo status quo ante. La scoperta effettuata nel laboratorio di Roland Griffiths – e cioè che l’esperienza psichedelica conduce a cambiamenti a lungo termine nel tratto della personalità definito come «apertura» – solleva la possibilità che mentre il cervello viene ricablato abbia luogo una sorta di apprendimento, e che in un modo o nell’altro quest’ultimo possa persistere. L’apprendimento implica l’instaurarsi di nuovi circuiti neurali i quali, più vengono esercitati, più diventano robusti. Il destino a lungo termine delle nuove connessioni formatesi durante l’esperienza psichedelica – persistenti o evanescenti che siano – potrebbe dipendere dalla misura in cui, una volta conclusa l’esperienza, noi le richiamiamo e, di fatto, le esercitiamo (cosa che potrebbe ridursi semplicemente a ricordare quanto abbiamo sperimentato, rinforzandolo durante il processo di integrazione, oppure a usare la meditazione per ricreare lo stato alterato di coscienza). Franz Vollenweider ha ipotizzato che l’esperienza psichedelica possa promuovere la «neuroplasticità»: aprire una finestra in cui schemi di pensiero e comportamento diventano più plastici e quindi più facili da modificare. Il suo modello suona come una forma chimicamente mediata di terapia cognitiva comportamentale. Finora però tutto questo resta altamente speculativo; per adesso le mappature del cervello – effettuate prima e dopo l’assunzione di psichedelici, così da determinare che cosa venga modificato in modo duraturo dall’esperienza, ammesso che qualcosa lo sia – sono state poche.

Nel suo articolo sull’entropia, Carhart-Harris sostiene che perfino un ricablaggio cerebrale temporaneo possa rivelarsi prezioso, soprattutto nel caso di persone con disturbi caratterizzati da rigidità mentale. Un’esperienza con dosi elevate di psichedelici ha la capacità di «scuotere la palla di vetro con la neve» dice, disorganizzando schemi di pensiero poco sani e creando uno spazio di flessibilità – entropia – in cui schemi e narrazioni più salutari hanno l’opportunità di confluire, man mano che la neve torna a posarsi.

L’idea che aumentare il livello di entropia nel cervello umano possa in realtà essere una cosa buona è di certo controintuitiva: la maggior parte di noi attribuisce infatti a questo termine una connotazione negativa: «entropia» suggerisce un graduale deterioramento dell’ordine tanto faticosamente conquistato, la disintegrazione del sistema con il passare del tempo. Senza dubbio invecchiare dà l’impressione di un processo entropico – in cui mente e corpo vanno incontro a un graduale esaurimento e a un crescente disordine. Può darsi però che questo sia un modo sbagliato di visualizzare le cose. L’articolo di Robin Carhart-Harris mi indusse a chiedermi se, almeno nel caso della mente, l’invecchiamento non sia in realtà un processo di declino dell’entropia che comporta l’attenuarsi, col tempo, di quello che dovremmo considerare un attributo positivo della vita mentale.

Certo è che, nella mezza età, l’influenza del pensiero abituale sulle operazioni della mente è pressoché assoluta: ormai posso contare sull’esperienza passata affinché mi proponga risposte veloci, e in genere utili, per far fronte praticamente a qualsiasi richiesta della realtà: che si tratti di consolare un bambino o di rabbonire il coniuge, di sistemare una frase, di accettare un complimento, di rispondere alla domanda successiva, o di capire qualcosa che sta accadendo nel mondo. Con il tempo e l’esperienza, diventa più facile venire al punto e saltare alle conclusioni – avvalersi di cliché che implicano una certa agilità ma che di fatto denotano esattamente l’opposto: una pietrificazione del pensiero. Visualizzatelo come una codificazione predittiva, rapportata alla scala della vita; di solito i precedenti – e io ormai ne ho milioni – sono pronti a difendermi, e io posso confidare che mi offrano una risposta decorosa, anche se non particolarmente nuova o creativa. Un termine adulatorio per riferirsi a questo sistema di previsioni abbastanza buone è «saggezza».

Leggere l’articolo di Robin mi ha aiutato a capire meglio che cosa stessi cercando quando decisi di esplorare gli psichedelici: volevo dare una vigorosa scossa alla neve nella mia palla di vetro, vedere se potevo rinnovare la mia vita mentale quotidiana introducendovi una dose maggiore di entropia e di incertezza. Probabilmente invecchiare rende il mondo più prevedibile (in ogni senso), d’altra parte può anche alleggerire il carico di responsabilità, creando un nuovo spazio per la sperimentazione. Nel mio caso, avevo cercato di capire se fossi ancora in tempo per evitare alcuni dei solchi più profondi dell’abitudine, impressi nella mia mente dai vari «ci sono già passato» e «l’ho già fatto» legati alla lunga esperienza.

Nella fisica come nella teoria dell’informazione, l’entropia è spesso associata all’espansione, per esempio nel caso di un gas riscaldato o liberato dai vincoli d’un contenitore. Nel momento in cui le sue molecole diffondono nello spazio, diventa sempre più difficile prevedere la posizione di ognuna di esse singolarmente: l’incertezza del sistema, pertanto, aumenta. In una riga lasciata cadere alla fine del suo articolo sull’entropia, Carhart-Harris ci ricorda che negli anni Sessanta l’esperienza psichedelica era solitamente descritta come «espansione della coscienza»; che ne fossero o meno consapevoli, Timothy Leary e colleghi avevano trovato proprio la giusta metafora per il cervello entropico, metafora che ben si armonizza anche con la valvola di riduzione di Huxley, giacché implica che la coscienza esista in uno stato di apertura o di contrazione.

Sul piano dell’esperienza, per noi è quasi impossibile cogliere una qualità astratta come l’entropia, ma forse con l’espansione è diverso. Judson Brewer, il neuroscienziato che studia la meditazione, ha osservato come la sensazione che la coscienza si espanda sia correlata a una riduzione dell’attività in un particolare nodo della DMN – la corteccia del cingolo posteriore (CCP) – associato all’elaborazione autoreferenziale. Una delle cose più interessanti di un’esperienza psichedelica è che acuisce la sensibilità nei confronti dei propri stati mentali, soprattutto nei giorni immediatamente successivi. La consueta continuità della coscienza è disturbata in modo tale che ogni stato particolare – le divagazioni, l’attenzione concentrata, la ruminazione – è reso al tempo stesso più saliente e in qualche modo più facile da manipolare. Sulla scia delle mie esperienze psichedeliche (e forse della mia conversazione con Judson Brewer) scoprii che, se mi ci applicavo, ero in grado di collocare il mio stato di coscienza su uno spettro esteso dalla contrazione all’espansione.

Quando mi sento particolarmente generoso o grato, aperto ai sentimenti, agli altri e alla natura, registro per esempio un senso di espansione. Questo sentimento è spesso accompagnato da un’attenuazione dell’ego, come pure da un declino dell’attenzione prestata al passato e al futuro, con cui invece l’ego va a nozze (e dai quali dipende). Per lo stesso motivo, avverto un pronunciato senso di contrazione quando mi ossessiono sulle cose, ho paura, sono sulla difensiva, mi sento sotto pressione, sono preoccupato e pieno di rimpianti (questi ultimi due stati d’animo non esistono senza un viaggio nel tempo). In questi momenti, mi sento complessivamente più me stesso, e non in modo positivo. Se i neuroscienziati hanno ragione, quello che sto osservando nella mia mente ha un correlato fisico nel cervello: la DMN è attivata o disattivata, l’entropia è alta o bassa. Su come poi utilizzare esattamente questa informazione, non sono ancora sicuro.

Può darsi che ormai ne abbiamo perso il ricordo, ma tutti noi – anche quelli che non hanno mai preso psichedelici – abbiamo vissuto l’esperienza personale di un cervello entropico e dell’insolito tipo di coscienza che esso promuove: è stato quando eravamo piccoli. La coscienza di un bambino è talmente diversa da quella adulta, da costituire un territorio mentale tutto suo, dal quale a un certo punto, nella prima adolescenza, veniamo espulsi. C’è modo di ritornarci? In età adulta, il momento in cui ci avviciniamo di più a quella terra straniera è probabilmente durante un viaggio psichedelico. Questa, almeno, è la sorprendente ipotesi di Alison Gopnik, filosofa e psicologa dell’età evolutiva, mia collega a Berkeley.

Alison Gopnik e Robin Carhart-Harris affrontano il problema della coscienza da quelle che sembrano direzioni e discipline completamente diverse; tuttavia, non appena vennero a conoscenza dei rispettivi lavori (avevo inviato una e-mail ad Alison con il pdf dell’articolo di Robin, mentre a lui avevo parlato del magnifico libro di lei, Il bambino filosofo), iniziarono uno scambio che, almeno per me, si è dimostrato straordinariamente illuminante. Nell’aprile del 2016 quella loro conversazione arrivò davanti al pubblico, a un convegno sulla coscienza tenutosi a Tucson, in Arizona, dove si incontrarono di persona per la prima volta e parteciparono insieme a un dibattito.

Proprio come gli psichedelici hanno offerto a Carhart-Harris un’inquadratura obliqua da cui accostarsi al fenomeno della coscienza normale esplorandone uno stato alterato, Gopnik ci propone di considerare la mente del bambino piccolo come un altro tipo di «stato alterato», sotto diversi aspetti straordinariamente simile. Ci mette poi in guardia, avvertendoci che di solito il nostro pensiero sul tema è vincolato dalla nostra esperienza – personale e limitata – della coscienza, che naturalmente noi assumiamo sia il quadro completo. In questo caso, la maggior parte delle teorie e delle generalizzazioni sulla coscienza è stata formulata da persone che ne condividono un sottotipo abbastanza limitato, quella che Gopnik chiama la «coscienza del professore» e definisce come «la fenomenologia del professore medio di mezza età».

«Come accademici, o siamo straordinariamente concentrati su un problema particolare» dice Gopnik rivolgendosi al pubblico di filosofi e neuroscienziati raccolti a Tucson «o ce ne stiamo lì a dire a noi stessi: “Perché non riesco a concentrarmi su questo problema su cui dovrei concentrarmi, e invece sogno a occhi aperti?”». La stessa Gopnik sembra perfetta nei panni di una professoressa di Berkeley tra i sessanta e i sessantacinque anni, con le sue sciarpe colorate, le camicie sciolte e le scarpe comode. Bambina negli anni Sessanta e oggi nonna, ha uno stile, nel parlare, al tempo stesso spiritoso ed erudito, disseminato di citazioni e indice di una mente a proprio agio tanto in campo scientifico quanto in campo umanistico.

«Se pensavate, come spesso la gente ha pensato, che la coscienza fosse tutta lì … potreste benissimo ritrovarvi a credere che i bambini piccoli siano in effetti meno coscienti di noi», giacché mancano sia dell’attenzione concentrata sia dell’autoriflessione. Gopnik ci esorta invece a pensare alla coscienza dei bambini non in termini di quello che le manca o è meno sviluppato, ma piuttosto di quello che è presente in modo esclusivo e meraviglioso: qualità che, secondo lei, gli psichedelici possono aiutarci ad apprezzare meglio e, forse, a risperimentare.

Nel suo Il bambino filosofo Gopnik traccia un’utile distinzione tra la «coscienza “faro”» degli adulti e la «coscienza “lanterna”» dei bambini piccoli. La prima conferisce agli adulti la capacità di concentrare l’attenzione rigorosamente su un obiettivo (nei suoi commenti, Carhart-Harris l’ha definita «coscienza dell’ego» o «coscienza localizzata»). Nella seconda – la coscienza «lanterna» – l’attenzione è più ampiamente diffusa e consente al bambino di ricevere informazioni praticamente da ogni punto del suo campo di consapevolezza, che è molto ampio, più ampio di quello della maggior parte degli adulti (in questo, rispetto agli adulti, i bambini sono più coscienti e non meno). Mentre i bambini mostrano raramente periodi prolungati di coscienza «faro», gli adulti sperimentano a volte quella «vivida illuminazione panoramica del quotidiano» offerta dalla coscienza «lanterna». Per usare i termini di Judson Brewer, la coscienza «lanterna» è espansiva, la coscienza «faro» circoscritta o contratta.

Il cervello adulto orienta il faro della sua attenzione dove vuole, e poi si affida alla codificazione predittiva per comprendere quanto percepisce. Come ha scoperto Gopnik, l’approccio del bambino non è affatto questo: essendo inesperta del mondo, la sua mente dispone di un numero relativamente scarso di precedenti o preconcetti che ne guidino le percezioni lungo binari prevedibili. Il bambino si accosta invece alla realtà con la meraviglia di un adulto sotto l’effetto degli psichedelici.

Il significato di tutto questo in termini di cognizione e apprendimento può essere compreso meglio, secondo Gopnik, analizzando l’apprendimento d’una macchina, ovvero l’intelligenza artificiale. Quando insegnano ai computer ad apprendere e a risolvere problemi, i programmatori di IA parlano delle ricerche di risposte descrivendole come ad «alta» o «bassa temperatura». Una ricerca a bassa temperatura (chiamata così perché richiede meno energia) comporta il ricorso alla risposta più probabile e a portata di mano, per esempio quella che ha funzionato per un problema simile in passato. Il più delle volte, le ricerche a bassa temperatura vanno a buon fine. Per contro, una ricerca ad alta temperatura richiede più energia perché comporta il ricorso a risposte meno probabili ma forse più ingegnose e creative – quelle fuori dagli schemi preconcetti. Attingendo dalla sua grande esperienza, nella maggior parte dei casi la mente adulta effettua ricerche a bassa temperatura.

Gopnik ritiene che il bambino piccolo (di età pari o inferiore ai cinque anni), come pure l’adulto sotto l’effetto degli psichedelici, abbiano una più forte predilezione per la ricerca ad alta temperatura; nello sforzo di comprendere le cose, la loro mente esplora non solo quanto è vicino e più probabile, ma «l’intero spazio delle possibilità». Queste ricerche ad alta temperatura potrebbero essere inefficienti, giacché incorrono in un più alto tasso d’errore e la loro esecuzione richiede più tempo e più energie mentali. Le ricerche ad alta temperatura possono inoltre produrre risposte più magiche che realistiche; nondimeno, vi sono casi in cui sono l’unico modo per risolvere un problema, e sporadicamente danno luogo a risposte di straordinaria bellezza e originalità. E = mc2 fu il prodotto di una ricerca ad alta temperatura.

Gopnik ha verificato questa ipotesi sui bambini nel suo laboratorio, e ha scoperto l’esistenza di problemi che i piccoli di quattro anni risolvono meglio degli adulti; si tratta esattamente dei problemi che impongono di pensare fuori dagli schemi, quando l’esperienza in effetti non lubrifica ma intralcia i meccanismi risolutori, spesso perché il problema è nuovo. In un esperimento, Gopnik mostrò ai bambini una scatola che si illumina e suona quando viene posto sopra di essa un oggetto di un certo tipo. Normalmente questo «rilevatore di “blicket”» è impostato in modo da rispondere a un singolo pezzo di un certo colore o di una certa forma; ma, quando lo sperimentatore riprogramma la macchina in modo che essa risponda soltanto quando due pezzi sono posti su di essa, i bambini di quattro anni ci arrivano molto più velocemente degli adulti.

«Il loro pensiero è meno vincolato dall’esperienza, e quindi provano anche le opzioni più improbabili»; in altre parole, effettueranno moltissime ricerche ad alta temperatura, verificando le ipotesi più stravaganti. «In molti casi i bambini apprendono meglio degli adulti quando le soluzioni non sono ovvie» oppure, come dice lei, quando sono «più remote nello spazio delle possibilità», un regno in cui si sentono più a loro agio di noi. Stravaganti, appunto.

«Noi abbiamo l’infanzia più lunga di qualsiasi altra specie» spiega Gopnik. «Questo periodo esteso di apprendimento ed esplorazione è ciò che ci distingue. Io penso all’infanzia come a uno stadio ricerca e sviluppo della specie, dedito esclusivamente all’apprendimento e all’esplorazione. Noi adulti siamo invece divisioni produzione e marketing». In seguito le chiesi se intendesse dire che i bambini eseguono le funzioni di ricerca e sviluppo a livello individuale e non di specie, ma in effetti Gopnik intendeva esattamente quello che aveva detto.

«Ogni generazione di bambini si confronta con un ambiente nuovo,» mi spiegò «e il loro cervello è particolarmente abile ad apprendere e prosperare in quell’ambiente. Pensi ai figli dei migranti, o a bambini di quattro anni che si confrontano con un iPhone. Non sono i bambini a inventare questi nuovi strumenti o a creare i nuovi ambienti, ma a ogni generazione costruiscono il tipo di cervello che vi può prosperare al meglio. L’infanzia è il metodo grazie al quale la specie inietta rumore nel sistema dell’evoluzione culturale». In questo contesto, ovviamente, «rumore» è un altro termine per «entropia».

«Il cervello del bambino è estremamente plastico, buono per l’apprendimento, non per la realizzazione» – migliore per «esplorare che non per mettere a frutto». Ha anche moltissime connessioni neurali in più rispetto a quello degli adulti (durante la tavola rotonda, Carhart-Harris mostrò la sua mappa della mente sotto l’effetto della psilocibina, con la densa foresta di linee che mettono in connessione ogni regione con tutte le altre). Nel momento in cui raggiungiamo l’adolescenza, però, la maggior parte di quelle connessioni viene potata, così che «il cervello umano diventa una macchina efficientissima nell’azione». Un elemento chiave di quel processo di sviluppo è la soppressione dell’entropia, con tutte le implicazioni che ciò comporta, nel bene e nel male. Il sistema si raffredda, e le ricerche calde diventano l’eccezione invece della regola: viene attivata la DMN.

«Quando cresciamo, la coscienza si contrae» afferma Gopnik. «Gli adulti si cristallizzano nelle loro convinzioni e sono difficili da smuovere» ha scritto, mentre «i bambini sono più fluidi e di conseguenza più disposti ad accogliere idee nuove.

«Se volete capire com’è una coscienza espansa, non dovete far altro che intrattenervi con un bambino di quattro anni».

O mandar già una compressa di LSD. Gopnik mi disse di essere rimasta colpita dalle somiglianze tra la fenomenologia dell’esperienza psichedelica con l’LSD e la sua interpretazione della coscienza infantile: ricerche più calde, attenzione diffusa, più rumore (o entropia) mentale, pensiero magico e uno scarso senso di un sé continuo nel tempo.

«Per farla breve: in sostanza, i bambini – sia quelli molto piccoli che quelli un po’ più grandicelli – sono continuamente in trip».

Di certo questa visione è interessante, ma è anche utile? Gopnik e Carhart-Harris credono entrambi che lo sia; ritengono che l’esperienza psichedelica, così come loro la concettualizzano, abbia le potenzialità di aiutare sia le persone malate sia quelle che non lo sono. Introducendo più rumore o entropia nel cervello, gli psichedelici potrebbero riscuotere chi sta bene dai suoi consueti schemi di pensiero – come dice Carhart-Harris, «lubrificare la cognizione» – in modi forse in grado di aumentare il benessere, renderci più aperti e promuovere la creatività. Nei termini di Gopnik, le droghe potrebbero aiutare gli adulti a raggiungere quel tipo di pensiero fluido che è la seconda natura dei bambini, espandendo lo spazio delle possibilità creative. Se «l’infanzia è un modo per iniettare rumore – e novità – nel sistema dell’evoluzione culturale», come ipotizza Gopnik, gli psichedelici potrebbero fare la stessa cosa per il sistema nella mente adulta.

Per quanto riguarda chi invece non sta bene, i pazienti che possono aspettarsi i maggiori benefici sono probabilmente quelli affetti dai disturbi mentali caratterizzati da rigidità: le dipendenze, la depressione, le ossessioni.

«Negli adulti esiste una gamma di problemi e patologie – per esempio la depressione – connessi alla fenomenologia della ruminazione e a un’attenzione eccessivamente ristretta e concentrata sull’ego» afferma Gopnik. «Si resta bloccati sulla stessa cosa, non ci si riesce a liberare, si diventa ossessivi, forse dipendenti. Mi sembra plausibile che l’esperienza psichedelica possa aiutarci a uscire da quegli stati, creare un’opportunità in cui sia possibile riscrivere la vecchia storia di chi siamo». L’esperienza psichedelica potrebbe funzionare come una sorta di resettaggio – come quando «introduciamo una scarica di rumore in un sistema» bloccato all’interno di uno schema rigido. Per queste persone potrebbe essere utile anche silenziare la DMN e allentare la presa dell’ego – che Gopnik ipotizza possa ad ogni modo essere illusoria. L’idea di Gopnik, di un riavvio del cervello, suonava molto simile a quella di Carhart-Harris di dare una scossa alla neve dentro la palla di vetro: un modo per promuovere l’entropia, o il calore, in un sistema che si è congelato bloccandosi.

Subito dopo la pubblicazione dell’articolo sull’entropia, Carhart-Harris decise di mettere in pratica alcune delle sue teorie, verificandole sui pazienti: per la prima volta il suo laboratorio estese il proprio campo di interesse dalla ricerca pura a un’applicazione clinica. David Nutt ottenne un finanziamento del governo del Regno Unito affinché il suo laboratorio conducesse un piccolo studio pilota per indagare la capacità della psilocibina di alleviare i sintomi della «depressione resistente al trattamento»: pazienti che non avevano risposto ai consueti protocolli terapeutici e ai farmaci.

La ricerca clinica era decisamente al di fuori dell’esperienza e della comfort zone di Carhart-Harris, e lo stesso valeva per il laboratorio nel suo complesso. Uno sfortunato episodio, avvenuto all’inizio, evidenziò le intrinseche tensioni tra il ruolo del clinico, che è esclusivamente consacrato al benessere del paziente, e quello dello scienziato, che è determinato anche alla raccolta di dati. In una sperimentazione condotta da Carhart-Harris (non una sperimentazione clinica, va sottolineato) un volontario poco meno che quarantenne di nome Toby Slater, dopo l’iniezione di LSD – mentre era all’interno dello scanner per la fMRI – cominciò a sentirsi ansioso e chiese di uscire. Fatta una pausa, forse sperando di compiacere i ricercatori, Slater si offrì di tornare nella macchina per completare l’esperimento («temo possa aver colto il mio disappunto» ricorda mestamente Carhart-Harris). Tuttavia, l’ansia si ripresentò: «mi sentivo come un ratto da laboratorio» mi disse. Slater chiese nuovamente di uscire e cercò di lasciare il laboratorio: i ricercatori dovettero persuaderlo a restare e a farsi somministrare un sedativo.

Carhart-Harris descrive l’episodio – uno di pochissimi eventi avversi osservati nella ricerca condotta all’Imperial – come «un’esperienza istruttiva» e, a detta di tutti, da allora ha dimostrato di essere, oltre che uno scienziato originale, anche un clinico compassionevole ed efficace: di sicuro una rara combinazione. Come vedremo nel prossimo capitolo, la risposta di moltissimi pazienti partecipanti alla sperimentazione sulla depressione è stata nettamente positiva, almeno nel breve periodo. Mentre eravamo a cena in un ristorante di West London, Robin mi parlò di una donna gravemente depressa, partecipante alla sperimentazione; nel corso di diversi incontri non l’aveva mai vista sorridere. Mentre era accanto a lei, durante il suo viaggio con la psilocibina, «lo fece per la primissima volta».

«“È bello sorridere” disse.

«Terminata la seduta, mi raccontò di essere stata visitata da un angelo custode. Mi descrisse una presenza di qualche tipo, una voce estremamente incoraggiante, desiderosa che lei stesse bene. Diceva cose come “Cara, devi sorridere di più, tenere la testa alta, smettere di guardare il pavimento. Poi si protese verso di me e mi spinse in alto le guance” disse la donna “sollevandomi gli angoli della bocca”.

«Doveva essere quello che stava accadendo nella sua mente quando la vidi sorridere» mi disse Robin, lui stesso con un largo sorriso, anche se un po’ imbarazzato. In seguito a quella esperienza il punteggio della depressione della donna scese da trentasei a quattro.

«Devo dire che fu una sensazione bellissima».

La competizione fra gli uomini (K. Lorenz)

Da Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, di Konrad Lorenz

La vita organica si è posta, come una strana diga, nel mezzo della corrente dissipatrice dell’energia universale: essa “divora” entropia negativa e cresce attirando a sé energia; man mano che cresce essa acquista la possibilità di accaparrarsi sempre più energia con un ritmo la cui velocità è direttamente proporzionale alla quantità assorbita. Se tali fenomeni non hanno ancora condotto al soffocamento e alla catastrofe, ciò è dovuto anzitutto al fatto che le forze impietose del mondo inorganico, le leggi della probabilità, mantengono entro certi limiti l’incremento degli esseri viventi; ma in secondo luogo anche al formarsi, nell’ambito delle diverse specie, di circuiti regolatori.

[…]

Nel primo capitolo ho spiegato come e perché, nei sistemi viventi, la funzione dei circuiti regolatori, anzi, di quelli a retroazione negativa, sia indispensabile ai fini del mantenimento di uno stato costante; e inoltre come e perché la retroazione positiva, in un circuito, comporti sempre il pericolo di un aumento “a valanga” di un singolo effetto. Un caso specifico di retroazione positiva si verifica quando individui della stessa specie entrano in una competizione che, attraverso la selezione, ne influenza l’evoluzione. Al contrario della selezione causata da fattori ambientali estranei alla specie, la selezione intraspecifica modifica il patrimonio genetico della specie considerata attraverso alterazioni che non solo non favoriscono le prospettive di sopravvivenza della specie, ma, nella maggior parte dei casi, le ostacolano.

[…]

Il mio maestro Oskar Heinroth diceva, nel suo solito modo drastico: «Dopo lo sbatter d’ali del fagiano argo, il ritmo di lavoro dell’umanità moderna costituisce il più stupido prodotto della selezione intraspecifica». Al tempo in cui fu pronunciata, questa affermazione era decisamente profetica, ma oggi è una chiara esagerazione per difetto, un classico understatement. Per l’argo, come per molti altri animali con sviluppo analogo, le influenze ambientali impediscono che la specie proceda, per effetto della selezione intraspecifica, su strade evolutive mostruose e infine verso la catastrofe. Ma nessuna forza esercita un salutare effetto regolatore di questo tipo sullo sviluppo culturale dell’umanità; per sua sventura essa ha imparato a dominare tutte le potenze dell’ambiente estranee alla sua specie, e tuttavia sa così poco di sé stessa da trovarsi inerme in balìa delle conseguenze diaboliche della selezione intraspecifica.

[…]

La competizione fra uomo e uomo agisce, come nessun fattore biologico ha mai agito, in senso direttamente opposto a quella «potenza eternamente attiva, beneficamente creatrice».

Altre citazioni da “Il manicomio chimico”

Ho finito di leggere Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano. Metto qui alcuni dei passaggi che mi hanno colpito di più o che ho trovato più importanti.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!


Gino Fornace, altro uditore di voci, che doveva essere presente ma non ha potuto venire, e però lo stesso vuole raccontare la sua storia. Descrive, per mezzo della voce di questa ragazza, la sua esperienza con i farmaci antipsicotici. Dice: «All’inizio sedano soltanto. Poi rallentano la velocità dei pensieri, poi rendono incapaci di analizzarli, infine scompaiono le voci. E scompare l’idea (delirante) che tutto intorno sia riferito a me stesso. Questo accade nel corso di alcuni mesi. Ed è il periodo più duro. Quel che resta è un senso di vuoto e di fallimento. In un anno o due torno normale. L’effetto antipsicotico inizia dopo due o tre mesi, ma torno a ragionare come prima dopo un anno o due. Però, aggiunge, li ho sospesi tre volte in dieci anni, gli antipsicotici. Per motivi fisici: è come avere la sabbia nel cervello che t’inceppa i ragionamenti. Prima, nella fase psicotica, penso troppo e male, dopo però non riesco proprio a pensare. Sento sempre il bisogno di dormire. Sento che il mio corpo è diventato inabitabile. Sono costretto a muovermi di continuo (è l’acatisia). Gli antipsicotici ti fanno venire tanta fame, e ti fanno ingrassare, la libido sparisce, la vita sessuale diventa un ricordo. Il corpo e la mente, che con la psicosi sente di avere un motivo per esistere, con i farmaci non prova più niente. E li ho sospesi per ragioni psicologiche: la mia follia è un tentativo di andarmene dalla realtà. Ero diventato uno scienziato da premio Nobel, ero conosciuto in tutta la galassia, avrei costruito una nave spaziale capace di portare gli anarchici in tutto l’universo (tipo Miracolo a Milano di De Sica). Ho sospeso i farmaci perché avevo voglia di tornare nella follia».

«Però, voglio dirlo chiaro: sospendere bruscamente gli antipsicotici è pericoloso. Perché compaiono sintomi peggiori. Passa l’acatisia. Ma tornano, tutte insieme, le emozioni. E torna la libido. Ma le emozioni sono eccessive. E il pensiero si accelera troppo. Ricominciano le credenze bizzarre. Si riduce sempre di più la capacità di critica. Parte il delirio, che è la continuazione del sogno a occhi aperti. In tre-quattro mesi, quando anche i farmaci depositati nel corpo (nei tessuti lipidici) sono stati smaltiti, tornano pure le allucinazioni. In un anno il contatto con la realtà è di nuovo perso, e con esso pure la capacità empatica con gli altri. Ricomincia la collisione con la società, con gli psichiatri, con le forze dell’ordine. Per cui mi sento di dire che gli antipsicotici, o neurolettici, come volete chiamarli, una volta presi vanno sospesi con lentezza, mai bruscamente. Per questo l’OMS consiglia di somministrare gli antipsicotici in dosi basse e solo nelle fasi acute. Invece gli psichiatri italiani (come tutti gli psichiatri occidentali) considerano la follia genetica e i farmaci da somministrare a vita. Io tra la somministrazione per bocca e quella depot preferisco quella per bocca, insieme a un po’ di psicoterapia una o due volte a settimana. Ciò consente bassi dosaggi di antipsicotici. Invece il depot non consente la modulazione della terapia. È comodo solo per la tranquillità del dottore. Inoltre, dopo l’iniezione del depot, si è più sedati, e vicino alla scadenza si è quasi scoperti. Purtroppo, però, gli psichiatri preferiscono il depot mensile senza nessuna psicoterapia. Ciò porta inevitabilmente alla cronicizzazione. Molti psichiatri hanno questo delirio di onnipotenza di voler regolare la biochimica cerebrale. Per cui un paziente si trova a prendere come minimo quattro farmaci al giorno: un antipsicotico, una benzodiazepina, uno stabilizzatore dell’umore e un antiparkinsoniano. (Quando gli va bene, se gli va male a questi si aggiungono un antidepressivo, un secondo antipsicotico, un anti-ipertensivo, un anticolesterolo e un antidiabetico, per contrastare gli effetti collaterali dei primi farmaci). Questo, secondo me, è un delirio della modernità. Io, Gino Fornace, non voglio essere una farmacia ambulante. Perché? Per tutto quello che ho detto e perché i malati psichiatrici vivono venticinque anni di meno rispetto alla popolazione non psichiatrica. E se mi posso permettere, avrei una raccomandazione da fare agli psichiatri: abbandonate la vostra visione organicista, secondo cui il male mentale è genetico e dunque la terapia farmacologica deve essere presa per tutta la vita. Ciò aiuta solo gli psichiatri a dormire sonni tranquilli. Ciò toglie ogni speranza di guarigione. Rinunciate a voler modulare tutte le manifestazioni psichiche dei vostri pazienti con i troppi farmaci. Lo yoga ha effetti benefìci sulla mente umana, ma non fa profitto (come la corsa, il nuoto, la bicicletta, le passeggiate, eccetera). Il delirio è un sogno a occhi aperti. Lo psichiatra è un po’ carceriere e un po’ terapeuta. Però non si può guarire con la forza della coercizione. La contenzione non è terapeutica. La comprensione è terapeutica. La libertà è terapeutica».


Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali, dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.


Un altro fondamentale studio, riportato nel prezioso libro di Whitaker, è quello di Martin Harrow. Harrow reclutò (che brutta parola, mi è sfuggita, purtroppo è l’espressione che si adopera per i pazienti che entrano a far parte di uno studio, in alternativa ne adoperano un’altra, parimenti inquietante: arruolare), tra il 1975 e il 1983, sessantaquattro giovani con diagnosi di schizofrenia. Nel 2007 pubblicò un articolo in cui illustrava gli esiti a quindici anni (così si fanno gli studi, altro che a sei, dodici, diciotto settimane, come fa comodo alle case farmaceutiche). Tralascio gli step a due, quattro, e anni successivi. Dico solo che al quindicesimo anno il 40% dei pazienti non trattati farmacologicamente era guarito e il 50% lavorava, mentre dei pazienti trattati con i farmaci il 5% era guarito e il 64% aveva ancora una sintomatologia psicotica.

Per concludere questa prima parte, Whitaker riassume i dati USA. Nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia, che significa 1 americano ogni 617 abitanti. Nel 2010, invece, esistevano quasi 2.500.000 persone con questa diagnosi. 1 americano ogni 125 abitanti.


I progetti Soteria li ha mai sentiti, dottore? Un progetto in Lapponia occidentale l’ha mai sentito, dottore?

Aspetti, gli dico, Soteria, Mosher, certo che sì, pure Luc Ciompi a Berna ha un progetto Soteria, ma della Lapponia, a dire il vero, non ne so niente.

Anche quello lo trova in internet. Ma glielo riassumo. In Lapponia occidentale ci sono più o meno settantamila abitanti. A partire dagli anni Settanta un gruppo di psichiatri ha iniziato un tipo di trattamento per le persone che hanno un primo episodio di psicosi, un trattamento basato sulla terapia familiare invece che sui farmaci. E con questo nuovo approccio gli esiti dei pazienti psicotici, negli anni Settanta e Ottanta, sono migliorati nettamente.

Dove questo?

A Tornio, si chiama così la città. Ovviamente, solo lì il gruppo di psichiatri ha adottato questo tipo di terapia, nel resto della Finlandia, invece, operano come in tutto il mondo occidentale, farmaci e reparti chiusi.

E in cosa consiste, di preciso, questa terapia familiare?

Tutti gli operatori della Lapponia svolgono una formazione familiare. E quando capita un nuovo episodio di psicosi, entro ventiquattrore dalla chiamata vanno a casa del paziente. Non come qui, che ho dovuto portare mio figlio in pronto soccorso, e stavamo in piedi a parlare in una stanza squallida senza suppellettili. Loro visitano a casa. Parenti e amici sono inclusi, come fossero operatori pure loro.

Lui parla e io penso che questa cosa assomiglia molto alla seduta etnopsichiatrica che fanno al Devereux, un parlamento democratico, altro che il nostro setting terapeutico mutuato dal confessionale cattolico, o dall’interrogatorio poliziesco: giudice-psichiatra contro paziente-inquisito.

Dice: però gli operatori che vanno a casa del paziente non si considerano i padroni, gli sceriffi, come fanno qui da noi, che arrivano con pompieri, carabinieri e forze armate e sfondano la porta e prendono il paziente per i capelli e lo trascinano fuori. Non mi guardi così. Lei lo sa che non sto esagerando. Come vogliamo la collaborazione dei pazienti se l’intervento a domicilio è una specie di dichiarazione di guerra? Lì no, se il paziente in crisi si agita e si chiude dentro una stanza, non lo si aggredisce, gli si chiede solo di lasciare la porta aperta. Perché loro considerano che una crisi non è per forza violenta. E io credo che molte reazioni violente dei pazienti siano una risposta alla dichiarazione di guerra della psichiatria.

Non mi sbilancio ad annuire, ma lui, “Philip Dick”, lo sa che sono d’accordo.

Dice: nei primi incontri non prescrivono subito i farmaci, come hanno insegnato a voialtri, solo, talvolta, un sonnifero, un po’ di antipsicotico, che sospendono dopo pochi mesi, appena passata la crisi, altro che antipsicotici a vita, come fate voi! E con questo modello d’intervento hanno tassi di guarigione altissimi, quasi il 90%. E i costi sono notevolmente diminuiti. Mi creda, in questa regione, dove c’è un bassissimo uso di antipsicotici, i casi di psicosi si stanno riducendo drasticamente.


L’antidepressivo se lo sta prendendo chi è seduto accanto a te ora in treno e non ce la fa più a svegliarsi tutte le mattine per andare a lavorare in una stireria per dieci ore al giorno a quattro euro l’ora, e quella volta che ebbe uno svenimento mentre stirava e andò in pronto soccorso, il medico di guardia che sembrava uno psichiatra gliela prescrisse, perché mica poteva permettersi di fare una psicoterapia una volta a settimana per minimo ottanta euro a seduta lei che ne guadagna quaranta al giorno, e sono tre anni che se la prende, questa dannata pasticca antidepressiva, e pare che le fa bene, l’energia per stirare ora ce l’ha, anche se ogni tanto la tristezza ritorna, perché stirare dieci ore al giorno senza svago la rende una donna davvero inutile. La stessa pillola la ingoia giorno dopo giorno l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa, perché deve fare gli straordinari senza sentire i crampi alla cervicale o i dolori muscolari alle gambe, che dicono si chiami fibromialgia, ed è una forma di depressione mascherata, così dicono, e perciò si cura con gli antidepressivi, e prende proprio la stessa pasticca della stiratrice che trasporta tutti i giorni, però lui se ne prende due al giorno, andata e ritorno. Fa uso di antidepressivi, ansiolitici, antipsicotici o stabilizzatori dell’umore chi ti è più vicino, credimi. Se non è tuo padre (benzodiazepina per dormire la sera), o tua madre (benzodiazepina per il giorno a causa dell’ansia generalizzata), se non è tuo fratello (iniziò con la cocaina, diventò euforico, gli diedero uno stabilizzatore dell’umore, ma non bastò e si depresse, allora gli aggiunsero un antidepressivo, ma con quello si eccitò di nuovo manco fosse cocaina, e diventò megalomane e coi pensieri psicotici grandiosi e allora gli diedero un antipsicotico, ma con quello ingrassò e diventò diabetico e cardiopatico, e ora prende l’antidiabetico e l’anti-ipertensivo), allora è tuo figlio, che a scuola era un casinaro, allora la maestra vi consigliò la neuropsichiatra infantile, una sua carissima amica, e quella disse che la colpa non era né dei maestri né dei genitori, ma di una malattia che si chiamava ADHD, e che bastava prendere un’anfetamina che si calmava. Se non è tuo figlio (che non riconosci più, pare un morto di sonno, adesso), è il tuo capoufficio (un iracondo, troppa cocaina, ma pure antidepressivi e stabilizzatori del tono dell’umore, che non gli si stabilizza perché lui continua a farsi la cocaina), o la sua segretaria, che prende benzodiazepine però solo di sabato sera per spegnersi e dormire, dopo che è tornata a casa e ha tirato un po’ di coca con gli amici per divertirsi. Se non è il tuo capo, è sua moglie, che si prende le benzodiazepine e gli antidepressivi per sopportare il suo destino di donna tradita. Se non è sua moglie, è la sua amante, a cui lui regala la cocaina al posto degli orecchini, ma lei preferirebbe gli orecchini, e perciò si prende gli antidepressivi, perché ha un amico psichiatra che le ha detto che gli antidepressivi possono farle smettere la cocaina. Se non sono loro, è il camionista, che fa arrivare tonnellate di caffè nei bar della tua città e non riuscirebbe a reggere tutte quelle ore di autostrada senza coca e quando arriva a casa e deve dormire non riesce a spegnersi per quanta coca e caffè s’è fatto, allora si scola una boccetta intera di Valium. Se non è lui, è l’infermiera che ora sta cambiando il catetere di tuo nonno (nonno che prende l’antipsicotico per farlo stare buono e tranquillo nella sua agitata demenza), e l’antidepressivo le fa sembrare questo lavoro più leggero, persino le notti. Se non è lei, è rimbianchino che sta ritinteggiando la stanza della tua ragazza (che prendeva uno stabilizzatore dell’umore perché è troppo impulsiva, e a volte si taglia, altre volte si lascia andare a rapporti occasionali, però ora prende pure l’antidepressivo perché ogni tanto si abbuffa e poi vomita, e allora con questo farmaco sente meno i morsi della fame), che ha iniziato perché sentiva le voci, e al Centro di Salute Mentale gli hanno dato un neurolettico di vecchia generazione, ma siccome si irrigidiva e non riusciva a pittare sciolto, gliel’hanno levato e gli hanno dato un nuovo antipsicotico atipico, che lo rende più tranquillo, però ogni tanto le voci le sente ancora, e infatti se ci fai caso, mentre pitta la stanza della tua ragazza, ogni tanto si ferma e ascolta. Chi usa i cosiddetti psicofarmaci è lì con te.

Altro che cocaina, il vero affare sono gli psicofarmaci.

Il manicomio chimico

Sto leggendo questo libro, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano, psichiatra da vent’anni, che fa una critica documentatissima e allarmante dell’approccio psichiatrico attuale di gran lunga più diffuso in occidente; voglio condividerne alcune citazioni.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) [come la sertralina che prendo io, tra gli altri farmaci], un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici [io prendo l’aripiprazolo] Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!

Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali [quelli che servono per pensare], dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.

E va be’ ma insomma cosa propone in alternativa Cipriano?

Io, che ho cominciato da psicofarmacologo, mi trovo a scrivere questo piccolo, miserrimo compendio, in cui dico, in sintesi, usiamoli, gli psicofarmaci, non dico di no, ma con parsimonia, e solo nelle condizioni gravi, e sospendiamoli appena è possibile»

È quello che fanno in Finlandia, solo che lì tutto l’approccio al malessere psichico è tanto più serio: all’oculatezza nell’uso dei farmaci si accompagna un modello di intervento che ospedalizza il meno possibile, che coinvolge la rete sociale di chi sta peggio e affronta e cerca di fare emergere il non detto emotivo nelle relazioni, e – numeri alla mano – guarisce o migliora le condizioni di salute tanto, tantissimo di più dell’approccio “nostro” (vedi questo articolo per esempio).

Da «LSD. Il mio bambino difficile», di Albert Hofmann

L’impiego dell’LSD in Psicoterapia si basa principalmente sui seguenti effetti psichici: nell’alterazione da LSD la normale visione del mondo subisce una trasformazione e una disintegrazione profonde. Legato a questo è il fenomeno dell’attenuazione o anche della sospensione della barriera tra l’io e la realtà esterna. Quei pazienti che sono intrappolati all’interno di un circolo vizioso di natura egocentrica, possono perciò essere aiutati a superare le loro fissazioni e il loro isolamento. Come risultato si può osservare un miglioramento nel rapporto con il medico ed una maggiore sensibilità all’azione terapeutica. Lo stato di accresciuta influenzabilità sotto effetto di LSD contribuisce a raggiungere lo stesso scopo.

Un’altra caratteristica significativa e di grande valore psicoterapeutico dell’alterazione mentale provocata da LSD è la possibilità che contenuti d’esperienza rimossi e da lungo tempo dimenticati tornino di nuovo alla coscienza. Qualora la psicoanalisi cercasse di rintracciare eventi traumatici nella vita del paziente, questi potrebbero diventare accessibili al trattamento terapeutico. Numerosi casi individuali esaminati in contesto analitico sotto l’azione di LSD riferiscono di esperienze infantili rievocate con estrema chiarezza. Non si tratta qui del normale ricordo di, ma del rivivere un’esperienza passata; non una réminiscenze, bensì una réviviscence, come l’ha definita lo psichiatra francese Jean Delay.

L’LSD non agisce come farmaco in senso stretto; piuttosto svolge una funzione coadiuvante nel contesto della cura psicoanalitica e psicoterapeutica, offrendole una maggiore incisività e riducendone la durata. Questo può avvenire in due modi.

Nella prima procedura, nata e sviluppatasi nelle cliniche europee e conosciuta come terapia psicolitica, dosi medie di LSD sono somministrate in diverse sedute a intervalli regolari. Infine queste esperienze vengono discusse in gruppo e i pazienti sono poi invitati a darne espressione artistica attraverso il disegno e la pittura. Il termine “terapia psicolitica” fu stabilito da Ronald A. Sandison, medico inglese di scuola junghiana e pioniere della ricerca clinica con l’LSD. La radice ‘lysis’ significa scioglimento; in questo caso, scioglimento della tensione e dei conflitti nella psiche.

Nella seconda procedura, privilegiata negli Stati Uniti, una singola dose molto alta di LSD viene somministrata al paziente dopo intensa e profonda preparazione psicologica. Con questo metodo, conosciuto come terapia psichedelica, si cerca di provocare un’esperienza mistico-religiosa che una simile dose di LSD può comportare. Essa servirà poi, nel corso del successivo trattamento terapeutico, come punto di partenza per la cura e la ridefinizione della personalità del paziente. La parola psichedelico, che traduciamo ‘che manifesta l’anima’ oppure ‘che espande l’anima’, fu introdotta da Humphry Osmond, uno dei primi negli Stati Uniti a impiegare l’LSD nella ricerca psichiatrica.

I benefici che questo farmaco apporta in psicoanalisi e in psicoterapia derivano da proprietà che sono diametralmente opposte a quelle dei cosiddetti psicofarmaci ansiolitici. Mentre gli ansiolitici tendono a coprire i problemi e i conflitti del paziente, riducendone la gravità e l’importanza, l’LSD, al contrario, li fa vivere in maniera più intensa. È proprio questo aspetto di chiarificazione e di discernimento a renderli più facilmente soggetti all’intervento terapeutico.

I successi e l’opportunità della terapia psicoanalitica con impiego di LSD sono tuttora argomento di controversia all’interno della comunità scientifica. La stessa cosa potrebbe dirsi però delle altre procedure impiegate in psichiatria, quali l’elettroshock, la terapia insulinica o la psicochirurgia; questi metodi comportano un rischio maggiore rispetto all’uso di LSD, che date opportune condizioni è praticamente privo di pericoli.

Poiché esperienze rimosse o dimenticate possono riemergere con rapidità considerevole sotto l’effetto della sostanza, la durata del trattamento analitico può essere relativamente ridotta. Tuttavia, per alcuni psichiatri questo rappresenta uno svantaggio. Secondo loro non verrebbe dato al paziente il tempo necessario per sviluppare un lavoro terapeutico completo. L’effetto terapeutico, è loro opinione, ha minore durata rispetto a quando si è in presenza di un graduale lavoro analitico, che preveda un lento processo di consapevolezza delle esperienze traumatiche. Le sedute psicolitiche e in special modo psichedeliche richiedono una preparazione completa del paziente, per evitare lo sgomento che la vista di una realtà non familiare e sconosciuta può provocare. Solo allora questa esperienza può risultare positiva. Un altro aspetto importante è la selezione dei pazienti, poiché non tutti i tipi di disturbi psichici rispondono altrettanto bene a questi metodi di cura. L’impiego fruttuoso dell’LSD in psicoanalisi e in psicoterapia presuppone una conoscenza e un’esperienza specifiche.

Per questo motivo può risultare molto utile un’autosperimentazione da parte dello psichiatra, come già aveva indicato W.A. Stoll nella sua ricerca. Essa procura al medico una conoscenza diretta, un’esperienza non mediata della dimensione insolita dischiusa dall’LSD, offrendogli la possibilità di capire veramente questo fenomeno quando si manifesta nella psiche del paziente, di interpretarlo correttamente e di riceverne tutti i vantaggi.


Significativo quanto l’ambiente esterno, se non addirittura più importante, è lo stato psichico degli sperimentatori, la loro disposizione mentale nei confronti dell’esperienza e le aspettative rivolte a questa. Possono influire anche le impercettibili e inconsapevoli sensazioni di felicità o di paura. L’LSD tende a intensificare la reale condizione psicologica. Un sentimento di gioia può sfociare nella beatitudine, la depressione può precipitare nella disperazione. L’LSD è perciò lo strumento meno adatto in assoluto per lenire uno stato depressivo. È pericoloso somministrarlo in presenza di una situazione mentale disturbata e nei casi in cui uno stato d’infelicità o di paura sia predominante, perché la probabilità che il viaggio possa concludersi con un crollo psichico è abbastanza alta.

Individui con personalità labili, tendenti a reazioni incontrollate, dovrebbero assolutamente evitare la sperimentazione con questa sostanza, perché lo shock da LSD, portando a manifestazione una psicosi latente, può arrecare un danno psicologico duraturo.

Instabile, nel senso di una maturazione non ancora compiuta, è da ritenere anche la psiche di individui molto giovani. Lo shock che deriva dall’imponente afflusso di nuove e insolite sensazioni mette in pericolo inevitabilmente il delicato organismo psichico ancora in fase di formazione. Negli stessi ambienti medici l’uso dell’LSD a scopi psicoanalitici o psicoterapeutici con giovani che non abbiano compiuto i 18 anni viene, giustamente secondo la mia opinione, sconsigliato. Gli adolescenti più di tutto mancano di un sicuro e solido rapporto con la realtà, che è necessario perché la sconvolgente esperienza di nuove dimensioni della realtà possa essere integrata in maniera significativa entro la propria visione del mondo. Anziché accrescere e approfondire la consapevolezza della realtà, un’esperienza di tale natura può provocare negli adolescenti insicurezza e senso di smarrimento. Per la stessa vivacità delle percezioni sensoriali e la tuttora illimitata apertura alla vita i giovani vivono esperienze visionarie spontanee assai più frequentemente che nei più tardi periodi dell’esistenza. Questo è un motivo ulteriore per cui dovrebbero evitare l’assunzione di agenti psicostimolanti.

È possibile tuttavia che anche una persona adulta e in buona salute possa fallire un esperimento con l’LSD e soffrire di una crisi psicotica, nonostante vi sia stata una completa osservanza delle misure preparatorie e protettive di cui accennavo. L’assistenza di un medico, che includa un esame preliminare dello stato di salute, è pertanto vivamente consigliabile, anche nei casi in cui l’LSD non venga impiegato a scopi terapeutici. Benché non sia necessaria la sua presenza alla seduta, nondimeno dovrebbe essere sempre disponibile l’intervento di un professionista.

Insorgenze psicotiche gravi sono eliminate e tenute rapidamente sotto controllo mediante un’iniezione di clorpromazina o altro sedativo analogo.

La presenza di una persona amica, che possa richiedere l’aiuto di un medico in casi di emergenza, rappresenta un’altra indispensabile rassicurazione psicologica. Sebbene le alterazioni causate dall’LSD provochino un’immersione nel mondo interiore dell’individuo, nondimeno si affaccia talvolta il bisogno intenso di contatti umani, specialmente nelle fasi depressive.


Gottfried Benn, nel saggio Provoziertes Leben (“Vita provocata”) (apparso in: Ausdruckswelt, Limes Verlag, Wiesbaden, 1949), definisce la realtà in cui l’io e il mondo stanno l’uno di fronte all’altro come “la catastrofe schizoide, il destino nevrotico dell’occidente”. Così scrive:

L’attuale concetto di realtà ebbe origine nel sud del nostro continente. Determinante per la sua formazione fu il principio ellenistico-europeo dell’agóne e della vittoria conseguita attraverso la prestazione, l’astuzia, la perfidia, il talento e la forza, espresso all’inizio nella forma greca dell’aretè, e successivamente in quella europea del darwinismo e del superuomo. L’io venne allo scoperto, calpestò la terra, condusse battaglie e per far questo ebbe bisogno di strumenti, di materiali, di potere. Si pose di fronte alla materia come altro da essa; se ne distaccò con i sensi, ma ci stabilì un rapporto formale più stretto. La scompose, la esaminò e la classificò: armi, oggetti di scambio, denaro per riscattare. La spiegò mediante isolamento, la ridusse a formule, ne strappò dei frammenti, la suddivise. (La materia divenne) un concetto appeso come sciagura sopra l’Occidente, contro cui esso lottò, senza afferrarlo, a cui sacrificò un’ecatombe di sangue e di felicità, e le cui tensioni e fratture era ormai impossibile risolvere attraverso lo sguardo naturale e la conoscenza metodica dell’essenziale, quieta unità delle forme prelogiche dell’essere… invero, il carattere catastrofico di questo concetto venne alla luce in maniera sempre più evidente… uno stato, un’organizzazione sociale, una morale pubblica, per i quali la vita altro non è che esistenza sfruttabile economicamente, e che non accettano il mondo della vita provocata, non possono arrestare la sua distruttività. Una comunità, la cui igiene e tutela razziale, quali moderni rituali, si basano su vuote conoscenze biologico-statistiche, può solo difendere il punto di vista superficiale delle masse, nella cui osservanza conduce incessantemente le guerre, perché la realtà è per essa materia prima, rimanendole nascosto il suo presupposto metafisico.

Come sostiene Gottfried Benn in questo brano, il concetto di realtà che mantiene separati l’io e il mondo ha senza dubbio stabilito il corso evolutivo della storia intellettuale europea. Il mondo vissuto come materia inanimata e oggetto, a cui l’uomo sta di fronte in opposizione, ha prodotto la scienza moderna e la tecnica. E grazie al loro intervento, gli uomini hanno sottomesso la terra e hanno abusato del suo patrimonio; le imponenti realizzazioni della civiltà tecnologica si trovano faccia a faccia con il disastro ecologico. Questo intelletto che tutto oggettivizza è penetrato anche nel cuore della materia, il nucleo dell’atomo, e lo ha spaccato, liberando energie che minacciano le forme vitali del nostro pianeta.

Se l’uomo non si fosse separato dal mondo, ma avesse vissuto in armonia con la natura vivente e la creazione, mai sarebbe stato possibile un impiego sbagliato della conoscenza e dell’intelletto. Tutti gli attuali tentativi di provvedere ai danni causati attraverso misure di protezione ambientale risulteranno solamente rattoppi superficiali e senza speranza, se a essi non seguirà la cura di quello che Benn ha chiamato “il destino nevrotico dell’Occidente”. Guarire significa poter esperire la realtà profonda delle cose che tutto abbraccia, compreso il soggetto che vi partecipa.

Questo tipo di esperienza viene sempre più ostacolato in ambienti che mani umane hanno reso inanimato, nelle metropoli e nei paesaggi industriali delle nostre società. È qui che soprattutto si palesa il contrasto fra l’individuo e il mondo esterno. Sensazioni di alienazione, di solitudine, di minaccia si presentano incessantemente e dominano la coscienza quotidiana degli individui delle società industriali; esse prendono inoltre il sopravvento ovunque si estenda la civiltà della tecnica, e in larga misura influiscono sulla produzione dell’arte moderna e della letteratura.

Nell’ambiente naturale il pericolo di vivere una realtà frantumata è minore. Nei prati, nelle foreste e nel regno animale che vi si rifugia, ma anche in ogni giardino, si avverte una realtà infinitamente più vera e antica, più profonda e stupefacente di qualsiasi cosa gli uomini abbiano costruito, e che sarà sempre presente quando il mondo esanime delle macchine e del cemento si dileguerà di nuovo, si coprirà di ruggine e cadrà in rovina. Nella germinazione, nella crescita, nella fioritura, nella fruttificazione, nella morte e di nuovo nella comparsa dei primi germogli delle piante, nel loro rapporto con il sole, la cui luce esse trasformano in energia chimica sotto forma di composti organici, dai quali tutte le forme viventi del nostro pianeta provengono – nell’essenza propria delle piante, si manifesta la stessa misteriosa, inesauribile ed eterna energia vitale che ci ha generato e ci condurrà di nuovo nel suo ventre, dove saremo al sicuro e uniti con tutto il creato.

Non stiamo qui parlando di sentimentali utopie naturiste, di un “ritorno alla natura” in senso rousseauiano. Quel movimento romantico, che ricercava l’idìllio nel mondo naturale, rappresenta senz’altro il sentimento di un’umanità che ha visto scissi i propri legami con la natura. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è vivere di nuovo l’unione fondamentale con tutte le forme viventi, ed essere consapevoli della dimensione onnicomprensiva della realtà. Più sporadico risulterà lo sviluppo spontaneo di questa consapevolezza, più la flora e la fauna primigenie del pianeta dovranno sottomettersi a un ambiente tecnologico inanimato.

Da «Negoziare con il male», di Piero Coppo

4.2. Può un gesuita essere stregone?

Nel 1957 Eric de Rosny, gesuita, è inviato in Camerun, a Duala, per insegnare francese e inglese al Collegio cattolico Libermann. Il contatto con i suoi allievi, giovani liceali camerunesi, lo convince ben presto che, senza una conoscenza delle basi della loro cultura, gli sarebbe stato impossibile svolgere bene il suo mestiere. In particolare, un episodio lo obbliga a interrogarsi sulla cultura d’origine di quei giovani. Una notte, nel dormitorio, un giovane allievo è preso da convulsioni, con spasmi violenti e incontrollabili frammisti a grida: «Acqua, acqua!» Finalmente gli spruzzano addosso dell’acqua, che lo calma. Gli altri allievi spiegano che non è una crisi normale, ma una possessione da parte di jengu, lo spirito dell’acqua, che non vuole che il giovane resti al Collegio. Nonostante tutti gli sforzi del gesuita, da quel giorno il giovane non riesce più a seguire le lezioni, e resta per ore seduto al banco, prostrato e assente. Fino a che, per allontanarlo dalle «cattive influenze», la famiglia lo ritira dal Collegio e lo invia in una cittadina del Nord. Rosny non ne avrà più notizie; ma aver condiviso con i suoi compagni il dramma di quella notte apre all’insegnante una via di comunicazione con gli allievi su differenti aspetti della loro cultura di origine, e non solo sulla cultura che Rosny rappresenta e alla quale, attraverso gli studi, i giovani avrebbero dovuto accedere. Iniziano così loro a parlare, e Rosny a chiedere, di stregoneria, antenati, spiriti e geni. L’interesse del gesuita per quel mondo che inizia a svelarsi, per quella cultura1, lo costringe a interrogarsi perché mai, mentre

i giovani africani sono attirati in un universo nuovo, quello dei Lumi, della scienza e di un modo di vita planetario … io invece sono trascinato nel mondo della notte, dei simboli e dei riti iniziatici? Perché sono attirato dalle manifestazioni di una cultura evidentemente fin d’ora condannata. Domanda irritante, che respingo come una tentazione, ma alla quale dovrò pure, un giorno, rispondere (Rosny 1981, p. 23).

Nel suo alloggio a Duala, il gesuita sente tutti i sabati, di notte, un tamburo suonare in una casa vicina, con ritmi a volte lenti a volte precipitosi. L’emozione che gli suscita gli ricorda quella provata, da bambino, quando la sera, nella campagna francese, andava a ritirare le lenze da fondo nei fossati.

Sotto la superficie di quell’acqua calma e scura, che per me ricopriva un abisso, immaginavo tutta l’intensità della vita di un ambiente misterioso. Mi sottoponevo alla più totale solitudine e al più grande silenzio interno per avvicinarmi alla riva, sulla punta dei piedi, lì dove la lenza si immergeva. Se faceva dei bruschi zig-zag, ero come paralizzato insieme dalla paura e dalla gioia. Gli altri tipi di pesca, con la mosca o col galleggiante, non mi soggiogavano nello stesso modo. Solo questa lenza da fondo, questo tamburo nella notte… Dei richiami… Degli avvertimenti venuti da quali profondità? (ibid., p. 47)

Da qualunque parte venisse, il richiamo aveva funzionato. Il sacerdote chiede di essere ammesso alle cerimonie che, la notte di ogni sabato, si svolgono nella casa di Din, un guaritore esperto in pratiche di controstregoneria. Din è un mota bwanga, un conoscitore e possessore di rimedi carichi di una potenza che supera i semplici farmaci; ma anche un nganga, un terapeuta tradizionale conoscitore dei comuni rimedi. I mota bwanga sono nemici degli stregoni: sia dei bato ba lemba (quelli che si procurano, spesso comprandoli, oggetti malefici e possono divenire invisibili), sia dei bato b’ewusu, quelli che hanno ricevuto per eredità il bisogno, per aumentare la propria forza, di divorare altri umani (detti anche stregoni dell’acqua, o del caimano: quelli che uccidono e divorano). Infine, i bato b’ekong portano via la componente invisibile, il doppio di altri umani, fino a farli morire, perché lavorino nelle loro piantagioni invisibili, e accumulare così ricchezze che non hanno, nel mondo ordinario, giustificazioni. I comuni mortali vedono le vittime ammalarsi, deperire e morire mentre vicino a loro altri prosperano e si arricchiscono senza ragione; gli iniziati invece vedono, come in pieno giorno, il traffico di uomini che c’è sotto. Ekong era, una volta, il nome di una associazione che riuniva commercianti, notabili e capi: era un gruppo di potere, certo, ma non aveva il carattere malefico, nascosto e odioso che ha invece oggi, dovuto forse, secondo l’autore, all’apparizione in quel contesto della carta moneta e del lavoro salariato.

Rosny comincia così a partecipare alle cerimonie nel corso delle quali Din si immerge in un’altra dimensione, lo ndimsi, non percepibile dai comuni mortali, dove stanno le intenzioni segrete e i disegni nascosti, e che bisogna frequentare per poter agire sulla salute, la malattia, la fortuna e la sfortuna dei singoli. È proprio in questa dimensione che gli stregoni catturano la forza della vita, il doppio degli altri, per sottometterli ai loro propri interessi; è quindi in questa dimensione che il controstregone, vero e proprio guerriero dell’invisibile, deve immergersi per combatterli. L’esecutore delle intenzioni degli stregoni è il nyungu («arcobaleno» in lingua duala), il serpente malefico che solo chi è dotato della doppia vista può vedere in azione anche nella vita ordinaria: si nasconde nelle case, gira in cerca delle sue vittime per mangiarne il cuore. Poiché è invisibile agli occhi ordinari, la sua presenza è svelata dai rumori strani che abitano la notte, o dall’improvviso schiamazzare dei polli e latrare dei cani. La mattina, se ne possono osservare le tracce sulla sabbia.

Vestito di rosso, una sciarpa alla vita, Din alterna nelle cerimonie notturne esibizioni davanti al pubblico (danze, canzoni, fachirismi), interventi diagnostici (sulla natura del problema, sulla sua causa soprannaturale), prescrizioni terapeutiche (sacrifici da fare, azioni da intraprendere) e lunghi periodi in cui, sdraiato e immobile dentro la stanza che racchiude i suoi oggetti di potere, lascia il corpo per accedere allo ndimsi, condurre le sue battaglie, prendere le necessarie informazioni.

A tutto questo il gesuita partecipa e tutto descrive, mano a mano che ha accesso a quella visione del mondo e a quel sistema originale e complesso di gestione del male, della sfortuna, delle disgrazie. Lì, il guaritore e soprattutto il controstregone svolgono un ruolo fondamentale, riordinando il disordine, regolando conflitti, aggressioni, risentimenti. Strada facendo, però, Rosny incontra problemi che non aveva previsto e registra anche in se stesso dei cambiamenti.

Intanto, coinvolto in alcuni processi di guarigione gestiti da Din, si trova costretto a prendere partito; e comunque viene percepito dall’ambiente come un suo alleato, vista l’assiduità della presenza al suo fianco. E forse, non solo un alleato, ma addirittura un allievo. E che allievo! Un bianco, un sacerdote, un insegnante al prestigioso Collegio Liberman, dove si formano al mondo dei bianchi (e, spesso, a lasciare quello degli antenati) i figli delle nuove élite camerunesi. Così, in un paio di occasioni, il ricercatore si trova in pericolo, circondato da una piccola folla minacciosa che lo teme come stregone, o esposto al sospetto di far parte di una confraternita dalle ambigue intenzioni, quando, con altri, si reca lontano, nella boscaglia, alla ricerca delle piante necessarie. Sperimenta così, sulla propria pelle, quanto sia difficile mantenersi sul filo di rasoio che separa guaritori e stregoni; equilibrio che solo una scelta esplicita di campo, mai però definitiva per gli altri, può consentire: esporsi, operando pubblicamente, appunto, come controstregone.

Poi, la relazione col suo maestro conosce dei momenti di crisi. Din, quando andava nella casa del gesuita, beveva l’acqua che gli veniva offerta solo dopo averci messo un piccolo oggetto, un oggetto di protezione, che poi riprendeva dal bicchiere vuoto. A volte, il maestro esprimeva il dubbio che l’allievo volesse carpire i suoi segreti per poi eliminarlo, e prenderne il posto. Dal canto suo, un mattino, il gesuita, alzandosi dal letto, era stato preso da vertigine, al punto da non riuscire ad attraversare la strada. D’improvviso, un pensiero inaspettato lo aveva attraversato: Din gli aveva forse somministrato un veleno? Il crescere di questa reciproca diffidenza andava di pari passo con la trasmissione sempre più approfondita da Din al gesuita del saper-fare del guaritore. Anzi: più il gesuita veniva accompagnato dentro quel sistema, più aumentavano gli equivoci, le diffidenze, le prese di distanza. C’era ovviamente una sola via per continuare quel lavoro, la via che Din aveva infatti un giorno proposto al sacerdote, in seguito alla sua ennesima richiesta di spiegazioni: se vuoi continuare a vedere quello che faccio, non ho niente da dirti, continua a guardare ed è tutto; ma se vuoi veramente vedere, allora dobbiamo fare una «convenzione». Davanti a questo ulteriore, impegnativo passo, il gesuita prende tempo per riflettere. Nel corso di un soggiorno a Parigi, chiede consiglio ad altri della sua confraternita e si espone ad alcune sedute di psicoanalisi di gruppo, che descrive nel suo libro. Le dinamiche che vive in quel contesto lo costringono a una implicazione personale, emotiva, diretta. Si rende conto, allora, che fino a quel punto aveva preso, a scuola dal controstregone, la posizione dello studente muto e riservato, seduto in un angolo, a distanza dal tavolo dove si giocava l’azione; e capisce che ci sono solo due modi per cambiare posizione: o mettersi dalla parte delle vittime, dei perseguitati, degli stregati e quindi subire un trattamento; o «farsi aprire gli occhi» per essere davvero, da allora in poi, insieme ai maestri della notte.

Nella cultura duala, infatti, gli umani dispongono di quattro occhi. Chiudono quelli visibili nel momento della morte, per aprire gli altri sul regno degli antenati. Ma alcuni nascono con i quattro occhi aperti. Ci si rende conto di questa anomalia quando, per esempio, un bambino vede passare furtivamente l’ombra di qualcuno che muore poco tempo dopo. Allora i familiari si affrettano a farglieli chiudere, a «trapassare» i due occhi aperti sull’invisibile con un idoneo trattamento, perché un bambino non ha la forza per sopportare simili rivelazioni. Quelli che sanno chiudere gli occhi sanno però anche come aprirli. Gli umani che così sommano le due visioni, quella dei vivi e quella dei morti, fanno da intermediari tra il mondo visibile e quello invisibile. Vedono le cose nascoste e quindi sono incaricati dal gruppo di intervenire per contrastare l’attività degli stregoni. È tra loro che si scelgono e si formano i controstregoni (cfr. Rosny 1981, pp. 313-14).

Il gesuita alla fine decide, e chiede a Din di aprirgli gli occhi; vuole passare la soglia. Si tratta quindi di chiarire le condizioni: stipulare la «convenzione». Il controstregone si rivolge così ai suoi altari, in presenza dell’allievo:

Gli chiederò cosa mi darà in cambio del mio insegnamento, quale grande gesto farà per me. Per aprire gli occhi, la tradizione vuole che si domandi un «animale senza peli sul corpo», e cioè una persona. Quando avrai ucciso questa persona, allora, ma allora soltanto, ti verrà messo qualcosa negli occhi, e comincerai a vedere la notte, a sapere tutto. Ma io rifiuto questa cosa. Non sono d’accordo con questa transazione. Non mi hanno insegnato le cose in questo modo. Siete voi, le piante e le erbe, che mi avete aperto gli occhi. Al posto della persona, si può portare una capra. (ibid., p. 336)

Il gesuita-antropologo offre allora la capra e descrive poi minuziosamente la sua iniziazione, che dura parecchie settimane, e i suoi stati d’animo mentre vi si inoltra, passo dopo passo, seguendo le indicazioni di Din. E, intanto, riflette sull’ambiguità degli uomini di potere, e quindi anche di Din, e, forse, anche sull’ambiguità della sua ricerca e della sua propria storia: ambiguità delle motivazioni, delle intenzioni. A questo punto, non può più procedere solo: chiede a un gruppo di confratelli di rendersi disponibili a un dialogo epistolare che lo sorregga. Nel corso della sua iniziazione, diventa molto sensibile ai conflitti, di qualsiasi natura, che hanno luogo attorno a lui; in occasioni precise, come si somministra un farmaco, Din gli versa delle gocce negli occhi. Un giorno, all’alba, c’è come uno scatto, un evento critico: di colpo «vede chiaro», percepisce nettamente e con freddezza la violenza che c’è nel mondo e vede, come sovrapposte per un effetto cinematografico, mille immagini di conflitti mondiali (cfr. Rosny 1981, p. 359). La prima facoltà che acquista come aspirante controstregone è dunque la percezione lucida e ferma degli atti di violenza che hanno luogo attorno a lui: diviene capace di guardare sotto le forme sociali, addomesticate, delle relazioni tra umani. Questa facoltà spiega la paura dei nuovi iniziati, e il loro isolamento.

La grande paura del futuro iniziato viene dall’anomalia della sua situazione sociale, anomalia che gli procura degli incubi. È un uomo solo. Sollevando il mantello della violenza, va controcorrente rispetto a tutte le tendenze della vita pubblica e a ritroso della sua educazione. Controstregone per definizione, sarà sempre sospettato di divenire il suo contrario, perché percepisce la violenza e gioca con essa. (ibid., p. 362)

Poco dopo aver «aperto gli occhi» al gesuita, Din, il suo iniziatore, muore. I sospetti inizialmente cadono sull’allievo, che avrebbe potuto volerne la morte per prenderne il posto; sospetti che motivano una serie di azioni di riparazione e conciliazione da parte di Rosny. In seguito, il gesuita è chiamato non solo a fare l’indovino (visto che gli avevano «aperto gli occhi») e il guaritore; ma addirittura a iniziare, ad «aprire gli occhi» a guaritori locali che avevano avuto una iniziazione incompleta. Tutte queste attività, così come il suo tentativo di aprire pubblicamente, anche sui media, il dibattito sulla stregoneria, lo coinvolgono profondamente e lo espongono a rischi e fraintendimenti. Come quando un articolo sulle sue attività comparso su «Paris-Match» col titolo Un padre gesuita divenuto stregone. È la rivincita degli dei africani!, induce la gerarchia ecclesiastica a chiedergli ragione della sua posizione (cfr. Rosny 1996, pp. 196 sgg.).

Oggi, è il patriarca Eric de Rosny Dibounje, dove dibounje sta per «germoglio». Così descrive il suo percorso:

Scendere dal germoglio al ceppo, come ho fatto io, andando contro la corrente della linfa, necessita per uno straniero decenni di radicamento. Vorrei approfittare dell’esperienza fatta e sempre in corso per cercare di far condividere la mia convinzione: là dove restano vive le radici della tradizione, il grande albero Africa, che venti contrari scuotono così pericolosamente, può piegarsi, ma non spezzarsi; o anche, avvampare, ma non bruciare: «il baobab non arde»! (Rosny 2003)

Lungo questa strada, il gesuita si è trovato costretto a riflettere anche sulle sue proprie radici.

Diversamente dal sistema della stregoneria che riesce a scartare provvisoriamente la minaccia del male, per la salvaguardia dell’unità del clan, il cristianesimo pretende di sopprimerlo radicalmente. Il progetto che si è realizzato nello stesso Gesù Cristo [prendere su di sé tutta la violenza del mondo, e con questo produrre un effetto liberatorio decisivo], è proposto nel tempo alla libertà di ciascuno. Una problematica tanto rivoluzionaria – se la si situa nella storia delle religioni – ha la sua influenza sul comportamento dei credenti nei confronti della violenza. Quando appartengono a famiglie cristiane secolari, ne sono impregnati a tal punto, e fino nel profondo del loro inconscio, da essere meno portati ad averne paura. Mi domando perfino se la società europea, che è stata per tanto tempo segnata dal cristianesimo, non debba ad esso almeno l’audacia di far scoppiare la violenza alla luce del giorno.

Mi rendo conto oggi che l’iniziazione attraverso la quale mi ha fatto passare Din non era la prima. Nel contesto della mia vita religiosa, avevo già seguito sotto la direzione di un maestro un percorso chiamato «esercizi spirituali», che è una forma di iniziazione. Per tre volte, nel corso di un mese, il novizio si impegna a seguire un percorso programmato, che lo porta a cambiare il suo sguardo. Impara delle tecniche di contemplazione e non gli sono risparmiate le visioni di violenza. Ma passati i primi giorni, molto presto la vita di Gesù gli è offerta come modello da guardare e imitare. È impregnato della certezza che il Cristo ha vinto la morte. Così avevo già, in un certo modo, aperti gli occhi sulla violenza, quando Din ha iniziato il suo trattamento. Né lui né io potevamo sapere, allora, che iniziavamo un lavoro di sovrimpressione, senza possibile coincidenza reale. (Rosny 1981, p. 363)

Senza possibile coincidenza reale… Certo, le modalità con cui si cerca di gestire il fondo oscuro dell’animo umano sono diverse nei vari gruppi. Tra la lotta frontale dei cristiani contro il male, perché sia finalmente estirpato dal cuore di ognuno e addirittura dal mondo intero, ricacciando Satana nelle tenebre, e la negoziazione attenta dei gruppi africani, sta la differenza che c’è tra il sogno prometeico e il paziente lavoro di umani che sanno i loro limiti e la loro posizione nel mondo.


1. «Con questo termine non designo la schiuma lussuosa di una civiltà, ma lo spirito molto particolare, inafferrabile, di un popolo. Ci sono forse altri modi per renderne conto se non attraverso gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi?» (Rosny 1981, p. 30).

Il sangue e il potere

Da Memorie di una casa morta, di Fëdor Dostoevskij

Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all’intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali. L’uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, il pentimento, la rigenerazione divengono ormai quasi impossibili per lui. Inoltre l’esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce anche su tutta la società contagiandola: un simile potere è tentatore.

Da «Gli otto peccati capitali della nostra civiltà», di Konrad Lorenz

La vita organica si è posta, come una strana diga, nel mezzo della corrente dissipatrice dell’energia universale: essa “divora” entropia negativa e cresce attirando a sé energia; man mano che cresce essa acquista la possibilità di accaparrarsi sempre più energia con un ritmo la cui velocità è direttamente proporzionale alla quantità assorbita. Se tali fenomeni non hanno ancora condotto al soffocamento e alla catastrofe, ciò è dovuto anzitutto al fatto che le forze impietose del mondo inorganico, le leggi della probabilità, mantengono entro certi limiti l’incremento degli esseri viventi; ma in secondo luogo anche al formarsi, nell’ambito delle diverse specie, di circuiti regolatori.


L’adattamento delle diverse specie viventi ha richiesto tempi che rispondono all’ordine delle ere geologiche, non a quelle della storia dell’uomo, e ha raggiunto uno stadio tanto ammirevole quanto delicato. Molti meccanismi regolatori proteggono tale equilibrio contro le inevitabili perturbazioni dovute a ragioni climatiche e di altro genere. Tutte le modificazioni che si instaurano lentamente, come quelle provocate dalla evoluzione della specie o da graduali alterazioni del clima, non costituiscono un pericolo per l’equilibrio di uno spazio vitale. Una modificazione improvvisa, invece, per quanto possa sembrare di scarso rilievo, può produrre effetti sbalorditivi e anche catastrofici. L’introduzione di una specie animale apparentemente del tutto innocua può provocare la letterale devastazione di ampie zone di terra, come è avvenuto in Australia in seguito al diffondersi dei conigli. In questo caso l’intervento nell’equilibrio di un biotopo è avvenuto per opera dell’uomo; gli stessi effetti sono tuttavia teoricamente possibili anche senza il suo intervento, sebbene si tratti di una eventualità più rara.


Basta confrontare con occhi spassionati il vecchio centro di una qualsiasi città tedesca con la sua periferia moderna, oppure quest’ultima, vera lebbra che rapidamente aggredisce le campagne circostanti, con i piccoli paesi ancora intatti. Si confronti poi il quadro istologico di un tessuto organico normale con quello di un tumore maligno, e si troveranno sorprendenti analogie! Se consideriamo obiettivamente queste differenze e le esprimiamo in forma numerica anziché estetica, constateremo che si tratta essenzialmente di una perdita di informazione.

La cellula neoplastica si distingue da quella normale principalmente per aver perduto l’informazione genetica necessaria a fare di essa un membro utile alla comunità di interessi rappresentata dal corpo. Essa si comporta perciò come un animale unicellulare o, meglio ancora, come una giovane cellula embrionale: è priva di strutture specifiche e si riproduce senza misura e senza ritegni, con la conseguenza che il tessuto tumorale si infiltra nei tessuti vicini ancora sani e li distrugge. Tra l’immagine della periferia urbana e quella del tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui era stata realizzata una molteplicità di strutture molto diverse, anche se sottilmente differenziate tra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggiava su un bagaglio di informazioni raccolto nel corso di un lungo sviluppo storico; laddove nelle zone devastate dal tumore o dalla tecnologia moderna il quadro è dominato da un esiguo numero di strutture estremamente semplificate. Il panorama istologico delle cellule cancerogene, uniformi e poco strutturate, presenta una somiglianza disperante con la veduta aerea di un sobborgo moderno con le sue case standardizzate, frettolosamente disegnate in concorsi-lampo da architetti privi ormai di ogni cultura. Gli sviluppi di questa competizione dell’umanità con sé stessa esercitano sull’edilizia un effetto distruttivo.


La competizione fra gli uomini

Nel primo capitolo ho spiegato come e perché, nei sistemi viventi, la funzione dei circuiti regolatori, anzi, di quelli a retroazione negativa, sia indispensabile ai fini del mantenimento di uno stato costante; e inoltre come e perché la retroazione positiva, in un circuito, comporti sempre il pericolo di un aumento “a valanga” di un singolo effetto. Un caso specifico di retroazione positiva si verifica quando individui della stessa specie entrano in una competizione che, attraverso la selezione, ne influenza l’evoluzione. Al contrario della selezione causata da fattori ambientali estranei alla specie, la selezione intraspecifica modifica il patrimonio genetico della specie considerata attraverso alterazioni che non solo non favoriscono le prospettive di sopravvivenza della specie, ma, nella maggior parte dei casi, le ostacolano.

Un esempio già citato da Oskar Heinroth per illustrare le conseguenze della selezione intraspecifica è quello delle penne maestre del fagiano argo maschio. Durante la parata nuziale le penne vengono spiegate e dirette verso la femmina in atteggiamento analogo a quello del pavone quando fa la ruota con la parte superiore delle penne della coda. Per il pavone è stato dimostrato in modo sicuro che la scelta del compagno compete esclusivamente alla femmina, ed evidentemente lo stesso accade per l’argo; le prospettive di procreazione del maschio sono in pratica direttamente proporzionali alla forza di stimolo esercitata sulle femmine dalla sua livrea nuziale. Ma mentre le penne del pavone si ripiegano in uno strascico più o meno aerodinamico che non ostacola granché il volo, l’allungamento delle penne maestre dell’argo maschio rende questo animale quasi incapace di volare. Se tale inabilità non è diventata assoluta, ciò dipende certamente dalla selezione operata in senso opposto dai predatori terrestri che assicurano così il necessario effetto regolatore.

Il mio maestro Oskar Heinroth diceva, nel suo solito modo drastico: «Dopo lo sbatter d’ali del fagiano argo, il ritmo di lavoro dell’umanità moderna costituisce il più stupido prodotto della selezione intraspecifica». Al tempo in cui fu pronunciata, questa affermazione era decisamente profetica, ma oggi è una chiara esagerazione per difetto, un classico understatement. Per l’argo, come per molti altri animali con sviluppo analogo, le influenze ambientali impediscono che la specie proceda, per effetto della selezione intraspecifica, su strade evolutive mostruose e infine verso la catastrofe. Ma nessuna forza esercita un salutare effetto regolatore di questo tipo sullo sviluppo culturale dell’umanità; per sua sventura essa ha imparato a dominare tutte le potenze dell’ambiente estranee alla sua specie, e tuttavia sa così poco di sé stessa da trovarsi inerme in balìa delle conseguenze diaboliche della selezione intraspecifica. […]

La competizione fra uomo e uomo agisce, come nessun fattore biologico ha mai agito, in senso direttamente opposto a quella «potenza eternamente attiva, beneficamente creatrice»

La nascita del capitalismo – The birth of capitalism

Da Era necessario il capitalismo?, di Hosea Jaffe
[English original version below]

L’olocausto degli «indios»
e della loro civiltà
ad opera del capitalismo

La tesi che vuole far risalire la nascita del «capitalismo vero e proprio» alla «rivoluzione industriale» inglese tende a omettere quelle che sono le fondamenta reali del capitalismo stesso, ovvero l’ipersfruttamento e l’oppressione razzistica dei lavoratori coloniali, che per tanto tempo hanno costituito la maggioranza del «proletariato» globale (compresi i proletari contadini)1.

Diversi studiosi condividono la tesi di Silvio Serino secondo cui «le malattie introdotte dagli europei nel “nuovo mondo” furono il principale strumento attraverso cui si attuò il più grande genocidio della storia e si realizzò la conquista»2. Tra gli altri ricordiamo Alfred Crosby e David E. Stannard3. Ma Tzvetan Todorov, inter alia, considerava l’epidemia di vaiolo una causa secondaria del genocidio degli «indios» (chiamati così soltanto perché Colombo riteneva di aver raggiunto l’India), a confronto con la guerra di conquista spagnola e l’ipersfruttamento nelle miniere di argento e nelle piantagioni4.

In effetti il primo conquistador, Cortez, vessava non meno di cinquantamila «indios» nella sua piantagione principale. A quei tempi, ovvero all’inizio del XVI secolo, e fino al XX secolo, non esistevano in Europa gruppi di lavoratori altrettanto numerosi in una singola fabbrica o in una singola piantagione. Todorov scrisse che

[…] nel 1500 la popolazione globale era composta da circa 400 milioni di abitanti, 80 milioni dei quali risiedevano in America. Verso la fine del XVI secolo, di questi 80 milioni ne rimanevano 10. Limitando il nostro discorso al Messico, all’inizio della conquista la popolazione si aggirava intorno ai 25 milioni di abitanti; nel 1600 erano stati ridotti a un milione5.

Alcuni missionari spagnoli che giunsero in America a ridosso del periodo delle conquiste (tra il 1492 e il 1512), come Las Casas, testimoniarono che la causa principale dell’enorme numero di morti non furono tanto il vaiolo e altre epidemie, ma la crudeltà degli spagnoli in guerra, nello sfruttamento, nell’affamamento e nella tortura, il terrore cronico che veniva dall’essere confinati nelle miniere d’oro e d’argento, i suicidi di massa dovuti alla claustrofobia, le esecuzioni di massa, la cristianizzazione forzata, l’uccisione dei capi degli stati precolombiani, la distruzione degli edifici delle città-stato, delle case, dei templi, dei luoghi d’insegnamento, e la cancellazione dell’industria, dell’artigianato e delle arti locali6.

Las Casas era un domenicano che si opponeva al genocidio spagnolo degli «indios». Raccomandò a Carlo V, imperatore del sacro romano impero e re di Spagna, di esportare schiavi dall’Africa verso l’America spagnola e portoghese. Carlo V accettò il consiglio.

I resoconti di Las Casas sulle atrocità spagnole furono confermati da quelli di molti altri cattolici – Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés7, il quale fu testimone delle atrocità commesse tra il 1512 e il 1521 a danno dei lavoratori di Cortez, e Toribio da Benevento (conosciuto come Motolinia)8 – e forse soprattutto dalle testimonianze prive di pregiudizi razziali e intrise di sofferenza raccolte dal «meticcio» messicano Juan Bautista Pomar, che le diede alle stampe nel 15829. Secondo tutte queste fonti il genocidio sterminò il 90% della popolazione «india», e questa stima trova riscontro nelle ricerche condotte da studiosi inglesi e statunitensi in America centrale e meridionale nel XX e XXI secolo. Uno di questi studiosi, N.D. Cook, sosteneva – come Las Casas – che la principale causa di morte tra i nativi fu la violenza spagnola10: le malattie furono il colpo di grazia che mise al tappeto la popolazione dei nativi, già ridotta in condizioni miserrime dai soldati spagnoli, dalla fame forzata, dalle psicopatologie derivanti dal confinamento nelle miniere e nei ghetti urbani e rurali, dai quotidiani abusi razzistici, dalle torture e dall’ignobile distruzione e cancellazione degli ultimi residui delle grandi civiltà precolombiane degli Aztechi, dei Toltechi, dei Maya e degli Inca.

Nonostante gli scritti di Las Casas, Oviedo y Valdes, Motolinia e Pomar, redatti proprio durante il genocidio spagnolo (e quello portoghese, dopo che Cabral «scoprì» il Brasile, nel 1500, portato dai venti alle coste nord-orientali del Sudamerica mentre cercava di raggiungere l’India sud-orientale attraverso la circumnavigazione del Capo), a distanza di mezzo millennio gli «studiosi» eurocentrici del XX secolo, sulla base di una mentalità profondamente razzista, ridimensionavano di oltre il 60% l’entità del genocidio rispetto a quella originariamente e direttamente testimoniata. Tra questi figuravano Alfred Kroeber della «Berkeley School», il quale nel 1939 proclamò che in epoca precolombiana la popolazione «india» era composta da circa 8 milioni di persone, compresi i 3,2 milioni in Messico11, e Angel Rosenblat, che nel 1954 produsse una stima, riferita al 1500 d.C., di circa 13,4 milioni di persone in tutta l’America, inclusiva di 4,4 milioni di persone in Messico12. Ma nel 1971, in una pubblicazione della stessa «Berkeley School», S. Cook e W.W. Borah avevano stimato in oltre 200.000 persone la popolazione della sola Tenochtitlan (che secondo quelle stime era dunque più popolosa della Siviglia spagnola nello stesso periodo)13.

Il dato più realistico sul numero totale degli abitanti autoctoni del continente americano preolocausto fu stimato nel 1966 da Henry Dobyns: dai 100 ai 145 milioni14. L’archeologia moderna ha portato alla luce concentrazioni urbane piramidali negli stessi Stati Uniti. A quei tempi la Russia e l’Europa avevano una popolazione di circa 100 milioni di persone. Tutti i dati scientifici dimostrano che l’America precapitalista aveva un numero di abitanti equivalente a quello dell’Europa, dell’India e della Cina, e che la civilizzazione capitalista europea distrusse le civiltà native gettando sulle loro macerie e sui cadaveri di oltre 100 milioni di nativi le fondamenta americane del modo di produzione capitalista.

L’olocausto europeo degli «indios» nel XVI secolo, perpetrato fino alla fine del XIX secolo all’insegna della «conquista dell’ovest», fu reiterato nei Caraibi fin dal primo sbarco di Colombo su quelle terre, poi con il traffico di schiavi europeo attraverso l’Africa occidentale, poi a Zanji, nell’Africa orientale, con il primo viaggio verso l’India di Vasco Da Gama, pochi anni dopo il fatidico 1492, poi con la sanguinosa «scoperta», ad opera di Magellano, dei popoli del «comunismo primitivo» nell’Asia sud-orientale, poi ancora con la conquista dell’Indonesia da parte degli olandesi, quella dell’India e dell’Australia ad opera degli inglesi, e infine quella del Madagascar e dell’Indocina da parte dei francesi. Nell’era dell’imperialismo, «fase suprema del capitalismo», tale fu il costo umano di ciò che Marx definì eufemisticamente «la sanguinosa nascita del capitalismo».

Solo la quadrimillenaria civiltà cinese scampò a questo olocausto che si produsse nel corso di poco meno di un millennio, e ci riuscì soltanto fino alle guerre inglesi per l’oppio della metà del XIX secolo. Il genocidio causato dalla distruzione globale del comunismo primitivo ad opera del colonialismo capitalista fece 300 milioni di vittime, più o meno 100 milioni per ognuno dei continenti coinvolti: America, Africa e Asia. Nell’insieme, includendo i genocidi su scala tipicamente europea perpetrati dopo le conquiste a danno delle società, dei popoli e delle civiltà non europee, questa «accumulazione primitiva» affogò il «comunismo primitivo» nel suo stesso sangue attraverso il corrispettivo di un centinaio di olocausti nazisti.


1 A proposito della definizione di «capitalismo vero e proprio» [in italiano nel testo originale, ndt] si veda per esempio il pur eccellente lavoro del marxista anti-imperialista italiano Silvio Serino, L’uovo di Colombo e la gallina coloniale, Giovane talpa, Milano 2006, pp. 79, 90-91 (l’autore è morto prematuramente nell’aprile 2008).

2 Ibid., p. 139.

3 A. Crosby, Ecological Imperialism: The Biological Expansion of Europe, 900-1900, Cambridge 1986; D.E. Stannard, Olocausto Americano, Torino 2001.

4 Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Torino 1984, 1992.

5 Ibid., pp. 161-162.

6 Bartolomé del Las Casas, Historia de las Indias, Fondo di Cultura Economica, Città del Messico 1951; Brevissima Relazione della distruzione delle Indie, Milano 1991.

7 Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés, Historia General y Natural de las Indias, Atlas, Madrid 1992 (parzialmente tradotto in italiano in Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernández de Oviedo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990).

8 Toribio da Benevento (detto Motolinia), Historia de los Indios de la Nueva Espana, Porrua, Mexico 1973.

9 Juan Bautista Pomar, Relación de Texcoco, c. 1582, Colonial Records, Madrid.

10 N.D. Cook, Born to Die. Disease and New World Conquest, Cambridge 1998.

11 Alfred L. Kroeber, Cultural and Natural Areas of Native North Ameirca, Berkeley 1939.

12 Angel Rosenblat, La población indígena y el mestizaje en América, Buenos Aires 1954.

13 S. Cook and W.W. Borah, The Indian Population of Central Mexico, 1531-1610.

14 F. Henry Dobyns, Estimating Aboriginal Population, an Appraisal of Techniques with a New Hemispheric Estimate, «Current Anthropology», VII, 1966.


From Was capitalism necessary?, by Hosea Jaffe

The Holocaust of the «Indios»
and their Civilization by Capitalism

The defining and dating of «true and proper capitalism» as if it began from the classic English «industrial revolution» tends to omit the very basis of capitalism, namely the super-exploitation and racist oppression of the colonial workers, who have long been the majority of the global «proletariat» (including peasant proletarians)1.

Several scholars adhere to the thesis of Silvio Serino that «the diseases introduced by Europeans in the New World were the principal instrument for actuating the greatest genocide of history and for therefore realising the conquest»2. Among these were Alfred Crosby and David E. Stannard3. But Tzvetan Todorov, inter alia, considered the smallpox pandemia a secondary cause of the genocide of the «Indios» (so named solely because Columbus thought he had reached India) compared with the general Spanish military conquest and super-exploitation in silver mines and plantations4.

Indeed, the prime conquistador, Cortez, oppressed no fewer than 50,000 «Indios» on his major plantation. No such huge working class existed in Europe in that early 16th century in any single factory or farm, or, indeed, until the 20th century. Todorov wrote: «in 1500 the population of the world was in the order of 400 million inhabitants, 80 million of whom resided in America. Towards the end of the XVIth century, of these 80 millions there remained 10 millions. Limiting our discourse to Mexico, at the beginning of the conquest the population was about 25 million inhabitants; in 1600 they were reduced to 1 million»5.

Spanish missionaries like Las Casas, who were in America after the conquests of 1492 to 1512, wrote that the major cause of the massive death toll was not so much small-pox and other pandemics but the Spanish cruelty in warfare, exploitation, famine, torture, chronic terror-stricken fear of being confined in silver and gold mines, mass suicides based on socialised claustrophobia, mass executions, forced Christianization, the killing of the heads of the Aztec and other states, the razing of the city-state buildings, the burning of their houses, temples and places of learning, and the destruction of their industries, crafts and arts6.

Las Casas was a Domenican priest opposed to the Spanish genocide of the Indios. He suggested to the Holy Roman Spanish emperor Charles V to import slaves from Africa into Spanish-Portuguese America. Charles V accepted Las Casas’s policy.

Las Casas’s reports of Spanish atrocities were confirmed by Catholic scribes Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdes7, who witnessed the atrocities of 1512-21 against Cortez’s labourers; Toribio da Benevento (known as Motolinia)8 and, above all, perhaps, the racially-unprejudiced and long-suffering records of the conquered Mexican «meticcio», Juan Bautista Pomar, completed about 15829, all estimated the genocide to be 90% of the Indios population. This 90% holocaust has been confirmed by 20th and 21st century research in Central and South America by British and usa scholars. One of these, N.D. Cook, held (like Las Casas) that the major cause of death was Spanish violence10. As for disease, it was the «knock-out» blow which felled a native population reduced to near death by the Spanish soldiers, enforced famines, psychopatholigising confinement in mines and urban and plantation ghettos, daily racist abuse, torture, and the horrifying destruction and «disappearance» of the Great Aztec, Toltec, Mayan, Inca and other relics of pre-Columbian civilizations.

Despite the writings of Las Casas, Oviedo y Valdes, Motolinia and Pomar during the actual Spanish holocaust (and that of the Portuguese, after Cabral «discovered» Brazil in 1500, when driven by winds to the north-west coast of South America while en route to south-west India via the rounding of the Cape), Eurocentric «scholars» of the 20th century (half a millennium after that holocaust) carried out an entirely racist reduction of over 60% of the original actually observed holocaust. Among these were Alfred Kroeber of the «Berkeley School», who in 1999 claimed a pre-Columbian Indios population count of 8 million in North America, including 3.2 million in Mexico11, and Angel Rosenblat, who in 1954 manufactured figures for 1500 AD of only 13.4 million Indios for all America, including 4.4 million for Mexico12. But S. Cook and W.W. Borah, in a 1971 «Berkely» book, estimated the 1531 population only of Tenochtitlan to have been over 200,000, more than that of Seville, Spain13.

The actual pre-holocaust native population of all America was estimated by Henry Dobyns in 1966 to have been from 100 to 145 millions14. Modern archaeology reveals pyramidal urban concentrations in the present USA itself. At that time Russia and Europe had a population of about 100 million. All scientific indications prove that pre-capitalist America had a population equivalent to each of Europe, India and China, and that European capitalist civilization destroyed the native civilizations, and laid the American foundations of the capitalist mode of production on their ruins and the genocided bodies of over 100 million natives.

The European holocaust of the Indios, perpetrated in the 16th century and then continued right to the end of the 19th century (with the cry of «Go West»), was reproduced in the Caribbeans from the very first disembarkation of Columbus; then through Western Africa by the European slave traffic; then in Zanj, East Africa, since Vasco Da Gama’s first voyage to India a few years after the fateful 1492; then through Magellan’s bloody «discovery» of the populace of «primitive communism» in south-east Asia; thence onto and into the seizure of Indonesia by the Dutch, of India and Australia by the British, and finally of Madagascar and Indo-China by the French. On the very eve of imperialism, «the highest stage of capitalism», this was the human cost of what Marx modestly called «the bloody birth of capitalism».

Only the 4000-year old civilization of China escaped this semi-millennial holocaust, but then only until the British Opium Wars of the mid-19th century. The genocide of this global destruction of primitive communism by capitalist colonialism totals over 300 millions, 100 or more millions in each of America, Africa and Asia. All told, including post-conquest genocide on the typical European scale against non-European societies, peoples and civilizations, this «primitive accumulation» bloodily buried «primitive communism» in a hundred Nazi holocausts of Jews.


1 E.g., on «true and proper capitalism», see the even excellent work of the Italian Marxist anti-imperialist, Silvio Serino, L’Uovo di Colombo e la Gallina Coloniale, Milano, March 2006, pp. 79, 90, 91 (this day of writing – 16 January 2008 – I received the terribly sad news that Silvio is terminally ill from lung cancer.)

2 Ibid. p. 139.

3 A. Crosby, Ecological Imperialism: The Biological Expansion of Europe, 900-1900, Cambridge 1986; D.E. Stannard, Olocausto Americano, Torino, 2001.

4 Tzvetan Todorov, La Conquista dell’America, Torino, 1984, 1992.

5 Ibid. pp. 161-2.

6 Bartolomé del Las Casas, Historia de las Indias, Fondo di Cultura Economica, Mexico City, 1951; Brevissima Relazione della Distruzione della Indie, Milano, 1991.

7 Gonzalo Fernadez de Oviedo y Valdes, Historia General y Natural de las Indias, Madrid, Atlas 1992 (Italian partial translation: Le Scoperte di Cristoforo Colombo nel testi di Fernandez de Oviedo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1990).

8 Toribio da Benevento (called «Motolinia»), Historia de los Indios de la Nueva Espana, Porrua, Mexico, 1973.

9 Juan Bautista Pomar, Relacio de Texcoco, c. 1582, Colonial Records, Madrid.

10 D.N. Cook, Born to Die, Disease and New World Conquest, Cambridge 1998.

11 Alfred L. Kroeber, Cultural and Natural Areas of Native North Ameirca, Berkeley, 1939.

12 Angel Rosenblat, La publacion indigine y el mestizaje en America, Buenos Aires, 1954.

13 S. Cok and W.W. Borah, The Indian Population of Central Mexico, 1531-1610.

14 F. Henry Dobyns, Estimating Aboriginal Population, An Appraisal of Techniques with a New Hemispheric Estimate, «Current Anthropology», VII, 1966.