Quando si è piccoli ci si pensa e ci si sente “il centro del mondo”, perché quando nasciamo non c’è identità, non c’è confine tra sé e mondo: siamo (già) stati “tutto”, nei nove mesi passati all’interno del corpo delle nostre madri, e l’identità e il confine cominciano a formarsi con la nascita e dopo la nascita lentamente, progressivamente, e se si formano troppo lentamente, crescere si accompagna al sentirsi sempre più eccessivamente responsabili di tutto, e si diventa insicuri di sé soprattutto perché il peso di questa sopravvalutazione rende ogni scelta molto complicata, col rischio del senso di colpa sempre in agguato in primo luogo rispetto ai propri rapporti più stretti (per esempio quello coi genitori, coi parenti, gli amici, gli insegnanti) e poi, in modo crescente, rispetto al “mondo intero”, man mano che veniamo a conoscerlo.
A volte invece, crescendo, attraverso passaggi spesso anche dolorosi, si ridimensiona la percezione della propria responsabilità, diventando così più capaci, anche perché sempre più coscienti del mondo, di scegliere e di contrapporci alle cose spiacevoli nostre e del mondo svoltandole in cose belle come piantare alberi, prendere i mezzi di produzione e le terre coltivate per socializzarli e salvare la nostra specie dall’estinzione, ecc.
Spesso però, in particolare se da piccoli si è stati troppo responsabilizzati anche dall’esterno (per esempio dai genitori e-o dagli insegnanti) e se troppo presto ci si è trovati, anche solo per racconto, ad avere troppa conoscenza del mondo e dei suoi mali, si continua invece a pensarsi “il centro del mondo”, e in un modo sempre più sofferto, perché sempre più carico di conoscenza e quindi sempre più sollecitato sul piano della responsabilità; al punto che, come spesso avviene, si può finire per mandare affanculo tutto o quasi tutto, arrendendosi alla propria e all’altrui stronzaggine, oppure per affezionarsi a questo sentirsi “il centro del mondo” perché, nonostante nel mondo il male sia tanto, e spesso sembri vincere, e nonostante l’idea di esserne più responsabili di quanto lo si è realmente ingigantisca i sensi di colpa, lascia aperta la possibilità illusoria di “cambiare tutto cambiando sé stessi”: una percezione esagerata del portato reale dei nostri cambiamenti individuali che sempre più spesso e diffusamente mi sembra sfiorare il delirio di onnipotenza.
Resta comunque molto difficile arrivare a sentirsi davvero soltanto una tra otto miliardi di persone (vedi la striscia di Bloom County qua sotto), e probabilmente non è neanche un male.
