L’ultimo capitolo di “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow

Da L’alba di tutto, di David Graeber e David Wengrow

12
Conclusione
L’alba di ogni cosa

Questo libro è iniziato con un appello a porre domande più efficaci. Abbiamo cominciato osservando che indagare sulle origini della disuguaglianza significa necessariamente creare un mito, una caduta in disgrazia, una trasposizione dei primi capitoli della Genesi, che nelle versioni contemporanee prende la forma di una narrazione mitica, spogliata di qualunque prospettiva di redenzione. In questi resoconti, il massimo che noi esseri umani possiamo augurarci è qualche piccolo miglioramento della nostra condizione intrinsecamente squallida e, si spera, un’azione drastica per impedire qualsiasi imminente disastro assoluto. L’unica altra teoria disponibile finora è l’ipotesi che la disuguaglianza non abbia origini, perché gli esseri umani sono, per natura, creature aggressive e i nostri esordi furono infelici e violenti; nel qual caso il «progresso» o la «civiltà», stimolati in gran parte dalla nostra indole egoista e competitiva, furono essi stessi capaci di redenzione. Questa idea gode dell’approvazione dei miliardari, ma non convince nessun altro, compresi gli scienziati, consapevoli che non rispecchia i fatti.

Non ci sorprende, forse, che la maggior parte delle persone provi un’affinità spontanea con la versione tragica della storia, e non solo per le sue radici bibliche. La narrazione più rosea e ottimistica – dove inevitabilmente il progresso della civiltà occidentale rende tutti più felici, più ricchi e più protetti – ha almeno uno svantaggio palese: non riesce a spiegare perché la civiltà non si sia semplicemente diffusa di propria iniziativa, cioè perché le potenze europee abbiano dovuto passare gli ultimi cinquecento anni puntando pistole alla tempia delle persone per costringerle ad accettarla (e nemmeno perché, se trovarsi in uno stato «selvaggio» era una condizione tanto infelice, moltissimi di quegli stessi occidentali, potendo scegliere con cognizione di causa, fossero così impazienti di abbracciarla alla prima occasione). Nel XIX secolo, all’apice dell’imperialismo europeo, tutti parevano essersene resi conto. Anche se ricordiamo quell’epoca come un periodo di cieca fede nell’«inevitabile avanzata del progresso», il progresso liberale di stampo turgotiano non fu mai, in realtà, la narrazione dominante della teoria sociale vittoriana, né tantomeno del pensiero politico di quel tempo.

Anzi, gli statisti e gli intellettuali europei contemporanei avevano le stesse probabilità di lasciarsi ossessionare dai rischi della decadenza e della disintegrazione. Molti erano razzisti dichiarati, convinti che pochissimi esseri umani fossero capaci di progresso, e pertanto ansiosi di assistere al loro sterminio fisico. Anche coloro che non condividevano queste idee tendevano a pensare che i progetti illuministi per migliorare la condizione umana fossero stati tanto ingenui da aver avuto effetti catastrofici. La teoria sociale come la conosciamo oggi scaturì perlopiù dalle file di questi pensatori reazionari che, guardando indietro verso le turbolente ripercussioni della Rivoluzione francese, erano meno interessati a esaminare le atrocità inflitte ai popoli d’oltreoceano che a incoraggiare sofferenze e disordini pubblici in patria. Di conseguenza, le scienze sociali furono concepite e organizzate intorno a due quesiti principali: (1) cos’era andato storto nel progetto illuminista, nella fusione del progresso scientifico e morale e nei piani per il miglioramento della società umana? (2) Perché i tentativi di risolvere i problemi della società, basati sulle buone intenzioni, finivano molto spesso per peggiorare le cose?

Perché, si domandavano questi conservatori, i rivoluzionari illuministi avevano avuto tante difficoltà a mettere in pratica le proprie idee? Perché non eravamo riusciti a immaginare un ordinamento sociale più razionale e poi a promulgare leggi per la sua creazione? Perché la passione per la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza aveva finito per produrre il Terrore? Dovevano esserci delle ragioni nascoste.

Se non altro, questi interrogativi aiutano a spiegare la costante popolarità di Jean-Jacques Rousseau, un musicista svizzero del XVIII secolo che per il resto non riscosse particolare successo. Coloro a cui stava a cuore soprattutto la prima domanda lo consideravano il primo ad averla formulata in modo squisitamente moderno. Coloro che erano interessati principalmente alla seconda riuscirono a rappresentarlo come il non plus ultra del cattivo incompetente, un rivoluzionario sprovveduto, convinto che l’ordine costituito, essendo irrazionale, si potesse ignorare. Molti ritenevano Rousseau personalmente responsabile della ghigliottina. Oggi, invece, pochi leggono i «tradizionalisti» del XIX secolo, ma questi ultimi sono importanti perché sono loro, e non i philosophes dell’Illuminismo, i veri creatori della teoria sociale moderna. Si riconosce da tempo che i grandi temi dell’odierna scienza sociale – tradizione, solidarietà, autorità, status, alienazione, il sacro – furono toccati per la prima volta nelle opere di uomini come il teocratico visconte de Bonald, il monarchico conte de Maistre o il filosofo e politico whig Edmund Burke, come esempi del tipo di ostinate realtà sociali che, secondo questi autori, i pensatori illuministi, e Rousseau in particolare, si erano rifiutati di prendere sul serio, con (insistevano) risultati disastrosi.

Questi dibattiti del XIX secolo tra radicali e reazionari non si sono mai placati e continuano a riaffiorare in forme diverse. Oggi, per esempio, i sostenitori della destra si percepiscono perlopiù come i difensori dei valori illuministi, e quelli della sinistra come i loro critici più severi. Durante lo scontro, tuttavia, le parti hanno trovato un accordo su un punto chiave: il cosiddetto «Illuminismo» esistette davvero, segnò una rottura fondamentale nella storia dell’umanità e le rivoluzioni americana e francese furono, in un certo senso, il risultato di questa spaccatura. Si ritiene che l’Illuminismo abbia introdotto una possibilità prima inesistente: quella di elaborare progetti autocoscienti per rimodellare la società secondo un ideale razionale. La possibilità dell’autentica politica rivoluzionaria, insomma. Ovviamente le insurrezioni e i movimenti visionari erano esistiti già prima del XVIII secolo, è innegabile. Ora, però, questi movimenti sociali preilluministi si potevano etichettare come pretese di un ritorno a certi «modi antichi» (spesso inventati di sana pianta) o come espressione della convinzione di agire secondo una visione ispirata da Dio (o dal suo equivalente locale).

Le società preilluministe, o almeno così sostiene questa tesi, erano organizzazioni «tradizionali» fondate sulla comunità, sullo status, sull’autorità e sul sacro. Si trattava di società in cui gli esseri umani non agivano per se stessi, singolarmente o collettivamente. Piuttosto, erano schiavi delle usanze o, tutt’al più, agenti di forze sociali inesorabili che venivano proiettati nel cosmo sotto forma di dèi, antenati o altre entità soprannaturali. Si presumeva che solo le persone moderne, i postilluministi, avessero la capacità di intervenire in modo autocosciente nella storia e di cambiarne il corso; d’un tratto tutti parvero essere d’accordo su questo punto, a prescindere da quanti dubbi potessero avere.

Tutto ciò potrebbe sembrare ridicolo, e solo una minoranza di autori era disposta a esprimersi senza mezzi termini, mentre la maggior parte dei pensatori moderni trovava quantomeno bizzarro attribuire progetti sociali autocoscienti o ambizioni storiche a persone appartenenti a epoche precedenti. In genere, questi individui «non moderni» erano considerati troppo ingenui (perché non avevano raggiunto la «complessità sociale»), oppure si pensava che vivessero in una sorta di mondo ideale mistico o, nella migliore delle ipotesi, che si fossero semplicemente adattatati all’ambiente con un adeguato livello tecnologico. Qui, bisogna ammetterlo, l’antropologia non ha svolto un ruolo determinante.

Per buona parte del XX secolo, gli antropologi tesero a descrivere le società in termini astorici, come se esistessero in una sorta di eterno presente. Questo fu un effetto del periodo coloniale, in cui si effettuarono molte ricerche etnografiche. L’impero britannico, per esempio, mantenne un sistema di governo indiretto in varie parti dell’Africa, dell’India e del Medio Oriente, dove istituzioni locali come le corti reali, i templi di terra, le associazioni degli anziani dei clan, le case degli uomini eccetera furono conservate, anzi regolamentate tramite una legislazione. I drastici cambiamenti politici – fondare un partito, per esempio, o guidare un movimento profetico – erano invece illegali, e chiunque provasse a fare qualcosa del genere spesso finiva in carcere. Com’è ovvio, questo rendeva più facile definire i popoli che gli antropologi stavano studiando come gruppi caratterizzati da uno stile di vita atemporale e immutabile.

Siccome gli eventi storici sono imprevedibili per definizione, pareva più scientifico studiare i fenomeni che invece si potevano prevedere: le cose che continuavano ad accadere, di volta in volta, più o meno nello stesso modo. In un villaggio senegalese o birmano, ciò poteva significare descrivere la routine giornaliera, i cicli stagionali, i riti di passaggio, i criteri di successione dinastica o la crescita e la divisione dei centri abitati, sempre mettendo in rilievo come la stessa struttura avesse resistito al passare del tempo. Gli antropologi scrivevano così perché si reputavano scienziati («struttural-funzionalisti», nel gergo dell’epoca), dunque facilitavano ai lettori il compito di immaginare che i popoli presi in esame fossero l’opposto, cioè che fossero intrappolati in un universo mitologico dove nulla cambiava e dove accadevano pochissimi eventi. Quando Mircea Eliade, l’illustre storico delle religioni rumeno, sostiene che le società «tradizionali» vivevano in un «tempo ciclico», isolate dalla storia, trae semplicemente la conclusione più ovvia. A dire il vero, si spinge ancora più in là.

Nelle società tradizionali, secondo Eliade, tutti gli eventi importanti erano già accaduti. I grandi gesti fondanti risalgono a tempi mitici, all’illo tempore,1 all’alba di ogni cosa, quando gli animali sapevano parlare e trasformarsi in esseri umani, quando il cielo e la terra non erano ancora separati ed era possibile creare cose veramente nuove (il matrimonio, la gastronomia o la guerra). Gli abitanti di questo mondo mentale, aggiunge Eliade, pensavano che le loro azioni si limitassero a ripetere i gesti creativi degli dèi e degli antenati in modi meno potenti, oppure a invocare i poteri primordiali attraverso il rituale. Secondo lo studioso, gli eventi storici tendevano così a fondersi in archetipi. Se qualcuno, in quella che Eliade considera una società tradizionale, fa qualcosa di straordinario – fonda o distrugge una città, compone un brano musicale unico –, alla fine il gesto smetterà in ogni caso di essere attribuito a una figura mitica. L’idea alternativa, quella secondo cui la storia sta andando da qualche parte (gli ultimi giorni, il giorno del giudizio, la redenzione) è ciò che Eliade denomina «tempo lineare», dove gli eventi storici acquisiscono significato non solo in relazione al passato, ma anche al futuro.

Questa concezione «lineare» del tempo, insiste lo storico, è un’innovazione abbastanza recente del pensiero umano, accompagnata da catastrofiche conseguenze sociali e psicologiche. A suo parere, sposare la tesi secondo cui gli eventi si dipanano in sequenze cumulative, anziché ricapitolare uno schema più profondo, ci ha resi meno capaci di affrontare le traversie della guerra, dell’ingiustizia e della sfortuna, gettandoci invece in un’età di ansia senza precedenti e, a lungo andare, di nichilismo. Le implicazioni politiche di questa posizione erano a dir poco inquietanti. Da studente, Eliade era stato vicino alla Guardia di ferro fascista e, secondo la sua argomentazione di base, il «terrore della storia» (come talvolta lo chiamava) era stato introdotto dall’ebraismo e dal Vecchio testamento, che a suo giudizio avevano spianato la strada per gli ulteriori disastri del pensiero illuminista. Essendo ebrei, gli autori di questo volume non sono molto felici di essere in qualche modo incolpati di tutto ciò che è andato storto nella storia. Ai nostri fini, tuttavia, il fatto sorprendente è che qualcuno abbia mai preso sul serio questo tipo di tesi.

Immaginate di applicare la distinzione, proposta da Eliade, tra società «storiche» e «tradizionali» all’intero passato umano, sulla scala che abbiamo coperto nei capitoli precedenti. Questo non dovrebbe forse significare che le grandi scoperte della storia – per esempio, la prima tessitura delle stoffe, le prime navigazioni sull’oceano Pacifico o l’invenzione della metallurgia – furono fatte da persone che non credevano nella scoperta o nella storia? Sembra inverosimile. L’unica alternativa sarebbe obiettare che, in molti casi, le società umane diventarono «tradizionali» solo in tempi più recenti. Alla fine, forse, trovarono ciascuna una condizione di equilibrio, si adattarono e idearono un impianto ideologico condiviso per giustificare la nuova situazione. Questo vorrebbe dire che ci fu davvero una sorta di illo tempore precedente o un momento della creazione in cui tutti gli esseri umani erano in grado di pensare e agire nei modi creativi che consideriamo moderni; in quest’ottica, una delle principali conquiste fu trovare un metodo per abolire le future prospettive di innovazione.

Entrambe le posizioni sono palesemente assurde.

 

Perché abbiamo queste idee? Perché sembra tanto curioso, se non addirittura controintuitivo, immaginare che le persone vissute nel passato più remoto si siano costruite una storia tutta loro (anche se non in condizioni di loro scelta)? Senza dubbio la risposta è racchiusa nel modo in cui siamo arrivati a definire la scienza in generale, e la scienza sociale in particolare.

La scienza sociale è perlopiù uno studio dei modi in cui gli esseri umani non sono liberi, delle ragioni per cui si potrebbe affermare che le nostre azioni e interpretazioni sono determinate da forze al di fuori del nostro controllo. Qualunque resoconto sembri mostrare gli esseri umani che plasmano collettivamente il proprio destino, o anche solo che esprimono la libertà fine a se stessa, è destinato a essere etichettato come «illusorio», in attesa di una «vera» spiegazione scientifica, oppure, se quest’ultima non è disponibile (perché le persone danzano?), come estraneo all’ambito della teoria sociale. Questo è uno dei motivi per cui quasi tutte le «grandi storie» mettono l’accento sulla tecnologia. Suddividendo il passato dell’umanità in base al materiale primario da cui si ricavavano armi e utensili (età della Pietra, età del Bronzo, età del Ferro) o descrivendolo come una serie di progressi rivoluzionari (rivoluzione agricola, rivoluzione urbana, Rivoluzione industriale), queste versioni danno per scontato che siano state soprattutto le tecnologie a determinare la forma assunta da quelle società nei secoli successivi, o almeno finché un altro progresso improvviso e inaspettato non intervenne a cambiare di nuovo le cose.

Orbene, non vogliamo negare che le tecnologie abbiano un ruolo cruciale nel plasmare la società. Ovviamente sono fondamentali, perché ciascuna nuova invenzione offre possibilità sociali che prima non esistevano. Allo stesso tempo, è molto facile ingigantire l’importanza che rivestono nella direzione generale del cambiamento sociale. Per fare un esempio lampante, il fatto che gli abitanti di Teotihuacán o i tlaxcaltechi usassero utensili di pietra per costruire le loro città, mentre le popolazioni di Mohenjo-daro e di Cnosso preferivano gli strumenti di metallo, sembra aver fatto pochissima differenza per l’organizzazione interna e le dimensioni di quelle città. Le prove non confermano neppure l’idea che le grandi innovazioni si verifichino sempre in improvvisi scatti rivoluzionari, trasformando ogni cosa da quel momento in poi (questo, come ricorderete, è uno dei punti principali emersi dai due capitoli che abbiamo dedicato alle origini dell’agricoltura).

Nessuno, naturalmente, sostiene che gli esordi dell’agricoltura siano simili, per esempio, all’invenzione del telaio a vapore o della lampadina elettrica. Possiamo essere abbastanza certi che non ci sia stato un equivalente neolitico di Edmund Cartwright o di Thomas Edison, un individuo che abbia avuto una folgorazione capace di mettere in moto ogni cosa. Eppure, spesso gli autori contemporanei sembrano avere qualche difficoltà a resistere alla tentazione di credere che debba essersi verificata un’analoga drastica rottura con il passato. In realtà, come abbiamo visto, non ebbe luogo nulla del genere. Invece di un genio maschile impegnato a realizzare la propria visione solitaria, nelle società neolitiche l’innovazione si basava su un corpus collettivo di conoscenze accumulate nei secoli, perlopiù dalle donne, in un’infinita serie di scoperte apparentemente umili ma molto significative. Molte di quelle scoperte neolitiche ebbero l’effetto cumulativo di rimodellare la vita di tutti i giorni con la stessa intensità del telaio automatico o della lampadina.

Ogni volta che ci sediamo a fare colazione, probabilmente sfruttiamo una decina di queste invenzioni preistoriche. Chi fu il primo a capire che si poteva far gonfiare il pane con l’aggiunta dei microorganismi che chiamiamo lieviti? Non ne abbiamo idea, ma possiamo essere quasi sicuri che fosse una donna e che molto probabilmente non verrebbe considerata «bianca» se oggi provasse a immigrare in un Paese europeo; e indubbiamente sappiamo che la sua scoperta continua ad arricchire la vita di miliardi di persone. Sappiamo anche che simili scoperte si basavano, ancora una volta, su secoli di conoscenze accumulate e di sperimentazione – si ricordi come i principi fondamentali dell’agricoltura fossero noti molto prima che qualcuno li applicasse in modo sistematico – e che i risultati di questi esperimenti venivano spesso custoditi e tramandati attraverso rituali, giochi e forme di attività ludica (o ancora di più, forse, attraverso la combinazione di tutte e tre le cose).

Qui i «giardini di Adone» sono un simbolo idoneo. All’inizio le conoscenze sulle proprietà nutritive e sui cicli di crescita di quelle che in seguito sarebbero diventate colture di base – frumento, riso, mais –, in grado di sfamare vaste popolazioni, furono conservate proprio attraverso un’agricoltura «per gioco» di questo tipo. Né questo schema di scoperta fu limitato alle colture. Le ceramiche furono inventate, molto prima del Neolitico, per creare statuine, modelli in miniatura di animali e altri soggetti, e solo in seguito recipienti per la cottura e la conservazione. L’estrazione è attestata per la prima volta come metodo di reperimento dei minerali da usare a mo’ di pigmenti, con l’avvento molto più tardo dell’estrazione dei metalli a uso industriale. Le società mesoamericane non usarono mai il trasporto su ruote, ma sappiamo che avevano dimestichezza con raggi, ruote e assi perché costruivano versioni giocattolo di questi oggetti per i bambini. Gli scienziati greci sono famosi per aver intuito il principio della locomotiva a vapore, ma lo sfruttarono solo per fabbricare porte che parevano aprirsi da sole o per analoghe illusioni teatrali. Gli scienziati cinesi sono altrettanto famosi perché utilizzarono per la prima volta la polvere da sparo per i fuochi d’artificio.

Per buona parte della storia, dunque, la zona del gioco rituale costituì sia un laboratorio sia, per ogni data società, un bagaglio di conoscenze e di tecniche da applicare o meno ai problemi pratici. Si ricordi, per esempio, i «piccoli uomini vecchi» degli osage e il modo in cui unirono la ricerca e la speculazione sui principi della natura alla gestione e alla riforma periodica dell’ordinamento costituzionale, considerandole in sostanza lo stesso progetto e tenendo meticolosi registri (orali) delle deliberazioni. La città neolitica di Çatalhöyük e i megasiti di Tripillia ospitavano forse analoghi collegi di «piccole donne vecchie»? Non possiamo saperlo per certo, ma ci sembra molto plausibile, dati i ritmi condivisi dell’innovazione sociale e tecnica che osserviamo in ciascun caso e l’attenzione ai temi femminili nell’arte e nei rituali. Se stiamo cercando di individuare domande più interessanti da fare alla storia, la prima potrebbe essere: esiste una correlazione positiva tra ciò che di solito si chiama «parità di genere» (forse sarebbe più indicato dire «libertà delle donne») e il grado di innovazione di una data società?

Scegliere di descrivere la storia al contrario, come una serie di brusche rivoluzioni tecnologiche, seguite ciascuna da lunghi periodi in cui siamo stati prigionieri delle nostre creazioni, ha le sue conseguenze. È un modo per rappresentare la nostra specie come molto meno premurosa, creativa e libera di quanto abbiamo dimostrato di essere in realtà. Equivale a non raccontare la storia come una serie ininterrotta di nuove idee e innovazioni, siano esse tecniche o di altro tipo, un processo durante il quale diverse comunità decisero collettivamente quali tecnologie fossero adatte agli scopi quotidiani e quali andassero limitate all’ambito della sperimentazione o del gioco rituale. Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora di più per la creatività sociale. Uno degli schemi più sorprendenti che abbiamo scoperto mentre effettuavamo le ricerche per questo libro – anzi, uno degli schemi che secondo noi assomigliano di più a un vero progresso – è il modo in cui di volta in volta, nella storia dell’umanità, quella zona di gioco rituale ha funto anche da sede di sperimentazione sociale, se non addirittura, per certi versi, da enciclopedia di possibilità sociali.

Non siamo i primi a suggerirlo. Alla metà del XX secolo, l’antropologo britannico A.M. Hocart ipotizzò che la monarchia e le istituzioni governative fossero scaturite da rituali studiati per incanalare le energie della vita dal cosmo verso la società umana. A un certo punto disse persino che «i primi re devono essere stati re morti»2 e che gli individui oggetto di questo onore erano diventati sovrani sacri solo al proprio funerale. Hocart, considerato dai colleghi un tipo strambo, non riuscì mai a ottenere una cattedra permanente in un’università prestigiosa. Molti lo accusarono di essere ascientifico, di dedicarsi solo a speculazioni oziose. Ironicamente, come abbiamo visto, sono i risultati della contemporanea scienza archeologica che ora ci costringono a prendere sul serio le sue speculazioni. Con stupore di molti, ma in gran parte come aveva previsto Hocart, il Paleolitico superiore ci ha dato prove di sepolture sfarzose, meticolosamente messe in scena per individui che paiono aver attirato ricchezze e onori spettacolari, soprattutto dopo la morte.

Il principio non si applica solo alla monarchia o all’aristocrazia, ma anche ad altre istituzioni. Abbiamo sostenuto la tesi per cui il concetto di proprietà privata, come anche le funzioni di polizia e il potere di comando, compaiono per la prima volta in contesti sacri, accompagnate (in un momento successivo) da un’intera panoplia di procedure democratiche formali, come l’elezione e l’estrazione a sorte, che alla fine furono utilizzate per limitare questi poteri.

È qui che le cose si complicano. Dire che, per gran parte della storia dell’umanità, l’anno rituale fungeva da compendio delle possibilità sociali (come accadeva nel Medioevo europeo, per esempio, quando gli spettacoli gerarchici si alternavano con carnevali turbolenti) non rende giustizia all’argomento. Questo perché le feste vengono già viste come straordinarie e quasi irreali, o almeno come deviazioni dall’ordine quotidiano, mentre in realtà le prove pervenuteci dalle epoche paleolitiche in poi indicano che molte persone – forse la maggioranza – non si limitavano a immaginare o a mettere in atto ordinamenti sociali diversi in periodi diversi dell’anno, ma vivevano al loro interno per lunghi lassi di tempo. Il contrasto con la situazione attuale non potrebbe essere più marcato. Oggi la maggior parte di noi trova sempre più difficile anche solo immaginare come si presenterebbe un ordinamento economico o sociale alternativo. I nostri lontani antenati sembrano invece aver oscillato regolarmente tra essi.

Se qualcosa è andato storto nella storia dell’umanità – e dato l’attuale stato del mondo è difficile negarlo –, forse prese a farlo proprio quando gli uomini persero la libertà di immaginare e di attuare altre forme di esistenza sociale, al punto che ora alcuni ritengono che questo particolare tipo di libertà non ci sia mai stato, o non sia mai stato esercitato, per quasi tutta la storia dell’umanità. Anche i pochi antropologi che, come Pierre Clastres e poi Christopher Boehm, sono convinti che gli esseri umani siano sempre stati capaci di immaginare possibilità sociali alternative arrivano alla conclusione, peraltro piuttosto curiosa, che per il 95 per cento circa della storia della nostra specie quegli stessi individui fuggirono inorriditi da tutti i mondi sociali possibili tranne uno: la società di uguali su piccola scala. I nostri unici sogni erano incubi: terribili visioni di gerarchia, dominazione e Stato. In realtà, come abbiamo visto, non è così.

L’esempio delle società delle Foreste orientali in Nordamerica, esaminato nell’ultimo capitolo, indica un modo più utile per inquadrare il problema. Potremmo chiederci perché gli antenati di quelle persone siano riusciti a voltare le spalle all’eredità di Cahokia, con i suoi arroganti signori e sacerdoti, e a riorganizzarsi in repubbliche libere, mentre quando i loro interlocutori francesi provarono, di fatto, a seguirne l’esempio e a sbarazzarsi delle proprie antiche gerarchie, il risultato fu disastroso. Senza dubbio ci sono diverse ragioni ma, per noi, il punto essenziale da ricordare è che qui non stiamo parlando di «libertà» come ideale astratto o principio formale (come in «libertà, uguaglianza, fratellanza»).3 In questi capitoli abbiamo discusso invece di forme fondamentali di libertà sociale che si possono davvero mettere in pratica: (1) la libertà di allontanarsi dal proprio ambiente o di trasferirsi; (2) la libertà di ignorare gli ordini impartiti da altri o di disobbedire; e (3) la libertà di plasmare realtà sociali inedite o di oscillare tra situazioni diverse.

Ora vediamo come le prime due libertà – quella di trasferirsi e quella di disobbedire agli ordini – abbiano funto spesso da impalcatura per la terza, che è più creativa. Spieghiamo come funziona questa «ossatura» della terza libertà. Finché le prime due furono date per scontate, come accadeva in molte società nordamericane quando gli europei le incontrarono per la prima volta, gli unici re che potevano esistere erano sempre, in ultima istanza, re «per gioco». Se superavano il limite, gli ex sudditi potevano sempre ignorarli o trasferirsi altrove. Lo stesso valeva per qualunque altra gerarchia di cariche o sistema di autorità. Analogamente, una forza di polizia che operava solo tre mesi l’anno e i cui membri si avvicendavano a cadenza annuale era, in un certo senso, una forza di polizia «per gioco», cosa che fa apparire un po’ meno bizzarro il fatto che talvolta gli agenti venissero reclutati tra le file dei buffoni impiegati nei rituali.4

È chiaro che qui si è verificato un cambiamento molto profondo nelle società umane. Le tre libertà fondamentali sono venute meno a poco a poco, tanto che oggi la maggior parte delle persone non riesce a immaginare come sarebbe vivere in un ordinamento sociale basato su di esse.

Com’è successo? Come abbiamo fatto a restare bloccati? E fino a che punto lo siamo davvero?

 

«Non c’è modo di uscire dall’ordine costituito immaginario» scrive Yuval Noah Harari in Sapiens. «Quando noi abbattiamo le mura della nostra prigione e corriamo verso la libertà, di fatto corriamo verso il cortile di ricreazione più ampio di una prigione più grande.»5 Come abbiamo visto nel primo capitolo, non è l’unico ad arrivare a questa conclusione. Quasi tutti coloro che scrivono la storia su grande scala sembrano aver deciso che, come specie, siamo veramente bloccati, senza via di fuga dalle gabbie costituzionali che ci siamo costruiti. Harari, facendo ancora una volta eco a Rousseau, pare aver captato l’atmosfera prevalente.

Torneremo su questo punto, ma per ora vogliamo soffermarci ancora un po’ sul primo interrogativo: com’è successo? In certa misura, questo quesito è destinato a rimanere oggetto di congetture. Porre le domande giuste può, a lungo andare, affinare la comprensione ma, per il momento, il materiale a nostra disposizione, soprattutto per le fasi iniziali del processo, è ancora troppo frammentario e ambiguo per fornire risposte definitive. Il massimo che possiamo offrire è qualche suggerimento preliminare, o punto di partenza, fondato sulle tesi esposte in questo volume, e forse inizieremo anche a vedere più chiaramente dove altri abbiano sbagliato dai tempi di Rousseau.

Un fattore importante sembrerebbe essere la divisione graduale delle società umane in quelle che a volte vengono chiamate «aree culturali», cioè il processo tramite il quale gruppi vicini cominciarono a definirsi l’uno rispetto all’altro e, di solito, ad amplificare le differenze. L’identità arrivò a essere vista come un valore in sé, capace di mettere in moto processi di schismogenesi culturale. Come abbiamo osservato per i foraggiatori californiani e i loro vicini aristocratici sulla costa nordoccidentale, simili atti di rifiuto culturale potevano rappresentare anche atti autocoscienti di contestazione politica, in grado di segnare il confine (in questo caso) tra società dove la guerra intergruppo, i banchetti competitivi e la schiavitù domestica venivano rifiutati – come nelle aree della California aborigena più vicine alla costa nordoccidentale – e società dove venivano accettati, se non addirittura celebrati, come elementi tipici della vita sociale. Gli archeologi, sposando una visione più ampia, vedono una proliferazione di queste aree culturali regionali, specialmente dalla fine dell’ultima era glaciale in poi, ma spesso non riescono a spiegare come siano comparse o quali siano i confini tra esse.

Tuttavia sembra che sia stato un evento epocale. Si ricordi, per esempio, come i cacciatori-raccoglitori postglaciali, principalmente nelle regioni costiere o boscose, abbiano vissuto una sorta di età dell’oro. A quanto pare, ci furono esperimenti locali di ogni genere, osservabili nella propagazione delle sepolture opulente e dell’architettura monumentale, le cui funzioni sociali continuano a essere un mistero: dagli «anfiteatri» di conchiglie lungo il Golfo del Messico ai grandi depositi di Sannai Maruyama nel Giappone del periodo Jōmon, alle cosiddette «chiese dei giganti» sul Mare di Bothnian. È tra queste popolazioni mesolitiche che non di rado osserviamo non solo la moltiplicazione di aree culturali distinte, ma anche le prime prove archeologiche chiare di comunità divise in gerarchie permanenti, talvolta accompagnate dalla violenza se non addirittura dalla guerra. In alcuni casi, ciò potrebbe aver già comportato la stratificazione delle famiglie in aristocratici, comuni cittadini e schiavi. In altri, è possibile che abbiano preso piede forme molto diverse di gerarchia, alcune delle quali sembrano essersi radicate stabilmente.

Qui il ruolo della guerra giustifica un’ulteriore discussione, perché la violenza è spesso la strada attraverso la quale le forme di gioco acquisiscono caratteristiche più durature. Per esempio, i regni dei natchez o degli shilluk potrebbero essere stati impianti perlopiù teatrali, con sovrani incapaci di dare ordini a cui qualcuno avrebbe obbedito anche solo a due o tre chilometri di distanza ma, se una persona veniva uccisa arbitrariamente durante una rappresentazione teatrale, restava morta anche dopo la fine dello spettacolo. È un’osservazione quasi assurda, ma ha il suo peso. I re «per gioco» smettono di essere tali proprio quando iniziano a uccidere le persone, il che forse ci aiuta a spiegare anche gli eccessi della violenza sancita ritualmente, emersa in molti casi durante le transizioni da uno Stato all’altro. Lo stesso dicasi per la guerra. Come sottolinea Elaine Scarry, due comunità possono scegliere di risolvere una disputa partecipando a una gara, e lo fanno di frequente, ma la differenza ultima tra la guerra (o «competizioni di ferimento», come le definisce) e gli altri tipi di sfide è che le persone uccise o sfigurate durante la guerra rimangono tali anche dopo la fine degli scontri.6

Però dobbiamo essere cauti. Benché gli esseri umani siano sempre stati in grado di aggredirsi fisicamente (è difficile trovare esempi di società in cui nessuno aggredisce mai nessun altro, in nessun caso), non ci sono ragioni valide per pensare che la guerra sia sempre esistita. Tecnicamente, non è solo una violenza organizzata, ma anche una sorta di gara tra due schieramenti ben delineati. Come giustamente osserva Raymond Kelly, si fonda su un principio logico che non è affatto naturale o ovvio, secondo cui la violenza sfrenata prevede la presenza di due squadre e ciascun membro di una squadra tratta tutti quelli dell’altra come bersagli identici. Kelly lo chiama il principio di «sostituibilità sociale», cioè se un Hatfield uccide un McCoy e i McCoy si vendicano, non se la prendono necessariamente con l’assassino; qualunque Hatfield è un possibile capro espiatorio. Allo stesso modo, se scoppia una guerra tra Francia e Germania, qualunque soldato francese può ucciderne uno tedesco, e viceversa. Lo sterminio di intere popolazioni è soltanto l’estensione di questa stessa logica. Non c’è nulla di prettamente primordiale negli assetti di questo tipo; certo, non abbiamo ragione di credere che siano, per così dire, innati nella psiche umana. Al contrario, spesso è necessario utilizzare una combinazione di rituali, sostanze stupefacenti e tecniche psicologiche per convincere le persone, anche i maschi adolescenti, a uccidersi e ferirsi a vicenda in modo sistematico ma indiscriminato.

Parrebbe che, per buona parte della storia dell’umanità, nessuno o quasi abbia avuto motivo di fare cose di questo genere. Gli studi sistematici delle testimonianze paleolitiche forniscono poche prove di guerra in questo senso specifico.8 Inoltre, siccome la guerra era sempre una sorta di gioco, non ci sorprende che si sia manifestata in variazioni ora teatrali, ora mortali. L’etnografia contiene molti esempi di quella che si potrebbe definire più precisamente una guerra «per gioco», con armi non letali o, più spesso, con battaglie tra migliaia di persone, dove il numero di vittime dopo un giorno di «combattimento» ammonta forse a due o tre. Anche nella guerra di stampo omerico, i partecipanti erano presenti perlopiù come spettatori, mentre i singoli eroi si sbeffeggiavano, si deridevano e talvolta lanciavano giavellotti o scoccavano frecce l’uno contro l’altro, oppure si sfidavano a duello. All’estremo opposto, come abbiamo visto, c’è una crescente quantità di prove archeologiche di veri e propri massacri, come quelli che ebbero luogo tra gli abitanti dei villaggi neolitici nell’Europa centrale dopo la fine dell’ultima era glaciale.

A colpirci è proprio l’eterogeneità di questi reperti. Periodi di intensa violenza intergruppo si alternano a periodi di pace, spesso durati secoli, nei quali non c’è alcuna prova di conflitti distruttivi di nessun genere. La guerra non diventò una costante della vita umana dopo l’adozione dell’agricoltura, anzi esistono lunghi lassi di tempo in cui sembra essere stata abolita. Tuttavia aveva l’ostinata tendenza a ricomparire, anche se a distanza di molte generazioni. A questo punto emerge una nuova questione. C’era forse una relazione tra la guerra esterna e la perdita interna delle libertà che spianò la strada prima a sistemi di gerarchia e poi a sistemi di dominazione su grande scala, come quelli descritti nei capitoli successivi di questo libro, cioè i primi regni e imperi dinastici, come quelli dei maya, degli Shang e degli inca? E se sì, fino a che punto questa correlazione era diretta? Una cosa che abbiamo imparato è che è sbagliato rispondere a queste domande ipotizzando che queste entità politiche antiche fossero semplici versioni arcaiche degli Stati moderni.

Lo Stato come lo conosciamo oggi deriva da una combinazione ben precisa di elementi – sovranità, burocrazia e politica competitiva – che hanno origini distinte. Nel nostro esperimento mentale di due capitoli fa, abbiamo dimostrato come quegli elementi riflettano direttamente le forme fondamentali di potere sociale che possono operare a qualunque livello di interazione umana, dalla famiglia o dalla casa fino all’impero romano o al super-regno di Tawantinsuyu. Sovranità, burocrazia e politica sono amplificazioni di tipi elementari di dominazione, fondate rispettivamente sull’uso della violenza, della conoscenza e del carisma. Spesso gli antichi sistemi politici – in special modo quelli che, come gli olmechi o Chavín de Huántar, non si possono definire «domini» né «Stati» – si comprendono meglio osservando come abbiano sviluppato soprattutto un determinato asse di potere sociale (per esempio, confronti politici carismatici e spettacoli nel caso degli olmechi, o il controllo delle conoscenze esoteriche a Chavín). Sono quelli che abbiamo denominato «regimi di primo ordine».

Dove due assi di potere furono sviluppati e formalizzati in un unico sistema di dominazione, possiamo cominciare a parlare di «regimi di secondo ordine». Gli architetti dell’Antico regno egizio, per esempio, combinarono il principio della sovranità con la burocrazia e lo estesero a un vasto territorio. Invece i sovrani delle antiche città-Stato mesopotamiche non fecero rivendicazioni dirette sulla sovranità, che per loro aveva sede in cielo. Quando combattevano guerre per la terra o i sistemi di irrigazione, lo facevano come agenti secondari degli dèi, preferendo unire la competizione carismatica a un ordinamento amministrativo altamente sviluppato. I maya classici erano ancora diversi, inclini a limitare le attività amministrative al monitoraggio delle vicende cosmiche e, allo stesso tempo, a basare il potere terreno su un’efficace fusione di sovranità e politica interdinastica.

Sebbene queste e altre realtà politiche generalmente considerate «primi Stati» (la Cina degli Shang, per esempio) condividano alcune caratteristiche comuni, sembrano concentrarsi in aree molto diverse, il che ci riporta alla questione della guerra e alla perdita delle libertà all’interno della società. Tutte utilizzarono la violenza spettacolare al vertice del sistema (a prescindere dal fatto che fosse concepita come estensione diretta della sovranità reale o attuata per ordine delle divinità) e, in certa misura, tutte plasmarono i propri centri di potere – la corte o il palazzo – intorno all’organizzazione delle famiglie patriarcali. È una semplice coincidenza? Riflettendoci, la stessa combinazione di elementi si può trovare in quasi tutti i regni o gli imperi successivi, come quelli degli Han, degli aztechi o dei romani. In ciascun caso c’era uno stretto legame tra la famiglia patriarcale e la forza militare. Ma perché, esattamente, dovrebbe essere così?

È difficile rispondere a questa domanda se non in termini superficiali, in parte perché le nostre tradizioni intellettuali ci costringono a usare quello che, di fatto, è un linguaggio imperialista, e quest’ultimo contiene già una spiegazione, o addirittura una giustificazione, di ciò di cui stiamo provando a rendere conto. È per questa ragione che a volte, in questo libro, abbiamo sentito il bisogno di redigere una lista tutta nostra, e più neutrale (possiamo dire scientifica?), di libertà umane e forme di dominazione fondamentali. I dibattiti esistenti, infatti, iniziano quasi sempre con termini derivati dal diritto romano e, per una serie di motivi, questo è problematico.

La concezione della libertà naturale basata sul diritto romano si fonda sul potere dell’individuo (per implicazione, il capofamiglia maschio) di disporre della sua proprietà come ritiene opportuno. Nella giurisprudenza romana, la proprietà non è esattamente un diritto – perché i diritti si negoziano con gli altri e comportano obblighi reciprochi –, bensì semplice potere: la cruda realtà che il proprietario di una cosa può usarla come vuole, tranne nei modi vietati «dalla forza o dalla legge». Questa formulazione ha alcune peculiarità con cui i giuristi combattono da sempre, perché implica che la libertà sia uno stato di eccezione primordiale all’ordinamento legale. Implica anche che la proprietà non corrisponda a una serie di intese su chi userà o si prenderà cura delle cose, bensì a un rapporto tra una persona e un oggetto caratterizzato dal potere assoluto. Cosa significa, per esempio, dire che si ha il diritto naturale di fare qualunque cosa si voglia con una bomba a mano, a eccezione di ciò che non è permesso fare? Chi se ne uscirebbe con un’affermazione tanto strampalata?

A suggerire una risposta è il sociologo giamaicano Orlando Patterson, che evidenzia come le concezioni di proprietà (e dunque di libertà) sposate dal diritto romano si riallaccino in sostanza alla legge sullo schiavismo.9 La ragione per cui è possibile immaginare la proprietà come rapporto di dominazione tra una persona e una cosa è che, nel diritto romano, il potere del padrone rendeva lo schiavo un oggetto (res, ossia «cosa»), anziché un individuo dotato di diritti sociali o di obblighi legali verso chiunque altro. La legge sulla proprietà, invece, riguardava soprattutto le situazioni complicate che si sarebbero potute presentare di conseguenza. È importante ricordare per un momento chi fossero i giuristi romani che gettarono le basi dell’attuale ordinamento legale, delle nostre teorie sulla giustizia, del linguaggio dei contratti e degli illeciti, della distinzione tra pubblico e privato eccetera. Pur passando la vita pubblica a emettere verdetti ponderati, questi magistrati trascorrevano la vita privata in famiglie dove non solo avevano un’autorità pressoché assoluta su mogli, figli e altre persone, ma anche decine, o forse centinaia, di schiavi che soddisfacevano i loro bisogni.

Gli schiavi tagliavano loro i capelli, portavano gli asciugamani, davano da mangiare agli animali domestici, riparavano i sandali, suonavano alle cene e impartivano lezioni di storia e matematica ai loro figli. Allo stesso tempo, sul piano della teoria legale, gli schiavi erano classificati come forestieri che, catturati in battaglia, avevano perso qualunque diritto. Perciò il giurista romano era libero di stuprarli, torturarli, mutilarli e ucciderli in qualunque momento e in qualunque modo volesse, senza che ciò venisse considerato qualcosa di diverso da una questione personale (fu solo sotto il regno di Tiberio che furono imposte alcune restrizioni a ciò che il padrone poteva fare allo schiavo, ma questo significava semplicemente che occorreva ottenere il permesso di un magistrato locale prima di far sbranare il prigioniero dagli animali selvatici; se il padrone lo desiderava, poteva ancora adottare altre forme di esecuzione). Da un lato, la libertà era una questione privata; dall’altro, la vita privata era caratterizzata dal potere assoluto del patriarca su persone catturate, considerate una sua proprietà.10

Qui il fatto che gli schiavi romani non fossero quasi mai prigionieri di guerra in senso letterale non fa molta differenza. L’aspetto importante è che il loro status legale fosse definito in quei termini. Ai nostri fini, ciò che è interessante e rivelatore è il modo in cui, nella giurisprudenza romana, la logica della guerra – secondo cui i nemici erano intercambiabili e, se si arrendevano, si potevano uccidere o rendere «socialmente morti», vendendoli come merci –, e pertanto l’opzione della violenza arbitraria, rientravano nella sfera più intima delle relazioni sociali, compresi i rapporti di assistenza che permettevano la vita domestica. Ripensando a esempi come le «società di cattura» dell’Amazzonia o il processo tramite il quale il potere dinastico mise radici nell’antico Egitto, iniziamo a capire quanto sia stato importante quel particolare legame tra violenza e assistenza. Roma lo portò a nuovi estremi, e la sua eredità influisce ancora sulle nostre concezioni fondamentali della struttura sociale.

La parola «famiglia» ha la stessa radice del vocabolo latino famulus, ossia «schiavo domestico», attraverso familia, che in origine si riferiva a tutti coloro che erano sottoposti all’autorità domestica di un singolo pater familias, o capofamiglia di sesso maschile. Domus, la parola latina che equivale a «casa», non ci ha regalato solo «domestico» e «domesticato», ma anche dominium, il termine tecnico che designava la sovranità dell’imperatore e il potere del cittadino sulla proprietà privata. Arriviamo così ai concetti (letteralmente «familiari») di cosa significhi essere «dominanti», avere il «dominio» e «dominare». Continuiamo questo ragionamento ancora per un po’.

Abbiamo visto come, in varie parti del mondo, le prove dirette della guerra e dei massacri – compresa la cattura dei prigionieri – si possano rilevare molto prima della comparsa di regni e imperi. Più arduo da appurare, per periodi storici così antichi, è ciò che accadeva ai nemici catturati. Venivano uccisi, integrati o lasciati in bilico tra queste due condizioni? Come abbiamo scoperto esaminando diversi popoli amerindi, le cose potrebbero non essere sempre chiare. Spesso c’erano molteplici possibilità. È utile, in questo contesto, tornare per l’ultima volta al caso dei wendat all’epoca di Kondiaronk, perché questo gruppo era l’unica società che pareva decisa a evitare l’ambiguità in simili questioni.

Per certi versi, i wendat, e le società irochesi di quel periodo in generale, erano molto bellicosi. Sembra che fossero in corso sanguinosi conflitti in molte aree settentrionali delle Foreste orientali prima ancora che i coloni europei cominciassero a rifornire le fazioni indigene di moschetti, dando così il via alle «guerre dei castori». Spesso i primi gesuiti inorridirono davanti a ciò che videro, ma osservarono anche che le presunte ragioni della guerra erano del tutto diverse da quelle a cui erano abituati. I conflitti dei wendat erano, in realtà, «guerre del lutto», combattute per alleviare il dolore dei parenti stretti di coloro che erano stati uccisi. Di solito una parte belligerante aggrediva i nemici tradizionali, portando via alcuni scalpi e un piccolo numero di prigionieri. Le donne e i bambini catturati venivano adottati. Il destino degli uomini dipendeva dai familiari affranti, in particolare dalle donne e, almeno agli occhi degli spettatori esterni, pareva del tutto arbitrario. Se gli aggressori lo giudicavano opportuno, un prigioniero maschio poteva ricevere un nome, anche quello della vittima iniziale. Da quel momento in poi, il nemico diventava quella persona e, dopo qualche anno di prova, veniva trattato come un membro della società a tutti gli effetti. Se tuttavia, per qualunque ragione, ciò non succedeva, l’uomo andava incontro a un destino molto diverso. Per un guerriero maschio preso prigioniero, l’unica alternativa alla piena integrazione nella società wendat era una morte straziante sotto tortura.

I gesuiti trovarono questi dettagli insieme sconvolgenti e affascinanti. Ciò che osservarono, certe volte con i propri occhi, fu un uso lento, pubblico e molto teatrale della violenza. È vero, ammettevano, la tortura dei prigionieri da parte dei wendat non era più crudele di quella riservata ai nemici dello Stato in Francia. A scioccarli, però, non fu tanto l’usanza di frustare il nemico, immergerlo in acqua bollente, marchiarlo a fuoco, farlo a pezzi – e, in certi casi, persino di cucinarlo e mangiarlo –, quanto il fatto che gli abitanti dei villaggi o delle cittadine wendat assistessero all’esecuzione, inclusi donne e bambini. Il supplizio poteva continuare per giorni, con la vittima che veniva rianimata solo per infliggerle ulteriori sofferenze, ed era un evento comunitario.11 La violenza pare ancora più fuori del comune quando ricordiamo come queste stesse società wendat si rifiutassero di sculacciare i bambini, di punire direttamente i ladri o gli assassini e di prendere misure contro coloro che aspiravano a incentrare nelle proprie mani un’autorità arbitraria. Negli altri ambiti della vita sociale, i wendat erano famosi per la capacità di risolvere i problemi attraverso un dibattito calmo e ragionato.

Orbene, sarebbe facile sostenere che l’aggressività repressa deve sfogarsi in un modo o in un altro, cosicché le orge di tortura comunitaria diventino semplicemente l’immancabile altra faccia di una comunità non violenta, e alcuni studiosi contemporanei condividono questa idea. Ma non funziona. Iroquoia sembra proprio una di quelle regioni del Nordamerica in cui la violenza esplose solo in determinati periodi storici e poi scomparve in altri. Nella fase che gli archeologi chiamano Middle Woodland, per esempio, tra il 100 a.C. e il 500 d.C. – più o meno in concomitanza con il culmine della civiltà Hopewell –, pare che regnasse una pace generale.12 In seguito ricompaiono i segni della guerra endemica. Chiaramente, in alcuni momenti della loro storia, gli abitanti di questa regione trovarono modi efficaci per assicurarsi che le faide non si aggravassero fino a sfociare in rappresaglie o in vere e proprie guerre (il racconto haudenosaunee della Grande legge di pace descrive, a quanto pare, proprio una di quelle occasioni); in altri periodi, il sistema si inceppò e la possibilità della crudeltà sadica riprese piede.

Qual era, dunque, il significato di questi teatri della violenza? Un modo per rispondere a questo quesito è confrontarli con gli eventi europei della stessa epoca. Come spiega lo storico quebecchese Denys Delâge, anche i wendat che andarono in Francia inorridirono davanti alle torture inflitte durante le punizioni e le esecuzioni pubbliche, ma a turbarli fu il fatto che «i francesi frustavano, impiccavano e mettevano a morte uomini presi dalle loro file» anziché nemici esterni. È un’osservazione azzeccata, perché nell’Europa del XVII secolo, osserva Delâge,

[…] quasi tutte le punizioni, compresa la pena di morte, comportavano gravi sofferenze fisiche: indossare un collare di ferro, essere frustati, vedersi mozzare una mano o essere marchiati a fuoco […] Era un rituale che manifestava il potere in modo evidente, rivelando così l’esistenza di una guerra intestina. Il sovrano incarnava un potere superiore che trascendeva i sudditi, un potere che essi erano costretti a riconoscere […] Mentre i rituali cannibalistici amerindi dimostravano il desiderio di acquisire la forza e il coraggio dello straniero per contrastarlo meglio, il rituale europeo indicava l’esistenza di una dissimmetria, di uno squilibrio irrevocabile del potere.13

Le azioni punitive dei wendat contro i prigionieri di guerra (quelli che non venivano adottati) imponevano alla comunità di diventare un solo organismo, unificato dalla capacità di usare la violenza. In Francia, invece, «il popolo» era unificato in quanto potenziale vittima della violenza del re. Ma i contrasti sono ancora più profondi.

Come osservò un viaggiatore wendat riguardo al sistema francese, chiunque – colpevole o innocente – poteva finire per essere trasformato in esempio pubblico. Tra i wendat, tuttavia, la violenza era esclusa dalla dimensione della casa e della famiglia. Un guerriero catturato poteva essere trattato con affetto e premura amorevole oppure subire il peggiore trattamento immaginabile. Non esistevano vie di mezzo. Il sacrificio dei prigionieri non serviva solo a rafforzare la solidarietà del gruppo, ma proclamava anche l’inviolabilità interna della famiglia e della dimensione domestica, come spazi di governo femminile dove la violenza, la politica e il controllo coercitivo erano aboliti. Le famiglie wendat, in altre parole, si definivano in termini diametralmente opposti rispetto a quelli della familia romana.

Da questo particolare punto di vista, la società francese sotto l’ancien régime presenta un quadro simile a quello della Roma imperiale, almeno quando entrambe vengono esaminate alla luce dell’esempio dei wendat. In ambedue i casi, la famiglia e il regno condividevano un modello comune di subordinazione. Erano fatti l’una a immagine e somiglianza dell’altro, con la famiglia patriarcale che fungeva da schema per il potere assoluto dei re, e viceversa.14 I figli dovevano essere remissivi con i genitori, le mogli con i mariti e i sudditi con i sovrani, la cui autorità proveniva da Dio. In ciascun caso, il superiore doveva infliggere un castigo severo quando lo riteneva appropriato, cioè poteva ricorrere impunemente alla violenza. Si riteneva inoltre che tutto questo si intrecciasse a sentimenti di amore e affetto. In definitiva, la dimora dei monarchi borboni – come il palazzo di un faraone egizio, di un imperatore romano, di un tlatoani azteco o di un Sapa Inca – non era solo una struttura di dominazione, ma anche di assistenza, dove un piccolo esercito di cortigiani lavorava giorno e notte per soddisfare ogni bisogno fisico del re e impedire, per quanto umanamente possibile, che il sovrano si sentisse diverso da un dio.

In tutti questi casi, i legami tra violenza e assistenza si allungavano tanto verso il basso quanto verso l’alto. Il modo migliore per spiegare il concetto è citare le famose parole di re Giacomo I d’Inghilterra in The True Law of Free Monarchies (1598):

Come il padre, per dovere paterno, deve provvedere alla cura, all’istruzione e alla guida virtuosa dei figli, così il re è tenuto a premurarsi per tutti i suoi sudditi […] Come l’ira del padre e la punizione dei figli trasgressori devono essere un castigo paterno condito di compassione, purché vi sia in loro una speranza di miglioramento, il re dovrebbe comportarsi alla stessa guisa verso i sudditi disobbedienti […] Come la massima gioia del padre deve essere assicurare il benessere dei figli, gioire della loro prosperità, affliggersi per la loro malvagità e averne compassione, correre rischi per la loro incolumità […] così un buon principe dovrebbe pensare al suo popolo.

La tortura pubblica, nell’Europa del XVII secolo, generava raccapriccianti e indelebili scene di dolore e sofferenza per trasmettere il messaggio che un sistema in cui i mariti potevano brutalizzare le mogli e i genitori picchiare i figli era fondamentalmente una forma d’amore. La tortura dei wendat, nello stesso periodo storico, generò raccapriccianti e indelebili scene di dolore e sofferenza per chiarire che le punizioni fisiche di qualsiasi tipo non erano mai tollerabili all’interno della comunità o della famiglia. La violenza e l’assistenza, nel caso dei wendat, dovevano essere separate. Viste in questa luce, le caratteristiche distintive della tortura dei prigionieri da parte dei wendat diventano più nitide.

Ci sembra che questo legame – o forse questa confusione – tra assistenza e dominazione sia determinante per comprendere come abbiamo perso la capacità di ricreare liberamente noi stessi ricreando i nostri rapporti reciproci. Determinante, cioè, per capire come siamo rimasti bloccati e perché oggi non riusciamo a immaginare il presente o il futuro come qualcosa di diverso da una transizione da gabbie più piccole a gabbie più grandi.

 

Mentre scrivevamo questo libro, abbiamo provato a trovare un compromesso. Sarebbe intuitivo, per un archeologo e un antropologo esperti di questi argomenti, passare in rassegna le idee degli studiosi, per esempio, su Stonehenge, sull’«espansione di Uruk» o sull’organizzazione sociale irochese, e spiegare la propria preferenza per un’interpretazione rispetto all’altra, o tentarne una diversa. È così che procede normalmente la ricerca della verità negli ambienti accademici. Però, se avessimo cercato di riassumere o di confutare ogni interpretazione esistente del materiale che abbiamo esaminato, questo libro sarebbe stato lungo il doppio o il triplo, e probabilmente avrebbe trasmesso al lettore la sensazione che gli autori siano impegnati in una battaglia costante con demoni che, in realtà, sono alti un soldo di cacio. Così invece abbiamo tentato di ricostruire ciò che secondo noi è accaduto, e di evidenziare i difetti delle tesi altrui solo quando parevano riflettere concezioni errate più diffuse.

Forse la più ostinata in cui siamo incappati ha a che fare con le dimensioni. In molti ambienti, accademici e di altro tipo, si crede, a quanto sembra, che le strutture della dominazione siano il risultato inevitabile quando le popolazioni crescono a poco a poco in ordine di grandezza, cioè che esista un’indispensabile corrispondenza tra gerarchie sociali e spaziali. Di volta in volta, ci siamo ritrovati di fronte a scritti secondo cui più il gruppo sociale è numeroso e densamente popolato, più il sistema necessario per assicurarne l’organizzazione diventa «complesso». Spesso la parola «complessità» viene ancora usata come sinonimo di «gerarchia», che a sua volta viene usata come eufemismo per le catene di comando (le «origini dello Stato»). In altri termini, non appena un gran numero di persone decide di vivere nello stesso luogo o di collaborare a un progetto comune, deve per forza abbandonare la seconda libertà – quella di rifiutare gli ordini – e sostituirla con meccanismi legali per sconfiggere o neutralizzare coloro che non obbediscono.

Come abbiamo visto, queste ipotesi non sono teoricamente essenziali, e la storia tende a non avvalorarle. Carole Crumley, antropologa specializzata nell’età del Ferro europea, lo sottolinea da anni: i sistemi complessi non devono essere organizzati in modo verticistico, né nel mondo naturale né in quello sociale. La nostra inclinazione a dare per scontato il contrario probabilmente ci dice più di noi stessi che delle persone o dei fenomeni che stiamo studiando.15 Crumley non è neppure l’unica a sposare questa teoria. Il più delle volte, tuttavia, queste osservazioni sono cadute nel vuoto.

Con molta probabilità è ora di iniziare ad ascoltare, perché le «eccezioni» cominciano a essere più numerose delle regole. Si prendano le città. Un tempo si pensava che l’ascesa della vita urbana avesse segnato una sorta di tornello storico, dove chiunque passasse doveva cedere le proprie libertà fondamentali in via permanente e sottomettersi al governo di amministratori senza volto, severi sacerdoti, re paternalisti o politici guerrieri, semplicemente per evitare il caos (o il sovraccarico cognitivo). Oggi vedere la storia dell’umanità attraverso questo prisma non è molto diverso da calarsi nel ruolo di un moderno re Giacomo, perché l’effetto generale è presentare la violenza e le disuguaglianze della società contemporanea come l’evoluzione naturale di strutture di gestione razionale e assistenza paternalistica, strutture progettate per popolazioni umane che, veniamo esortati a credere, d’un tratto diventarono incapaci di organizzarsi dopo che il loro numero ebbe superato una certa soglia.

Non solo queste idee non hanno una base solida nella psicologia umana, ma sono anche difficili da conciliare con le prove archeologiche della funzione iniziale delle città in molte parti del mondo. I centri urbani, infatti, nacquero come esperimenti civici su grande scala, spesso privi delle previste caratteristiche di gerarchia amministrativa e governo autoritario. Per queste prime città non disponiamo di una terminologia adeguata. Chiamarle «ugualitarie», come abbiamo visto, potrebbe significare molte cose diverse. Potrebbe implicare un parlamento urbano e progetti coordinati di edilizia sociale, come in alcuni centri precolombiani delle Americhe; o l’auto-organizzazione di famiglie autonome in quartieri e assemblee di cittadini, come nei megasiti preistorici a nord del Mar Nero; o, forse, l’introduzione di un’idea esplicita di uguaglianza basata su principi di uniformità e identicità, come nella Mesopotamia del periodo di Uruk.

Questa variabilità smette di stupirci quando ricordiamo cosa abbia preceduto le città in ciascuna regione. Non si trattava, in realtà, di gruppi rudimentali o isolati, bensì di estese reti di società, capaci di abbracciare diverse ecologie, con persone, piante, animali, sostanze stupefacenti, oggetti di valore, canzoni e idee che circolavano in modi infinitamente complicati. Benché, dal punto di vista demografico, le singole unità fossero piccole, soprattutto in certi momenti dell’anno, di solito si organizzavano in coalizioni o confederazioni fluide. Queste ultime erano, come minimo, il risultato logico della nostra prima libertà: quella di allontanarsi dalla propria casa, con la certezza di essere accolti e assistiti, se non addirittura apprezzati, in un posto lontano. Al massimo erano esempi di «anfizionia», dove un qualche tipo di organizzazione formale era incaricato della cura e della manutenzione dei luoghi sacri. A quanto pare, Marcel Mauss aveva ragione quando suggerì di riservare il termine «civiltà» a grandi zone di ospitalità come queste. Naturalmente siamo abituati a concepire la «civiltà» come qualcosa che ha origine nelle città ma, quando si è armati di nuove conoscenze, sembra più realistico ragionare al contrario e immaginare le prime città come una di quelle grandi confederazioni regionali, compresse in uno spazio ristretto.

Ovviamente la monarchia, le aristocrazie guerriere o altre forme di stratificazione potevano prendere piede anche nei contesti urbani, e spesso lo fecero. Quando accadde, le conseguenze furono clamorose. Tuttavia la semplice esistenza di grandi insediamenti umani non provocò affatto questi fenomeni, e sicuramente non li rese inevitabili. Per trovare le origini di queste strutture di dominazione dobbiamo cercare altrove. Le aristocrazie ereditarie avevano le stesse probabilità di esistere tra gruppi demograficamente piccoli o modesti, come le «società eroiche» degli altipiani anatolici, che presero forma ai margini delle prime città mesopotamiche e intrattennero fitti commerci con loro. Nella misura in cui abbiamo le prove della nascita della monarchia come istituzione permanente, pare che i suoi inizi siano individuabili proprio qui, e non nelle città. In altre aree del mondo, alcune popolazioni urbane percorsero in parte la strada verso la monarchia, per poi tornare sui propri passi. È ciò che accadde a Teotihuacán, nella valle del Messico, dove la popolazione della città, dopo aver costruito le piramidi del Sole e della Luna, abbandonò questi progetti celebrativi e si imbarcò invece in un ambizioso programma di edilizia sociale, che forniva appartamenti multifamiliari ai residenti.

Altrove, le prime città seguirono la traiettoria opposta, iniziando con consigli di quartiere e assemblee popolari e finendo per essere governate da dinastie bellicose, che poi dovettero rassegnarsi a una scomoda convivenza con le precedenti istituzioni di governo urbano. Qualcosa di simile accadde nell’antica Mesopotamia dinastica, dopo il periodo di Uruk. Ancora una volta, la convergenza tra sistemi di violenza e sistemi di assistenza sembra cruciale. I templi sumeri avevano sempre organizzato la propria esistenza economica intorno al compito di curare e sfamare gli dèi, incarnati nelle statue del culto, che erano circondate da un’intera industria e burocrazia del benessere. Dettaglio ancora più importante, i templi erano istituzioni benefiche. Vedove, orfani, fuggitivi e persone estromesse da gruppi di consanguinei o da altre reti di sostegno si rifugiavano lì: a Uruk, per esempio, nel tempio di Inanna, la dea protettrice della città, affacciato sul grande cortile dell’assemblea cittadina.

I primi re-guerrieri carismatici si insediarono in queste aree, letteralmente accanto alla residenza della principale divinità cittadina. In questo modo, i monarchi sumeri riuscirono a inserirsi in spazi istituzionali riservati alla cura degli dèi, e dunque lontano dalla dimensione delle normali relazioni umane. Ciò ha senso perché i re, come dice il proverbio malgascio, «non hanno parenti», o non dovrebbero averne, poiché sono sovrani di tutti i loro sudditi in ugual misura. Anche gli schiavi non hanno parenti; tutti i loro legami precedenti vengono troncati. In entrambi i casi, le uniche relazioni sociali riconosciute di questi individui sono quelle basate sul potere e sulla dominazione. In termini strutturali, e rispetto agli altri membri della società, i re e gli schiavi condividono, di fatto, lo stesso terreno. La differenza consiste nell’estremo dello spettro di potere che si ritrovano a occupare.

Sappiamo anche che i bisognosi, accolti in queste istituzioni, ricevevano razioni regolari e lavoravano nei terreni del tempio e nei suoi laboratori. Le primissime fabbriche – o almeno, le primissime di cui siamo a conoscenza nella storia – erano enti benefici di questo genere, dove i burocrati fornivano alle donne la lana da filare e da tessere, supervisionavano l’uso del prodotto (in gran parte barattato con gruppi degli altipiani in cambio di legno, pietra e metallo, non disponibili nelle valli fluviali) e garantivano loro razioni accuratamente ripartite. Tutto ciò accadeva già molto prima dell’entrata in scena dei re. In quanto persone dedite alla cura degli dèi, all’inizio queste donne devono aver avuto una certa dignità, se non addirittura uno status sacro, ma quando comparvero i primi documenti scritti, la situazione si era ormai complicata.

A quel punto, alcuni di coloro che lavoravano nei templi sumeri erano anche prigionieri di guerra, o persino schiavi, anch’essi privi di sostegno familiare. Nel tempo, e forse in conseguenza di questo fenomeno, pare anche che lo status delle vedove e degli orfani sia stato declassato finché i templi arrivarono ad assomigliare a ricoveri di mendicità vittoriani. Come accadde, potremmo chiederci, che la degradazione delle donne che lavoravano nelle fabbriche dei templi abbia influito sullo status delle donne in generale? Se non altro, deve aver fatto apparire molto più sconfortante la prospettiva di fuggire da una situazione di maltrattamenti domestici. La perdita della prima libertà comportava sempre più spesso la perdita della seconda. La perdita della seconda comportava la cancellazione della terza. Se una donna in simili circostanze tentava di fondare una nuova setta, un nuovo tempio, una nuova visione delle relazioni sociali, veniva subito etichettata come sovversiva e rivoluzionaria; se attirava seguaci, poteva benissimo ritrovarsi a sfidare la forza militare.

Tutto ciò mette in evidenza un’altra questione. Questo nuovo legame tra violenza esterna e assistenza interna – tra rapporti umani più impersonali e più intimi – segna forse il punto in cui ogni cosa diventa confusa? Questo è forse un esempio di come relazioni prima flessibili e negoziabili abbiano finito per cristallizzarsi? Un esempio, in altre parole, di come siamo rimasti bloccati? Se c’è un racconto particolare da narrare, una grande domanda da porre sulla storia dell’umanità (al posto del quesito sulle «origini della disuguaglianza sociale»), è proprio questa: come siamo rimasti bloccati in un’unica forma di realtà sociale, e come sono riuscite le relazioni basate sulla violenza e sulla dominazione a normalizzarsi al suo interno?

Forse lo studioso che, nel secolo scorso, si confrontò maggiormente con questo interrogativo fu l’antropologo e poeta Franz Steiner, morto nel 1952. Condusse una vita affascinante anche se tragica. Studioso geniale ed eclettico, nato da genitori ebrei in Boemia, in seguito visse con una famiglia araba a Gerusalemme finché fu espulso dalle autorità britanniche. Condusse un lavoro sul campo nella regione dei Carpazi e per due volte fu costretto dai nazisti a fuggire dal continente, concludendo la sua carriera – in modo abbastanza ironico – nel Sud dell’Inghilterra. Quasi tutti i suoi parenti stretti morirono a Birkenau. Secondo la leggenda, scrisse ottocento pagine di una monumentale dissertazione di dottorato sulla sociologia comparata della schiavitù, per poi vedersi rubare la valigetta con le bozze e gli appunti a bordo di un treno. Fu amico e rivale romantico di Elias Canetti, un altro esule ebreo a Oxford, e corteggiò con successo la scrittrice Iris Murdoch, anche se morì di infarto a quarantatré anni due giorni dopo che la donna ebbe accettato la sua proposta di matrimonio.

La versione più breve della sua tesi di dottorato, che ci è pervenuta, si concentra su quelle che l’autore chiama «istituzioni preservili». È uno studio – toccante, data la biografia di Steiner – su cosa accade in diverse situazioni culturali e storiche alle persone sradicate: coloro che vengono espulsi dal loro clan per debiti o per colpa, naufraghi, criminali, fuggitivi. Si può intendere come una descrizione del modo in cui i rifugiati sono stati dapprima accolti e trattati alla stregua di esseri sacri e poi, a poco a poco, umiliati e sfruttati, come le donne che lavoravano nelle fabbriche dei templi sumeri. In sostanza, la storia raccontata da Steiner sembra riguardare proprio il crollo di quella che denomineremmo la prima libertà fondamentale (andarsene o trasferirsi), e di come questo abbia spianato la strada alla perdita della seconda (la libertà di disobbedire). Ci riconduce anche all’affermazione che abbiamo fatto in precedenza sulla divisione progressiva dell’universo sociale umano in unità sempre più piccole, cominciando dalla comparsa di «aree culturali» (un argomento interessante per gli etnologi della tradizione dell’Europa centrale, dove Steiner ricevette la sua prima formazione).

Cosa succede, chiede Steiner, quando si erodono le aspettative che permettono la libertà di circolazione (le norme dell’ospitalità e dell’asilo politico, della cortesia e del rifugio)? Perché questo fenomeno sembra spesso un catalizzatore di situazioni in cui alcuni possono esercitare un potere arbitrario sugli altri? Steiner analizzò nel dettaglio casi che spaziavano dagli huitoto dell’Amazzonia e dai safwa dell’Africa orientale ai lushai tibeto-birmani. Lungo la strada suggerì una possibile risposta alla domanda che aveva assillato Robert Lowie, e in seguito Clastres: se le società senza Stato si organizzano regolarmente in modo tale che i capi non abbiano alcun potere coercitivo, come fecero le forme di organizzazione verticistiche a vedere la luce? Ricorderete che Lowie e Clastres arrivarono alla stessa conclusione: quelle società dovevano essere state il prodotto della rivelazione religiosa. Steiner indica un percorso alternativo. Forse, ipotizza, si riduce tutto alla beneficenza.

Nelle società amazzoniche, non solo gli orfani ma anche le vedove, i pazzi, i disabili e i deformi – se non avevano nessun altro che si prendesse cura di loro – potevano rifugiarsi nella residenza del capo, dove ricevevano una parte dei pasti comunitari. A queste categorie si aggiungevano, di tanto in tanto, i prigionieri di guerra, soprattutto bambini catturati durante le razzie. Tra i safwa e i lushai, fuggitivi, debitori, criminali e altri individui bisognosi di protezione detenevano lo stesso status di coloro che si erano arresi in battaglia. Diventavano membri del seguito del capo, e i maschi più giovani assumevano spesso il ruolo di tutori dell’ordine simili a poliziotti. Il potere che il capo aveva sui membri del suo seguito – Steiner usa il termine potestas, ripreso dal diritto romano e indicante, tra le altre cose, il potere paterno di controllo arbitrario sulle persone a proprio carico e sulla loro proprietà – variava a seconda di quanto fosse facile per i protetti fuggire e trovare rifugio altrove, o conservare almeno alcuni legami con parenti, clan o estranei disposti a prendere le loro parti. Variava anche la misura in cui si poteva essere sicuri che questi tirapiedi mettessero in pratica la volontà del capo, ma a contare era la semplice minaccia che lo facessero.

In tutti questi casi, il processo di offrire un rifugio ai più sfortunati condusse alla trasformazione di ordinamenti domestici fondamentali, soprattutto tramite l’integrazione delle donne, consolidando ulteriormente la potestas dei padri. È possibile rilevare alcuni aspetti di questa logica in quasi tutte le corti reali storicamente documentate, che attiravano sempre persone considerate bizzarre o solitarie. Sembra che, dalla Cina alle Ande, non ci sia stata nemmeno una regione al mondo dove le società di corte non ospitassero individui particolari, e che pochissimi monarchi non abbiano dichiarato di essere anche i protettori di vedove e orfani. Si potrebbe immaginare che qualcosa di analogo fosse già accaduto in certe comunità di cacciatori-raccoglitori in periodi storici molto più antichi. Anche gli individui con anomalie fisiche che ricevettero sfarzose sepolture durante l’ultima era glaciale devono essere stati oggetto di molte premure affettuose mentre erano in vita. Senza dubbio ci sono sequenze di sviluppo che collegano simili pratiche alle successive corti reali – ne abbiamo intraviste alcune, per esempio nell’Egitto predinastico –, anche se non siamo ancora in grado di ricostruire buona parte dei nessi.

Forse Steiner non mise la questione in primo piano, ma le sue osservazioni concernono direttamente i dibattiti sulle origini del patriarcato. Gli antropologi femministi si esprimono da tempo a favore di un legame tra violenza esterna (perlopiù maschile) e trasformazione dello status femminile tra le mura domestiche. In termini archeologici e storici, stiamo solo iniziando a raccogliere materiale sufficiente per comprendere il vero funzionamento di questo processo.

 

Le ricerche culminate in questo libro sono iniziate quasi dieci anni fa, essenzialmente come un gioco. In un primo momento, dobbiamo essere sinceri, le abbiamo affrontate con uno spirito un po’ beffardo verso le nostre responsabilità accademiche più «serie». Eravamo più che altro curiosi di scoprire come le nuove prove archeologiche accumulate negli ultimi trent’anni potessero modificare le nostre idee sulla storia antica dell’umanità, soprattutto le parti legate ai dibattiti sulle origini della disuguaglianza sociale. Di lì a poco, tuttavia, ci siamo resi conto che la nostra iniziativa era potenzialmente importante, perché sembrava che nessun altro, nei nostri campi, stesse effettuando un analogo lavoro di sintesi. Spesso ci siamo ritrovati a cercare invano volumi che pensavamo fossero disponibili ma che, a quanto pare, non esistono, per esempio compendi su antiche città senza governo verticistico, resoconti sul funzionamento del processo decisionale in Africa o nelle Americhe, oppure confronti tra quelle che abbiamo denominato «società eroiche». La letteratura è costellata di assenze.

Alla fine abbiamo capito che questa riluttanza a sintetizzare non era un semplice prodotto della reticenza da parte di studiosi altamente specializzati, anche se senza dubbio questo fattore aveva il suo peso. In certa misura dipendeva dalla mancanza di un linguaggio appropriato. Come si può chiamare, per esempio, una «città senza strutture di governo verticistiche»? Al momento non esiste un termine universalmente accettato. Possiamo definirla una «democrazia»? Una «repubblica»? Parole come «civiltà» hanno un bagaglio storico così ingombrante che quasi tutti gli archeologi e gli antropologi le evitano, e gli storici tendono a limitarne l’uso all’Europa. Si può optare, dunque, per «città ugualitaria»? Probabilmente no, perché ricorrere a questa definizione equivale a sollecitare l’ovvia richiesta di prove dell’«effettivo» ugualitarismo della città, il che significa, di solito, dimostrare la mancanza di qualunque elemento di disuguaglianza sociale in ogni aspetto della vita degli abitanti, compresa la dimensione familiare e quella dei riti religiosi. Siccome queste prove sono raramente reperibili, la conclusione dovrebbe essere che, dopotutto, non si trattava di città davvero ugualitarie.

Secondo la stessa logica, si potrebbe concludere facilmente che non ci sono «società ugualitarie», tranne forse alcune piccolissime bande di foraggiatori. Molti ricercatori nel campo dell’antropologia evolutiva sostengono proprio questa tesi ma, in definitiva, questo tipo di ragionamento spinge a fare di tutta l’erba un fascio, mettendo insieme tutte le città «non ugualitarie» o addirittura tutte le «società non ugualitarie», che è un po’ come dire che non ci sono differenze di rilievo tra una comune hippie e una banda di motociclisti perché nessuna delle due è totalmente non violenta. Alla fin fine, si ottiene soltanto di restare senza parole quando ci si trova di fronte a certi aspetti importanti della storia dell’umanità. Stranamente ci chiudiamo nel silenzio quando le prove confermano che gli esseri umani hanno fatto qualcosa di diverso dal correre «incontro alle catene». Avvertendo un profondo cambiamento nelle testimonianze del passato, abbiamo scelto l’approccio opposto.

In pratica, abbiamo capovolto molte polarità, abbandonando il vocabolario dell’«uguaglianza» e della «disuguaglianza» a meno che non ci fossero conferme esplicite della presenza dell’uguaglianza sociale, e domandandoci, per esempio, cosa sarebbe successo se ci fossimo concentrati sui cinquemila anni in cui la domesticazione dei cereali non sfociò nella comparsa delle aristocrazie viziate, degli eserciti regolari e del peonaggio, anziché solo sui cinquemila in cui lo fece, e cosa sarebbe accaduto se avessimo trattato il rifiuto della vita urbana o della schiavitù, in determinati luoghi e momenti, come se fosse importante quanto l’avvento di quegli stessi fenomeni in altri luoghi e momenti. Lungo il percorso abbiamo avuto diverse sorprese. Non avremmo mai immaginato, per esempio, che con molta probabilità la schiavitù fosse stata abolita in vari periodi storici e in vari luoghi, e che si potesse dire lo stesso della guerra. Ovviamente queste abolizioni furono di rado definitive. Eppure, le fasi in cui esistettero società libere o relativamente libere non sono poche. Anzi, se si mette tra parentesi l’età del Ferro euroasiatica (cosa che abbiamo fatto in questo libro), rappresentano la stragrande maggioranza dell’esperienza sociale umana.

I sociologi hanno la tendenza a scrivere del passato come se tutto ciò che è successo avesse potuto essere previsto in anticipo. È un approccio poco onesto, perché tutti sappiamo che quando cerchiamo di prevedere il futuro di solito sbagliamo, e questo vale tanto per i sociologi quanto per chiunque altro. Nonostante ciò è difficile resistere alla tentazione di scrivere e ragionare come se l’attuale condizione del mondo, all’inizio del XXI secolo, fosse il risultato inevitabile degli ultimi diecimila anni di storia, mentre in realtà, naturalmente, non abbiamo idea di come sarà il pianeta nel 2075, figurarsi nel 2150.

Chissà? Forse, se la nostra specie terrà duro e un giorno ci volteremo indietro da questo futuro ancora inconoscibile, alcuni aspetti del lontano passato che ora ci sembrano anomalie – per esempio, le burocrazie che lavorano su scala comunitaria, le città governate da consigli di quartiere, i sistemi di governo in cui le donne detengono la maggior parte delle cariche formali, o i tipi di gestione fondiaria basati sulla cura anziché sulla proprietà e sull’estrazione – parranno progressi significativi, e le grandi piramidi o statue di pietra assomiglieranno più a curiosità storiche. E se adottassimo subito questo approccio e guardassimo, diciamo, la Creta minoica o la cultura Hopewell non come sobbalzi casuali lungo una strada che porta inesorabilmente agli Stati e agli imperi, bensì come possibilità alternative, o strade non prese?

Dopotutto, quelle cose sono esistite davvero, anche se i nostri modi abituali di esaminare il passato sembrano studiati per spingerle ai margini anziché al centro della discussione. Gran parte di questo volume è dedicata a ripristinare l’equilibrio, a rammentarci che le persone hanno vissuto veramente così, spesso per secoli o addirittura per millenni. Per certi versi, questa prospettiva potrebbe apparire ancora più tragica della nostra descrizione standard della civiltà come inevitabile caduta in disgrazia. Significa che avremmo potuto vivere con concezioni radicalmente diverse del senso della civiltà umana, che l’asservimento di massa, il genocidio, i campi di prigionia e persino il patriarcato o i regimi di lavoro retribuito non dovevano necessariamente avere luogo. D’altro canto, però, indica anche che, persino ora, le possibilità di intervento umano sono molto maggiori di quanto siamo inclini a pensare.

Abbiamo iniziato questo libro con una citazione che si riferisce all’idea greca del kairos come uno di quei momenti occasionali nella storia di una società in cui i quadri di riferimento subiscono una trasformazione, una metamorfosi dei principi e dei simboli fondamentali, in cui i confini tra mito e storia, tra scienza e magia, diventano nebulosi e, pertanto, è possibile un cambiamento concreto. A volte i filosofi amano parlare dell’«Evento» – una rivoluzione politica, una scoperta scientifica, un capolavoro artistico –, cioè un progresso capace di rivelare aspetti della realtà prima inimmaginabili ma che, una volta notati, non si possono più ignorare. Se è così, il kairos è il genere di periodo in cui gli Eventi tendono a verificarsi.

Le società di tutto il mondo paiono scivolare in questa direzione. Ciò vale soprattutto per quelle che, fin dalla Prima guerra mondiale, hanno l’abitudine di chiamarsi «occidentali». Da un lato, i progressi fondamentali delle scienze fisiche, o anche dell’espressione artistica, non sembrano più presentarsi con la regolarità che ci si poteva aspettare tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. Allo stesso tempo, tuttavia, i nostri mezzi scientifici per comprendere il passato, non solo quello della nostra specie, ma anche quello del pianeta, si stanno perfezionando a una velocità vertiginosa. Nel 2020 gli scienziati non si imbattono (come forse speravano i lettori di fantascienza alla metà del secolo scorso) in civiltà aliene di galassie lontane, ma in forme di società molto diverse sotto i loro piedi, alcune dimenticate e appena riscoperte, altre più familiari, ma ora interpretate in chiave inedita.

Sviluppando gli strumenti scientifici per conoscere il passato, abbiamo rivelato la sottostruttura mitica della «scienza sociale». Quelli che una volta sembravano assiomi inattaccabili, punti fermi intorno ai quali organizzare la conoscenza di noi stessi, si stanno sparpagliando come topi. Qual è lo scopo di questo nuovo sapere, se non rimodellare le nostre concezioni di chi siamo e di cosa potremmo ancora diventare? Se non, in altre parole, riscoprire il significato della terza libertà fondamentale: quella di creare nuove e diverse forme di realtà sociali?

Qui il problema non è il mito, che non va confuso con una scienza cattiva o puerile. Come tutte le società hanno la propria scienza, tutte le società hanno i propri miti. Il mito è lo strumento con cui le società umane conferiscono ordine e significato all’esperienza. Ma le più grandi costruzioni mitiche della storia, a cui abbiamo fatto ricorso negli ultimi secoli, non funzionano più, perché sono inconciliabili con le prove davanti ai nostri occhi, e le strutture e i significati che promuovono sono banali, ritriti e politicamente disastrosi.

Senza dubbio cambieranno pochissime cose, almeno per il momento. Interi campi del sapere – per non parlare delle cattedre e delle facoltà universitarie, delle riviste scientifiche, delle borse di studio, delle biblioteche, dei database, dei programmi scolastici eccetera – sono progettati per adattarsi ai vecchi quesiti e strutture. Una volta, Max Planck osservò che le nuove verità scientifiche non sostituiscono quelle vecchie perché convincano gli scienziati di aver sbagliato, bensì perché prima o poi i fautori della vecchia teoria muoiono e le generazioni successive vedono le nuove verità e teorie come familiari, se non addirittura ovvie. Siamo ottimisti. Ci piace pensare che non occorrerà molto tempo.

In realtà, abbiamo già fatto un primo passo. Ora capiamo più chiaramente cosa succede, per esempio, quando uno studio, rigoroso sotto ogni altro aspetto, parte dall’ipotesi non verificata che sia esistita una forma «originale» di società umana, che la sua natura fosse essenzialmente buona o cattiva, che ci sia stato un tempo prima della disuguaglianza e della consapevolezza politica, che si sia verificato un evento capace di cambiare tutto questo, che la «civiltà» e la «complessità» emergano a spese delle libertà umane, che la democrazia partecipativa sia naturale nei piccoli gruppi, ma che non possa trasformarsi in nulla di simile a una città o a uno Stato nazionale.

Ora sì che siamo certi di essere in presenza di miti.


1. Talvolta utilizzava anche la locuzione illud tempus; cfr., tra le molte altre opere, Eliade 1959.

2. Hocart 1954, p. 77; cfr. anche Hocart 1969 [1927]; 1970 [1936].

3. A pensarci bene, molte di quelle che consideriamo libertà per eccellenza – come la «libertà di parola» o «la ricerca della felicità» – non sono affatto libertà sociali. Possiamo essere liberi di dire ciò che vogliamo, ma se nessuno si preoccupa o ascolta, ha poca importanza. Allo stesso modo, possiamo essere felici quanto ci pare, ma se quella felicità la guadagniamo al prezzo della miseria di un altro, non vale molto. Probabilmente, ciò che spesso consideriamo libertà per eccellenza si basa sull’illusione creata da Rousseau nel suo secondo Discorso: l’illusione di una vita umana solitaria.

4. Per cui cfr. Graeber e Sahlins 2017, passim.

5. Harari 2014, p. 133.

6. Scarry 1985.

7. Kelly 2000.

8. Cfr. Haas e Piscitelli 2013.

9. Patterson 1982.

10. Per ulteriori discussioni cfr. Graeber 2011, pp. 198-201 e le fonti ivi citate.

11. Si potrebbe immaginare che queste torture pubbliche avessero una condotta selvaggia o disordinata; ma, in effetti, la preparazione di un prigioniero per il sacrificio era una delle poche occasioni in cui un funzionario poteva impartire comandi per un comportamento calmo e ordinato, oltre a proibire i rapporti sessuali. Per tutto quanto sopra cfr. Trigger 1976, pp. 68-75.

12. Per un periodo durato forse cinque secoli o più, i resti umani in tutto il Nordest americano mostrano, in maniera interessante, poche prove di lesioni traumatiche, scotennamenti o altre forme di violenza inflitta (Milner et al. 2013). Esistono prove di violenza interpersonale e di guerra in periodi sia precedenti sia successivi; gli esempi successivi più noti si riconducono a una fossa comune scavata a Crow Creek e a un cimitero organizzato in villaggio oneota, dove si rilevano ampie prove di traumi, in entrambi i casi risalenti a circa settecento anni fa. Tali prove rappresentano forse alcuni decenni di storia sociale – un secolo al massimo – e sono abbastanza localizzate. Non c’è assolutamente motivo di credere che l’intera regione abbia in qualche modo vissuto in uno stato hobbesiano, come suppongono senza troppa convinzione i teorici contemporanei della violenza.

13. Delâge 1993, pp. 65-66.

14. Cfr. Merrick 1991.

15. In un articolo (1995) indubbiamente influente, ma non ancora quanto meriterebbe, Crumley ha sottolineato la necessità di alternative ai modelli gerarchici di complessità sociale nell’interpretazione archeologica. Come ha notato, la documentazione archeologica pullula di prove sullo sviluppo di sistemi sociali ed ecologici che si presentavano come complessi e strutturati, ma non secondo principi gerarchici. «Eterarchia», il termine universale che Crumley ha introdotto per quest’altro genere di sistemi, è stato preso in prestito dalla scienza cognitiva. Molte delle società su cui ci siamo concentrati in questo libro – dai cacciatori di mammut del Paleolitico superiore alle mutevoli coalizioni e confederazioni dell’Iroquoia del XVI secolo – potrebbero essere descritte in questi termini (se avessimo scelto di adottare il linguaggio della teoria sistemica), in base al fatto che il potere fosse disperso o distribuito in modi flessibili tra i diversi elementi della società, o su diverse scale di integrazione, o addirittura in diversi periodi dell’anno all’interno della stessa società.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *