L’ultimo capitolo di “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow

Da L’alba di tutto, di David Graeber e David Wengrow

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Conclusione
L’alba di ogni cosa

Questo libro è iniziato con un appello a porre domande più efficaci. Abbiamo cominciato osservando che indagare sulle origini della disuguaglianza significa necessariamente creare un mito, una caduta in disgrazia, una trasposizione dei primi capitoli della Genesi, che nelle versioni contemporanee prende la forma di una narrazione mitica, spogliata di qualunque prospettiva di redenzione. In questi resoconti, il massimo che noi esseri umani possiamo augurarci è qualche piccolo miglioramento della nostra condizione intrinsecamente squallida e, si spera, un’azione drastica per impedire qualsiasi imminente disastro assoluto. L’unica altra teoria disponibile finora è l’ipotesi che la disuguaglianza non abbia origini, perché gli esseri umani sono, per natura, creature aggressive e i nostri esordi furono infelici e violenti; nel qual caso il «progresso» o la «civiltà», stimolati in gran parte dalla nostra indole egoista e competitiva, furono essi stessi capaci di redenzione. Questa idea gode dell’approvazione dei miliardari, ma non convince nessun altro, compresi gli scienziati, consapevoli che non rispecchia i fatti.

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Le specie non sono reali

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (Elèuthera, 2021),
introduzione al capitolo quarto

Il darwinismo e la genetica insieme formano il quadro teorico della biologia moderna che si è deciso di chiamare «teoria sintetica dell’evoluzione» o «neodarwinismo»1. Queste due teorie sono solitamente ritenute complementari al punto che opporsi a una vorrebbe dire opporsi anche all’altra. Può quindi sembrare paradossale criticare la genetica e al tempo stesso puntare i riflettori sulla teoria di Darwin. Ma non dimentichiamo che storicamente la loro sintesi è stata difficile. C’è voluto quasi un secolo per appianare alcune importanti divergenze2. Lungi dall’essere la teoria cristallina che si pensa, questa teoria sintetica nasconde una contrapposizione di fondo. Il darwinismo e la genetica si concentrano su aspetti diversi del vivente, o meglio su aspetti fra loro contraddittori. Darwin si interessa all’evoluzione e quindi alla variazione dei caratteri che ne costituisce il substrato, mentre la genetica cerca di spiegare la trasmissione intergenerazionale dei caratteri, cosa che all’opposto presuppone la conservazione degli stessi. Quando si è compiuta la sintesi fra le due, è andato perduto l’aspetto più radicale e innovativo del pensiero darwiniano. Mentre Darwin aveva rotto con i naturalisti che l’avevano preceduto, considerando la variazione come la proprietà primaria del vivente, la genetica ha riportato in auge l’invarianza.

Per cogliere fino a che punto il darwinismo è stato snaturato bisogna tornare alla genesi della teoria dell’evoluzione. La teoria della selezione naturale non è semplicemente il risultato di un accumulo di osservazioni che apportano prove empiriche a partire dalle quali la deduzione della teoria è obbligata. Essa è anche il compimento di una rivoluzione ontologica che tocca la questione della specie. Si tratta di un problema filosofico molto antico le cui implicazioni per la scienza sono critiche. Il termine «specie» indica gruppi di individui che si assomigliano, ma qual è lo statuto di questi raggruppamenti? Sono oggettivi o soggettivi? Le specie indicano classi reali esistenti indipendentemente dalla soggettività dei classificatori? A seconda della risposta data a questa questione concepiamo il mondo in maniera differente. Se le specie sono reali, esiste un ordine oggettivo corrispondente a queste specie. Se sono soggettive, cioè se sono solo raggruppamenti arbitrari che dipendono dal nostro potere di discernimento o comunque da criteri di nostra scelta, l’ordine che percepiamo non è reale. È relativo alla nostra percezione e alla nostra capacità cognitiva. I filosofi e i naturalisti hanno sostenuto due categorie di risposte. Le specie sono reali per i «realisti», ovvero indipendenti dalla nostra soggettività. Mentre per i «nominalisti» le specie non sono reali, ma sono costruzioni arbitrarie elaborate dagli umani3.

In questo capitolo riesamineremo la teoria sintetica. L’analisi mostrerà che è necessario dissociare darwinismo e genetica. In un primo tempo verrà esaminata la rottura che Darwin ha operato rispetto ai suoi predecessori. Vedremo che il fatto di non riuscire a sbarazzarsi dell’idea di un ordine naturale è ciò che ha impedito loro di formulare una teoria dell’evoluzione compiuta. Tale ordine corrisponde, in ultima analisi, alla messa in atto del disegno divino, che induce alla creazione di specie fisse nella loro essenza e nelle relazioni fra loro. All’opposto, Darwin ha confutato il realismo della specie e si è fatto carico di un nominalismo che riconosce la variazione come il principio primo del vivente. In virtù di questo fatto, il vivente è, a suo parere, un flusso continuo che fa variare gli esseri all’infinito, annichilendo ogni possibilità di instaurare un ordine naturale. Le ontologie antagoniste di darwinismo e genetica non sono mai state riconciliate nella loro cosiddetta sintesi. Predomina l’una o l’altra a seconda delle circostanze, degli ambiti di studio o degli autori. Nel caso dell’ontogenesi si è imposta l’ontologia della genetica con il suo corollario: un rigido determinismo. Ed è appunto questo il motivo per cui è importante capire questa storia: per dissociare il darwinismo dalla genetica e dissolvere così l’illusione di ordine che tale associazione fa perdurare.


1. Queste due espressioni non sono esattamente sinonimi. «Neodarwinismo» indica la reinterpretazione del lavoro di Darwin compiuta nel XIX secolo da alcuni precursori della genetica, soprattutto Weismann, mentre «teoria sintetica dell’evoluzione» indica la sintesi che ha fatto il suo esordio nella prima metà del XX secolo integrando dapprima darwinismo e genetica delle popolazioni e poi anche altre discipline fra cui la biologia molecolare. Oggi, però, le due espressioni sono spesso utilizzate come sinonimi in senso lato.

2. Peter J. Bowler, The Eclipse of Darwinism, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1983; Jean Gayon, Darwinism’s Struggle For Survival, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2007.

3. Il termine «realista» deriva dalla disputa sugli universali. È quasi sinonimo del termine «essenzialista», inventato nel XX secolo.

Michael Pollan su Timothy Leary

Da Come cambiare la tua mente,
di Michael Pollan (Adelphi, 2019)

«A Harvard stavamo concependo pensieri storicamente estremi» scrisse in seguito Leary a proposito di quel periodo: convinti che «fosse arrivato il momento (dopo i superficiali e nostalgici anni Cinquanta) per visioni rivoluzionarie, sapevamo che l’America aveva esaurito la filosofia, e che era urgentemente necessaria una nuova meta-fisica empirica e tangibile». La bomba e la guerra fredda costituivano lo sfondo essenziale di quelle idee, conferendo al progetto un carattere d’urgenza.

Nel suo passaggio da scienziato a evangelizzatore Leary fu incoraggiato anche da alcuni degli artisti che aveva egli stesso iniziato agli psichedelici. In una memorabile seduta nella sua casa di Newton, nel dicembre del 1960, Leary diede la psilocibina al poeta beat Allen Ginsberg, un uomo che per vestire i panni del profeta visionario non aveva bisogno di alcuna induzione chimica. Verso la fine di un trip estatico, Ginsberg scese incespicando al piano di sotto, si tolse tutti i vestiti e annunciò la propria intenzione di marciare nudo per le strade di Newton predicando il nuovo vangelo.

«Insegneremo alla gente a smettere di odiare» disse, «inizieremo un movimento di pace e amore». Nelle sue parole si può quasi udire la nascita degli anni Sessanta, come un pulcino fluorescente ancora bagnato che rompe il guscio dell’uovo. Quando Leary riuscì a persuadere Allen a non uscire di casa (tra l’altro, era dicembre), il poeta andò al telefono e cominciò a chiamare vari leader mondiali, cercando di farsi passare Kennedy, Chruščëv e Mao Zedong, per cercare di appianare le loro divergenze. Alla fine riuscì a parlare solo con il suo amico Jack Kerouack, presentandosi come Dio («qui è D-I-O che parla») e dicendogli che doveva prendere quei funghi magici.

Al pari di chiunque altro.

Ginsberg era convinto che Leary, il professore di Harvard, fosse l’uomo perfetto per guidare la nuova crociata psichedelica. Per Ginsberg, il fatto che il nuovo profeta «emergesse dall’Università di Harvard», l’alma mater del neoeletto presidente, era un esempio di «commedia storica», giacché qui c’era «il solo e unico Dr. Leary, un essere umano rispettabile, un uomo navigato, messo di fronte al compito d’un Messia». Venendo dal grande poeta, quelle parole caddero come semi sul terreno fertile e ben innaffiato dell’ego di Timothy Leary. (Il fatto che le sostanze psichedeliche possano promuovere un’esperienza di dissoluzione dell’ego, la quale in alcuni individui porta poi rapidamente a una sua colossale espansione, è uno dei loro numerosi paradossi. Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo, chi riceve tale conoscenza tende a sentirsi speciale, prescelto per grandi imprese).

[«Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo», mah, boh, io al massimo poi così]

Genetica, epigenetica e concezione anarchica del vivente

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021),
6.3. L’epigenetica risolve i problemi della genetica

Ai giorni nostri, quando la spiegazione genetica viene colta in fallo, il ricorso all’epigenetica e all’ambiente è diventato un leitmotiv, una sorta di formula magica che si ritiene in grado di risolvere le difficoltà. È incontestabile che l’ambiente e le modificazioni della cromatina dette epigenetiche sono fattori importanti, ma la questione è sapere in che modo influenzano il funzionamento cellulare. Di solito la loro azione è interpretata in un sistema di pensiero informazionale e deterministico. Ci troviamo allora di fronte allo stesso problema presentato dal determinismo genetico. In che modo i fattori epigenetici o quelli ambientali possono esercitare un effetto specifico se gli effettori proteici che dovrebbero veicolarli nelle cellule non lo fanno? Prendiamo un esempio concreto. Il lievito Saccharomyces cerevisiae modifica il proprio comportamento o funzionamento in risposta a segnali ambientali differenti. Si tratta ad esempio della risposta a un feromone sessuale, a un cambiamento di pressione osmotica nell’ambiento o a una crescita filamentosa. Ma in tutti questi casi il lievito usa le stesse proteine non-specifiche. Come può in queste condizioni discriminare tra segnali differenti e ottenere una risposta adeguata? La questione del determinismo ambientale si pone con la stessa gravità riscontrata nel determinismo genetico. Di per sé, invocare l’influenza dell’ambiente non è una soluzione: adesso i determinismi problematici sono due!

La concezione anarchica diverge in maniera netta dall’epigenetica, così come viene abitualmente concepita, perché rinuncia all’idea di un supporto stabile dell’ereditarietà contenuto nei geni, e perché considera l’ontogenesi non come una diversificazione o un’interpretazione dell’informazione genetica, ma come una restrizione del gioco probabilistico del vivente. In questo quadro, l’azione dell’ambiente non è più quella di indurre effetti in maniera deterministica, ma quella di selezionare gli stati cellulari aleatori per la loro stabilizzazione. Perciò la non-specificità delle proteine non è più un problema. Diventa possibile integrare i ruoli delle modificazioni della cromatina: esse non sono un codice epigenetico portatore di informazioni. Sono gli effettori biochimici a consentire la stabilizzazione della cromatina.

Un po’ di libero arbitrio

Da Sulla materia della mente,
di Gerald M. Edelman

Capitolo 16
Memoria e anima individuale:
contro il riduzionismo sciocco

La scienza non può spiegare il mistero ultimo della Natura. E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte del mistero che tentiamo di spiegare.

Max Planck

Se dovessi vivere di nuovo, mi piacerebbe vivere sopra un negozio di specialità gastronomiche.

Woody Allen

Dall’ultimo quarto del diciassettesimo secolo fino all’ultimo decennio del secolo successivo, un’esplosione di creatività chiamata Illuminismo trasformò la storia delle idee. Molte opinioni e molte concezioni fiorirono, ma al centro dell’interesse generale si trovavano soprattutto la ragione, la scienza, la libertà e l’individualità dell’uomo. La scienza che ne costituiva il fondamento era la fisica, il sistema di Newton, e la concezione filosofica della società era, in larga misura, quella di Locke. Tuttavia le idee di causalità e determinismo, assieme alla visione meccanicistica della scienza, minarono alla base le speranze in una teoria dell’azione umana basata sulla libertà. Se siamo determinati da forze naturali — da meccanismi — è difficile immaginare che un individuo libero possa compiere scelte di ordine morale. Inoltre, benché l’Illuminismo fosse molto attento al ruolo della ragione e della cultura in tali scelte, non espresse alcun concetto generale riguardo alla profonda influenza esercitata dalle forze inconsce e dalle emozioni sulla mente di ogni essere umano (compresi quelli «dotati di ragione», e cioè le persone «colte»).

Quali che fossero le forme assunte nei vari periodi e nei vari luoghi, l’Illuminismo fu prevalentemente una concezione laica, che forgiò molte delle idee a fondamento della democrazia moderna. Esso, però, è finito, pur lasciandoci una eredità preziosa. Quelle idee subirono un primo, fiero colpo con gli attacchi che Hume rivolse sia al razionalismo sia alla concezione che associava il progresso umano alle scienze naturali. La principale carenza dell’Illuminismo fu l’incapacità di formulare una adeguata descrizione scientifica dell’individuo che si potesse affiancare alla descrizione dell’universo come macchina. Nell’ambito sociale, invece, il fallimento fu l’incapacità di andare oltre il concetto di una società composta di individui egoisti, votati al successo nel campo degli affari, con una visione superficiale dell’«umanesimo». Gli illuministi tentarono, sì, di offrire una prospettiva più ispirata, ma la loro scienza era una fisica meccanicistica, sprovvista di un corpo di dati e di idee che consentisse di collegare il mondo, la mente e la società secondo i criteri della ragione scientifica cui aspiravano. A dispetto di fallimenti e contraddizioni, tuttavia, l’Illuminismo ci ha lasciato grandi speranze riguardo al posto dell’individuo nella società.

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Darwinismo e anarchia

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021)

Capitolo sesto
Risposta ad alcune obiezioni

[…]

6.4 Il darwinismo non è anarchico

Associare il darwinismo e l’anarchia nello stesso quadro concettuale potrebbe essere fonte di malintesi che vanno evitati. Una prima precisazione si impone. Quando si fa riferimento al darwinismo per spiegare i meccanismi di embriogenesi non si tratta evidentemente di trasferire il meccanismo preciso della selezione naturale così come viene descritto da Darwin. Si tratta piuttosto di recuperare in primis l’ontologia e la specifica causalità introdotte da Darwin, le quali forniscono un nuovo quadro generale per pensare l’ontogenesi. D’altronde, il meccanismo della selezione naturale non era del tutto precisato in Darwin, dal momento che all’epoca non erano completamente note le modalità della variazione. I biologi di solito fanno riferimento al darwinismo in senso lato quando traspongono la selezione naturale al di fuori del suo originale ambito di applicazione. Che sia nella teoria clonale degli anticorpi o nel darwinismo neuronale citati in precedenza, o ancora nel modello anarchico della differenziazione cellulare, il riferimento al darwinismo indica uno schema generale comune e non un’analogia dei meccanismi in senso stretto, cosa che sarebbe assurda. In ognuno di questi casi quel che si intende esattamente con variabilità e selezione è differente. Del resto, fin dall’inizio l’utilizzo del concetto di «selezione» da parte di Darwin era metaforico.

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L’ultimo capitolo di “La penultima verità”

Da La penultima verità,
di Philip K. Dick

Capitolo 29

All’una di quel pomeriggio Carol Tigh effettuò con successo l’operazione di trapianto del pancreas sul corpo ancora congelato di Maury Souza; poi, grazie alle risorse mediche più sofisticate del formicaio, ripristinò la circolazione sanguigna, il battito cardiaco e la respirazione del vecchio. Il suo cuore cominciò a pompare sangue da solo, e subito, con cautela e abilità, gli stimolatori artificiali delle funzioni vennero rimossi uno dopo l’altro.

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Artaud a caso

Da Al paese dei Tarahumara e altri scritti, di Antonin Artaud

Ieri venerdì 15 marzo, nell’insediarsi del mio dolore, la dialettica è entrata in me come derisione della mia carne viva che soffre, ma non capisce.

Della morfina su una gamba di legno, fatta, la morfina, con la cancrena delle ossa della gamba morta, poi spillata, ecco cosa fu la santa trinità.

Non basta agitare fluidi per spiegare la coscienza che non è uno spirito di corpo, ma il volume del timbro di un corpo sul punto di farsi largo con le braccia per essere, contro lo spirito che lo computerà.

Gli spiriti maligni non sono stati mentali, ma esseri che non hanno mai voluto sop-portarsi.

Il demone di Maxwell

Da Il quark e il giaguaro, di Murray Gell-Mann,
parte seconda, capitolo 15

Il demone di Maxwell

[…] introdurremo un ipotetico diavoletto che passa il tempo a scegliere e ordinare: il famoso demone di Maxwell, escogitato da quello stesso James Clerk Maxwell che scoprì le equazioni per l’elettromagnetismo. Lo scienziato scozzese si stava occupando di un’applicazione molto comune (e forse la più antica) del secondo principio della termodinamica: quella a un corpo caldo e a un corpo freddo posti l’uno accanto all’altro. Immaginiamo di avere una camera divisa in due da un tramezzo asportabile. Metà della camera è riempita di un gas molto caldo e l’altra metà di un’uguale quantità del medesimo gas a temperatura molto inferiore. La camera può essere considerata un sistema isolato contenente una certa quantità d’ordine: infatti le molecole del gas caldo, in moto con velocità statisticamente maggiore da un lato del tramezzo, sono isolate dalle molecole, mediamente più lente, del gas freddo dall’altro lato.

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Paesaggi di fitness

Da Il quark e il giaguaro, di Murray Gell-Mann

Paesaggi di fitness

Una difficoltà generale si evidenzia quando introduciamo la nozione qualitativa di «paesaggio di fitness». Immaginiamo che i diversi genotipi siano disposti su una superficie orizzontale bidimensionale (in realtà si tratta di uno spazio matematico a molte dimensioni di possibili genotipi). Il valore di fitness di un dato genotipo è rappresentato dall’altezza di un punto; al variare del genotipo, la fitness descrive una superficie (bidimensionale), con moltissime colline e valli, nello spazio a tre dimensioni. I biologi rappresentano convenzionalmente la crescita della fitness con altezze progressivamente maggiori, così che i suoi massimi corrispondono alle cime delle colline e i suoi minimi agli avvallamenti più profondi; io userò invece la convenzione inversa, che è abituale in molti altri campi. Nella mia rappresentazione, quindi, la fitness aumenta con la profondità, e i suoi massimi coincidono con i punti più bassi delle depressioni, come mostra la figura di pagina 285 [qui sotto].

Un paesaggio di fitness: il valore della fitness aumenta al diminuire dell’altezza
Un paesaggio di fitness: il valore della fitness aumenta al diminuire dell’altezza

Il paesaggio è molto complicato, con numerose voragini (massimi locali di fitness) di profondità assai varia. Se l’effetto dell’evoluzione fosse sempre quello di scendere a valle – di migliorare sempre l’adattamento – il genotipo si fisserebbe probabilmente sul fondo di una depressione poco profonda e non avrebbe modo di raggiungere i buchi profondi vicini, cui corrisponde una fitness molto maggiore. Quanto meno, esso dovrebbe muoversi in un modo più complicato di quello di scivolare semplicemente verso valle. Se avesse anche qualche moto casuale in altre direzioni, potrebbe evadere da depressioni poco profonde e trovarne altre più profonde nelle vicinanze. Questi moti casuali non dovrebbero però superare certi limiti, altrimenti l’intero processo cesserebbe di funzionare. Come abbiamo visto in una varietà di situazioni, un sistema complesso adattativo funziona al meglio in una situazione intermedia fra l’ordine e il disordine.