Dall’ultimo capitolo di L’alba di tutto,
di David Graeber e David Wengrow
Se c’è un racconto particolare da narrare, una grande domanda da porre sulla storia dell’umanità (al posto del quesito sulle «origini della disuguaglianza sociale»), è proprio questa: come siamo rimasti bloccati in un’unica forma di realtà sociale, e come sono riuscite le relazioni basate sulla violenza e sulla dominazione a normalizzarsi al suo interno?
Forse lo studioso che, nel secolo scorso, si confrontò maggiormente con questo interrogativo fu l’antropologo e poeta Franz Steiner, morto nel 1952. Condusse una vita affascinante anche se tragica. Studioso geniale ed eclettico, nato da genitori ebrei in Boemia, in seguito visse con una famiglia araba a Gerusalemme finché fu espulso dalle autorità britanniche. Condusse un lavoro sul campo nella regione dei Carpazi e per due volte fu costretto dai nazisti a fuggire dal continente, concludendo la sua carriera – in modo abbastanza ironico – nel Sud dell’Inghilterra. Quasi tutti i suoi parenti stretti morirono a Birkenau. Secondo la leggenda, scrisse ottocento pagine di una monumentale dissertazione di dottorato sulla sociologia comparata della schiavitù, per poi vedersi rubare la valigetta con le bozze e gli appunti a bordo di un treno. Fu amico e rivale romantico di Elias Canetti, un altro esule ebreo a Oxford, e corteggiò con successo la scrittrice Iris Murdoch, anche se morì di infarto a quarantatré anni due giorni dopo che la donna ebbe accettato la sua proposta di matrimonio.
La versione più breve della sua tesi di dottorato, che ci è pervenuta, si concentra su quelle che l’autore chiama «istituzioni preservili». È uno studio – toccante, data la biografia di Steiner – su cosa accade in diverse situazioni culturali e storiche alle persone sradicate: coloro che vengono espulsi dal loro clan per debiti o per colpa, naufraghi, criminali, fuggitivi. Si può intendere come una descrizione del modo in cui i rifugiati sono stati dapprima accolti e trattati alla stregua di esseri sacri e poi, a poco a poco, umiliati e sfruttati, come le donne che lavoravano nelle fabbriche dei templi sumeri. In sostanza, la storia raccontata da Steiner sembra riguardare proprio il crollo di quella che denomineremmo la prima libertà fondamentale (andarsene o trasferirsi), e di come questo abbia spianato la strada alla perdita della seconda (la libertà di disobbedire). Ci riconduce anche all’affermazione che abbiamo fatto in precedenza sulla divisione progressiva dell’universo sociale umano in unità sempre più piccole, cominciando dalla comparsa di «aree culturali» (un argomento interessante per gli etnologi della tradizione dell’Europa centrale, dove Steiner ricevette la sua prima formazione).
Cosa succede, chiede Steiner, quando si erodono le aspettative che permettono la libertà di circolazione (le norme dell’ospitalità e dell’asilo politico, della cortesia e del rifugio)? Perché questo fenomeno sembra spesso un catalizzatore di situazioni in cui alcuni possono esercitare un potere arbitrario sugli altri? Steiner analizzò nel dettaglio casi che spaziavano dagli huitoto dell’Amazzonia e dai safwa dell’Africa orientale ai lushai tibeto-birmani. Lungo la strada suggerì una possibile risposta alla domanda che aveva assillato Robert Lowie, e in seguito Clastres: se le società senza Stato si organizzano regolarmente in modo tale che i capi non abbiano alcun potere coercitivo, come fecero le forme di organizzazione verticistiche a vedere la luce? Ricorderete che Lowie e Clastres arrivarono alla stessa conclusione: quelle società dovevano essere state il prodotto della rivelazione religiosa. Steiner indica un percorso alternativo. Forse, ipotizza, si riduce tutto alla beneficenza.
Nelle società amazzoniche, non solo gli orfani ma anche le vedove, i pazzi, i disabili e i deformi – se non avevano nessun altro che si prendesse cura di loro – potevano rifugiarsi nella residenza del capo, dove ricevevano una parte dei pasti comunitari. A queste categorie si aggiungevano, di tanto in tanto, i prigionieri di guerra, soprattutto bambini catturati durante le razzie. Tra i safwa e i lushai, fuggitivi, debitori, criminali e altri individui bisognosi di protezione detenevano lo stesso status di coloro che si erano arresi in battaglia. Diventavano membri del seguito del capo, e i maschi più giovani assumevano spesso il ruolo di tutori dell’ordine simili a poliziotti. Il potere che il capo aveva sui membri del suo seguito – Steiner usa il termine potestas, ripreso dal diritto romano e indicante, tra le altre cose, il potere paterno di controllo arbitrario sulle persone a proprio carico e sulla loro proprietà – variava a seconda di quanto fosse facile per i protetti fuggire e trovare rifugio altrove, o conservare almeno alcuni legami con parenti, clan o estranei disposti a prendere le loro parti. Variava anche la misura in cui si poteva essere sicuri che questi tirapiedi mettessero in pratica la volontà del capo, ma a contare era la semplice minaccia che lo facessero.
In tutti questi casi, il processo di offrire un rifugio ai più sfortunati condusse alla trasformazione di ordinamenti domestici fondamentali, soprattutto tramite l’integrazione delle donne, consolidando ulteriormente la potestas dei padri. È possibile rilevare alcuni aspetti di questa logica in quasi tutte le corti reali storicamente documentate, che attiravano sempre persone considerate bizzarre o solitarie. Sembra che, dalla Cina alle Ande, non ci sia stata nemmeno una regione al mondo dove le società di corte non ospitassero individui particolari, e che pochissimi monarchi non abbiano dichiarato di essere anche i protettori di vedove e orfani. Si potrebbe immaginare che qualcosa di analogo fosse già accaduto in certe comunità di cacciatori-raccoglitori in periodi storici molto più antichi. Anche gli individui con anomalie fisiche che ricevettero sfarzose sepolture durante l’ultima era glaciale devono essere stati oggetto di molte premure affettuose mentre erano in vita. Senza dubbio ci sono sequenze di sviluppo che collegano simili pratiche alle successive corti reali – ne abbiamo intraviste alcune, per esempio nell’Egitto predinastico –, anche se non siamo ancora in grado di ricostruire buona parte dei nessi.
Forse Steiner non mise la questione in primo piano, ma le sue osservazioni concernono direttamente i dibattiti sulle origini del patriarcato. Gli antropologi femministi si esprimono da tempo a favore di un legame tra violenza esterna (perlopiù maschile) e trasformazione dello status femminile tra le mura domestiche. In termini archeologici e storici, stiamo solo iniziando a raccogliere materiale sufficiente per comprendere il vero funzionamento di questo processo.