Un cuore stilizzato con la parte in alto a sinistra rossa e la parte in basso a destra nera.

Da una chiacchierata tra Primo Moroni e Ivan Della Mea: la forza terribile del patriarcato

[Due brani da una lunga chiacchierata tra Primo Moroni e Ivan Della Mea, da una registrazione effettuata il 5 novembre 1993 da Ivan Della Mea]

Primo Moroni: Quella manifestazione del ’62 era proprio per Cuba.

Ivan Della Mea: Sì, esatto, la prima. Ci sono parecchi elementi, perché è stata la prima manifestazione in piazza Duomo delle tre confederazioni sindacali per la pace.

Primo Moroni: Poi, tempo dopo, c’è stato anche un comizio nostro, di comunisti, in piazza Santo Stefano, contro l’attacco americano alla Baia dei Porci a Cuba. Lì abbiamo lanciato il corteo e a tutti dicevamo «Noi il corteo lo facciamo lo stesso anche se non abbiamo l’autorizzazione». Ma all’altezza di via Tommaso Grossi…

Ivan Della Mea: È stato come infilarsi in un cul de sac. Tutte le volte che c’era una manifestazione e il corteo andava a infilarsi in Tommaso Grossi per sfondare in piazza della Scala a me venivano i brividi. È sempre stata una trappola.

Primo Moroni: Potevamo girare in via Mengoni. Avevamo deciso di cambiare l’insegna della strada e di metterne una che diceva «Via Giovanni Ardizzone, assassinato dalla polizia», e l’abbiamo messa, ma la polizia la toglieva e noi la rimettevamo e la polizia, eccetera. Su quella roba lì devo dire che è stato un trauma grosso, perché perlomeno come percezione di giovane, poi io a quel punto avevo già ventisei, ventisette anni, insomma, noi della base volevamo un impegno più radicale del partito nella vicenda del processo e della difesa di questo giovane.

Ivan Della Mea: Ma secondo te era parto del buon Malagugini o era un diktat

Primo Moroni: A me ha fatto allora un ragionamento Banfi, alla Perotti Devani, uno giovane che si chiamava Banfi, figlio del filosofo o parente.

Ivan Della Mea: Andrea Banfi?

Primo Moroni: Forse, non ricordo. Ricordo che stava in centro lui di casa. Io con lui, quando c’è stata la destalinizzazione, la vicenda Kruscev e simili, siamo andati in giro per le sezioni per spiegare il rapporto segreto. Ci dovevi andare allora nelle sezioni per spiegare quella roba lì: era dura. Io sono andato alla sezione di Niguarda e lì il premier sovietico lo chiamavano il signor Kruscev, non lo chiamavano compagno Kruscev, dicevano «Il signor Kruscev non deve romper tanto le balle con queste cose qua». Tu spiegavi come Togliatti, eccetera, eccetera, c’era tutto un ragionamento intorno a questa vicenda qua e dovevi anche in qualche modo convincerli a togliere i quadri di Stalin e sostituirli con… Alla fine la mediazione era che mettevi Togliatti, mettevi Gramsci, Marx e Engels, però Stalin non lo toglievano, lo mettevano più piccolo… perché nelle sezioni c’era questo Stalin vestito da maresciallo, enorme. Ricordo lì a Niguarda c’era uno in prima fila che mi guardava mentre parlavo, io raccontavo questa vicenda, non ricordo bene che schema avevo ma so che era uno schema preciso, democratico.

Ivan Della Mea: Ma non può essere Andrea Banfi, era molto più giovane di noi.

Primo Moroni: Era giovane però si chiamava Banfi.

Ivan Della Mea: Ma era uno alto?

Primo Moroni: Sì, alto.

Ivan Della Mea: Ho capito chi è. Era un migliorista ante litteram, saccente e rompicoglioni il giusto e per nulla parente del filosofo.

Primo Moroni: Sì, si comportava da dirigente alla Perotti Devani… e vedevo questo qui in prima fila che mi guardava e mi guardava mentre parlavo e mi imbarazzavo un po’. A un certo punto si alza e fa: «Senti un po’, sbarbato», e si apre la camicia e vedo che ha un torace ricamato da ferite, «Io mentre ero in galera e mi hanno torturato i fasci, io pensavo al compagno Stalin e ho retto, hai capito, figlio di puttana?», e mi ha sputato in faccia e mi ha dato una sberla. Poi l’han trattenuto gli altri compagni ma io ho capito che era una cosa drammatica, che non poteva essere fatta con questo giochino burocratico. Allora son tornato da questi qua e ho detto «Senti Banfi, ci vai tu perché a me questa storia qui non mi torna». Questo fatto non mi ha colpito, però lui si è incazzato con tutti questi ragionamenti che facevo e probabilmente erano anche un po’ burocratici e da intellettualino, come potevo immaginare di fare al tempo, e si è incazzato, «Pensavo al compagno Stalin e ho retto, non ho parlato»: sono storie vere.

Ivan Della Mea: Noi, io allora ero alla Martiri al Giambellino col vecchio compagno Lodolina che aveva un occhio stoppato. Alla Stalingrado, così era detta la sezione PCI del Lorenteggio, il segretario della sezione ha introdotto i lavori tirando fuori una Mauser e mettendola sul tavolo: «Adesso se qualche compagno ha qualcosa da dire sul compagno Stalin il dibattito è aperto». Tutto questo, poi, è diventata leggenda metropolitana, ma in molti casi non si è trattato di leggenda, anzi.

Primo Moroni: Poi c’era anche un errore, il fatto che noi venivamo dalla Perotti Devani che era la sezione centro, questi qua delle periferie dicevano «Guarda che arriva questo sbarbato dal centro a rompere i coglioni a noi con questo fatto della destalinizzazione. Non se ne parla neanche». Ne ho fatte un paio, poi sono andato da questo Banfi e ho detto «Senti, Banfi, vaffanculo, ci vai tu a fare questa cosa qua, io mi sono rotto le balle. È una cosa complicata, sono d’accordo che va rivista tutta questa questione di Stalin, però non mi sembra di avere tutti gli strumenti e la capacità di fare…»

Ivan Della Mea: Poi non potevi farla in quella maniera tutta verticale, che cazzo voleva dire?

Primo Moroni: Però ti mandavano in giro a farla. Uscendo dal partito, nel ’62, ’63, per una serie di motivi… un po’ perché nella nostra percezione delle sezioni se ne erano impadroniti gli impiegati, noi avevamo questa polemica che non volevamo gli impiegati, uno di quei pallini generazionali, se gli impiegati diventavano segretari di sezione quello lì era un partito di impiegati e allora non ci stava bene, e poi ci avevano spiegato nelle elezioni del ’62 ’63 come il partito era penetrato nelle zone della piccola borghesia milanese e questo rappresentava l’egemonia del partito. Su questa cosa qua noi abbiamo detto «Che cazzo vuol dire questa storia che abbiamo preso più voti a Monforte che a Porta Vittoria, non ce ne frega un cazzo». Una cosa un po’ rozza, ma percepivamo che c’era un cambiamento.

Ivan Della Mea: E chi era allora il segretario della federazione a Milano?

Primo Moroni: Non me lo ricordo. So che ero stato deferito, per queste storie qui, ai probiviri, ma ho conosciuto Occhetto allora e mi ricordo un episodio che mi ha molto impressionato perché dovevamo andare a Lecco, mi pare, e ci hanno detto «Venite anche voi così fate un po’ di scena con i giovani del partito», e lui ha preso, uscendo dalla federazione 25 aprile, l’Ulisse di Joyce, traduzione di De Angelis, uscito da Mondadori, e gli abbiamo detto «Ma cosa c’entra?», «No, la mettiamo sul tavolo, così si rendono conto che noi non siamo mica gente…», insomma faceva scena mettere sul tavolo…

Ivan Della Mea: Ma lì era già segretario nazionale della Federazione Giovanile Comunista Italiana?

Primo Moroni: Esatto, si. E io ho detto «Ma guarda questo qui che cazzo di sceneggiata fa, che porta apposta l’Ulisse per metterlo in mostra». Poi, nel ’60 io e altri siamo andati a Genova per impedire il comizio di Almirante. Siamo rimasti là una settimana in un casino incredibile e ci siamo resi conto che noi eravamo… non lo so come eravamo. È vero che questa storia delle magliette a righe è una leggenda, ma è vero che faceva caldo e abbiamo comprato al porto queste magliette che erano quelle dei marinai, magliette a strisce, le abbiamo comprate un po’ tutti. Ma abbiamo capito che invece lì c’erano delle formazioni partigiane che si muovevano inquadrate, con una propria organizzazione, capivi che c’era uno schema militare che sfuggiva a te che eri sbarbato.

Ivan Della Mea: Ti venivano fuori dai carrugi a fiondate.

Primo Moroni: Ed eri in mezzo a questo casotto. Mi ricordo in Salita del Fondaco che hanno sequestrato sette o otto carabinieri e li hanno disarmati.

Ivan Della Mea: Io lì assisto all’incontro tra il responsabile della polizia e quello dei carabinieri. Il responsabile dei carabinieri dice «Noi non c’entriamo un cazzo, ve la dovete vedere voi», i carabinieri non volevano farsi coinvolgere in quella storia perché capivano che si stava mettendo…

Primo Moroni: Poi le botte erano tante. Io ho conosciuto lì, e poi sono rimasto amico tuttora fraterno, dei camalli del porto perché sono dei personaggi… anzi, Sergio Bologna lavora regolarmente coi camalli del porto. La percezione era che non ci si dovesse fermare agli scontri, che si dovesse costruire un rapporto orizzontale, davvero pari, con i camalli e andare avanti con loro sia sulla questione dell’antifascismo militante sia su quelle più di partito o sindacali. Questo ci si diceva tra noi, nel nostro microcosmo fatto di novanta, cento compagni, «Dobbiamo andare avanti anche lì a Genova», e invece ci hanno fatto tornare a casa. E arrivati a Milano, dirigenti e compagni intelligenti dell’apparato ci hanno fatto anche il culo dicendo a noi, quelli delle magliette a strisce: «Ma voi che cazzo avete fatto?»

Ivan Della Mea: Dopo Genova e Palermo e soprattutto dopo i morti di Reggio Emilia, a Milano, finiti i discorsi davanti alla Camera del Lavoro, ci fu lo s-centro: quando il segretario della CGIL Giovanni Brambilla, del PCI, e Bruno Di Pol, del PSI, dissero «Adesso la manifestazione si scioglie», col cazzo si sciolse. La parola d’ordine fu subito «corteo» e l’obiettivo piazzale Loreto. La polizia si piazzò per bloccare i manifestanti. Lì vidi all’opera gli operai dell’Alfa. Un’organizzazione spaventosa. Due longheroni sotto la jeep, un-due-tre-via: la jeep rovesciata con dentro tutti. Tu sentivi questa conflittualità che c’era alla base, che era fortissima che non perdonava niente, non voleva far passare niente e che però era continuamente repressa dai dirigenti politici e sindacali.

Primo Moroni: È che quando c’erano le notizie dei morti e simili ti partiva la testa e dicevi «Adesso spacchiamo tutto, disciplina di partito un cazzo, mi sono rotto i coglioni, adesso noi andiamo». È vero che dicevano «No, è una provocazione, se fai così…». Mi ricordo che avevamo spogliato un dirigente della polizia, un graduato, in via Larga all’angolo di via Bergamini durante questa manifestazione del luglio ’60, l’abbiamo lasciato in mutande. È arrivato uno della federazione e si è incazzato come una belva: «Ma che cazzo fate?». Allora abbiamo mandato a fare in culo anche lui. Era tutta una rottura, tutta una serie di episodi che ha portato questo gruppone di amici e compagni miei all’uscita dal partito a cui appartenevo: Ardizzone, questa amarezza sul luglio ’60 che non era sfociato in un momento rivoluzionario, questo arrivo dei ceti medi nel partito che si impadronivano secondo noi delle sezioni, alla fine abbiamo dato indietro la tessera tutti. […]


Ivan Della Mea: L’Anna Bianchi non c’entrava un cazzo in tutto questo?

Primo Moroni: L’Anna Bianchi è stata vicina alle Brigate Rosse molto, drammaticamente, con intelligenza, ne ha avuto paura, si è frantumata psicologicamente, è stata male.

Ivan Della Mea: Che fine ha fatto?

Primo Moroni: È tanto tempo che non la vedo, ma, insomma… Allora Sofri dice che bisogna inventare una cosa, allora lì, ragiona…

Ivan Della Mea: E inventa la chiusura.

Primo Moroni: Inventa la chiusura. E come facciamo a inventarla, no?, dobbiamo giustificare, allora lì viene fuori Viale, con la sua freddezza, una testa molto fine, e dice «Perché non diamo via le donne e sciogliamo Lotta Continua sul problema del femminismo?»

Ivan Della Mea: Che va be’, sul tema, poi su questo tema qui, sollevato anni prima in maniera forte da Rostagno, lo avevano mandato a cagare.

Primo Moroni: Lo hanno mandato a cagare, «Tu ti sei bevuto, ti sei fumato il cervello…»

Ivan Della Mea: Esatto.

Primo Moroni: Esatto, ma lì non era crederci, era…

Ivan Della Mea: …era usare lo strumento. Be’, cazzo questi qui non avevano niente di nuovo, erano vecchi, più vecchi di tutti i vecchi dirigenti di qualsiasi PCI.

Primo Moroni: Esatto. Allora io, Sergio e [?], su questo discorso qui: «Per noi è chiusa la riunione, sono cazzi vostri d’organizzazione, a questo livello di volgarità non ci stiamo», e ce ne siamo andati. E così è stato, così è stato. […]

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