Da Sulla materia della mente,
di Gerald M. Edelman
Capitolo 16
Memoria e anima individuale:
contro il riduzionismo sciocco
La scienza non può spiegare il mistero ultimo della Natura. E questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte del mistero che tentiamo di spiegare.
Max Planck
Se dovessi vivere di nuovo, mi piacerebbe vivere sopra un negozio di specialità gastronomiche.
Woody Allen
Dall’ultimo quarto del diciassettesimo secolo fino all’ultimo decennio del secolo successivo, un’esplosione di creatività chiamata Illuminismo trasformò la storia delle idee. Molte opinioni e molte concezioni fiorirono, ma al centro dell’interesse generale si trovavano soprattutto la ragione, la scienza, la libertà e l’individualità dell’uomo. La scienza che ne costituiva il fondamento era la fisica, il sistema di Newton, e la concezione filosofica della società era, in larga misura, quella di Locke. Tuttavia le idee di causalità e determinismo, assieme alla visione meccanicistica della scienza, minarono alla base le speranze in una teoria dell’azione umana basata sulla libertà. Se siamo determinati da forze naturali — da meccanismi — è difficile immaginare che un individuo libero possa compiere scelte di ordine morale. Inoltre, benché l’Illuminismo fosse molto attento al ruolo della ragione e della cultura in tali scelte, non espresse alcun concetto generale riguardo alla profonda influenza esercitata dalle forze inconsce e dalle emozioni sulla mente di ogni essere umano (compresi quelli «dotati di ragione», e cioè le persone «colte»).
Quali che fossero le forme assunte nei vari periodi e nei vari luoghi, l’Illuminismo fu prevalentemente una concezione laica, che forgiò molte delle idee a fondamento della democrazia moderna. Esso, però, è finito, pur lasciandoci una eredità preziosa. Quelle idee subirono un primo, fiero colpo con gli attacchi che Hume rivolse sia al razionalismo sia alla concezione che associava il progresso umano alle scienze naturali. La principale carenza dell’Illuminismo fu l’incapacità di formulare una adeguata descrizione scientifica dell’individuo che si potesse affiancare alla descrizione dell’universo come macchina. Nell’ambito sociale, invece, il fallimento fu l’incapacità di andare oltre il concetto di una società composta di individui egoisti, votati al successo nel campo degli affari, con una visione superficiale dell’«umanesimo». Gli illuministi tentarono, sì, di offrire una prospettiva più ispirata, ma la loro scienza era una fisica meccanicistica, sprovvista di un corpo di dati e di idee che consentisse di collegare il mondo, la mente e la società secondo i criteri della ragione scientifica cui aspiravano. A dispetto di fallimenti e contraddizioni, tuttavia, l’Illuminismo ci ha lasciato grandi speranze riguardo al posto dell’individuo nella società.
Ci si può aspettare di poter fare di meglio grazie a una solida visione scientifica della mente? Spero di dimostrare, nel corso di questo capitolo, che le prove emerse sia dalla fisica sia dalle moderne neuroscienze confutano quel genere di riduzionismo che fu la condanna dei pensatori illuministi. È mia ferma convinzione che non si possa interpretare una persona solamente nei termini della teoria dei campi o in termini molecolari o fisiologici. Ridurre una teoria del comportamento umano a una teoria di interazioni molecolari è semplicemente assurdo; ciò emerge con chiarezza se si considera quanti livelli diversi di interazioni fisiche, biologiche e sociali si devono sistemare prima che compaia la coscienza di ordine superiore.
Il cervello è composto di 1011 cellule, con almeno 1015 connessioni. La biochimica che regola il comportamento di ogni cellula è incredibilmente complicata, e vincolata da insiemi particolari di geni. Le cellule si uniscono durante la morfogenesi e si scambiano segnali — in maniera che dipende dalla loro posizione — per costituire un corpo e un cervello che contengono una quantità enorme di cicli di controllo, tutti soggetti ai meccanismi omeostatici che controllano la sopravvivenza.
Il processo di selezione sui repertori di neuroni fa modificare una moltitudine di sinapsi, via via che le cellule muoiono o si differenziano. La sopravvivenza e il movimento di un animale danno luogo a un’incessante categorizzazione percettiva e concettuale nelle mappe globali. La memoria interagisce in modo dinamico con la categorizzazione percettiva, attraverso il rientro. I processi di apprendimento che implicano il collegamento tra categorizzazione e valore (la forma più raffinata è quella che si realizza all’interno di una comunità linguistica) stabiliscono una connessione tra le capacità simboliche e semantiche e i centri concettuali che già forniscono le strutture corporee per la costruzione del significato.
È quasi impossibile calcolare le combinazioni molecolari significative in una successione di eventi di questo genere, persino nel caso di due gemelli identici, e non sarebbe comunque di alcuna utilità. La corrispondenza nelle mappe non è di punto a punto, bensì di area ad area e i processi sono caratterizzati da individualità e irreversibilità. Mi domando quali conclusioni ne avrebbero tratto gli umanisti dell’Illuminismo. Forse Diderot, che meditava sul sistema nervoso del suo amico nel Sogno di d’Alembert, come si è visto nel capitolo 3, se ne sarebbe compiaciuto. La sua concezione della coscienza umana fece intravedere la possibilità che essere umani volesse dire andare oltre la pura e semplice fisica.
La mia opinione è che non può esservi scienza compiuta — e certo non una scienza degli esseri umani — fino a quando non si darà una spiegazione della coscienza in termini biologici. Data la nostra concezione della coscienza di ordine superiore, ciò significa anche spiegare le basi del nostro processo di personalizzazione o formazione del sé: con ciò non intendo semplicemente le caratteristiche genetiche o immunologiche dell’individuo, ma la personalità individuale che emerge dalle interazioni sociali e da quelle che si hanno durante lo sviluppo.
Il senso del sé è un concetto di estrema importanza per la filosofia. Può darsi che la mia visione selezionistica acuisca alcuni problemi legati a tale concetto; è bene ricordare, comunque, che non può darsi alcuna teoria scientifica del sé individuale (l’ipotesi dei qualia). Ciò nonostante, ritengo che sia possibile progredire verso una maggiore completezza del concetto di libertà dell’individuo, concetto fondamentale per qualsivoglia teoria filosofica che riguardi i valori umani.
Passiamo ora alla relazione tra coscienza e tempo, agli aspetti individuali e storici della memoria; inoltre, al nostro modo di vedere il soggetto pensante e cosciente in quanto può modificare il nostro concetto di causalità. Infine, voglio discutere in breve la connessione tra le emozioni e le nostre idee di significato incorporato. Tutti questi punti riguardano, alla fin fine, l’argomento del libero arbitrio e pertanto l’etica nella condizione di esseri mortali.
Secondo la TSGN estesa, la memoria è l’elemento chiave della coscienza, la quale è legata al senso di continuità e a scale temporali diverse. Nella categorizzazione percettiva c’è un elemento temporale ben preciso e un altro, più esteso, partecipa alla costituzione di una memoria fondata sui concetti. I movimenti di un animale ne guidano la categorizzazione percettiva; la creazione della sua memoria a lungo termine dipende dalle attività temporali nell’ippocampo. Come si è visto, le proprietà jamesiane della coscienza si possono fare discendere dal funzionamento di tali elementi. Negli esseri umani, tuttavia, la coscienza primaria e la coscienza di ordine superiore coesistono e non hanno la medesima relazione con il tempo. Nella coscienza di ordine superiore, il senso del tempo passato è un aspetto concettuale, poiché ha a che fare con ordinamenti di categorie, che si sono avuti in precedenza, in relazione a un presente immediato che è invece sotto la guida della coscienza primaria. La coscienza di ordine superiore non si basa — come la coscienza primaria — sull’esperienza in atto, bensì sulla capacità di modellare il passato e il futuro. Quale che sia la scala temporale, il senso del tempo è innanzitutto e soprattutto un evento conscio.
I concetti di coscienza e di «esperienza» del tempo si intrecciano, pertanto, in maniera molto stretta. A questo proposito è interessante confrontare la definizione di William James, secondo cui la coscienza è qualcosa di cui «conosciamo il significato fino al momento in cui qualcuno ci chiede di definirla», con le riflessioni di sant’Agostino che, nelle Confessioni, scrisse: «Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, io so che cos’è. Se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so». La nozione di continuità del tempo individuale, storico e istituzionale è centrale nel pensiero di sant’Agostino.
Dal concetto di tempo segue immediatamente quello di successione. Il matematico olandese L.E.J. Brouwer (1881-1966), sostenitore dell’intuizionismo, ha avanzato una proposta interessante a proposito della connessione tra il tempo e il concetto di numero. Secondo Brouwer, tutti gli elementi della matematica (e in particolare la sequenza dei numeri naturali) provengono da quella che egli definisce «duità». Questa è il contrasto tra l’esperienza cosciente in atto (la coscienza primaria ne costituisce un elemento importante) e la consapevolezza diretta dell’esperienza passata (per cui è necessaria la coscienza di ordine superiore). La proposta è interessante perché suggerisce che il concetto di numero potrebbe derivare non soltanto dalla percezione delle cose appartenenti al mondo esterno, bensì anche dall’interno — dall’intuizione della duità, aggiunta alla continuità temporale. In questo modo, ricorsivamente, si può arrivare alla nozione di numero naturale.
Quali che siano le origini di questi concetti astratti, il senso soggettivo del sacro, il senso del mistero e il senso dell’ordinamento e della continuità sono tutti legati alla continuità temporale, nel modo in cui se ne fa esperienza: individualmente, ognuno in modo un po’ diverso dagli altri.
Il flusso della categorizzazione, sia nella coscienza primaria sia in quella di ordine superiore, è individuale e irreversibile. È una storia. La memoria cresce in una direzione; grazie alle capacità verbali, il senso della durata costituisce un’altra forma ancora di categorizzazione. Questa concezione del tempo si differenzia dalla nozione relativistica di tempo-orologio, di cui si avvalgono i fisici, che in senso microscopico è reversibile. Oltre alla variabilità e irreversibilità degli eventi fisici macroscopici, che i fisici riconoscono, una ragione profonda dell’irreversibilità dell’esperienza soggettiva del tempo risiede nella natura dei sistemi selettivi: in tali sistemi le configurazioni emergono a posteriori. Dato che i repertori cerebrali variano da un individuo all’altro, è estremamente improbabile che le conseguenze di due diversi eventi selettivi, seppure identici in apparenza, siano identiche. Ciascun individuo è soggetto non solo alla seconda legge della termodinamica (come tutti i sistemi materiali), ma anche a un insieme stratificato di eventi irreversibili di tipo selettivo, relativi alla sua percezione e alla sua memoria. È la natura stessa dei sistemi selettivi che li rende irreversibili.
Il fatto che per ogni persona valga questa «doppia esposizione» — alle variazioni del mondo reale che influenzano gli oggetti non intenzionali e alle variazioni individuali di carattere storico nella propria memoria di soggetto intenzionale — ha importanti conseguenze. Il flusso delle categorizzazioni in un sistema selettivo che porta alla memoria e alla coscienza modifica il rapporto ordinario di causa ed effetto, come lo descrivono i fisici. L’esistenza di una persona, come di una cosa, si può raffigurare con una linea di universo nello spazio-tempo quadridimensionale. Gli esseri umani, però, essendo dotati di intenzionalità, di memoria e di coscienza, possono prendere elementi che stanno su un punto qualunque della linea e, sulla base della propria storia individuale, farli dipendere da progetti che stanno su altri punti della stessa linea. Possono quindi mettere in atto tali progetti, modificando i rapporti di causalità tra gli oggetti in un modo determinato, in conformità con le strutture della loro memoria: come se un pezzo dello spazio-tempo potesse slittare e proiettarsi su un altro pezzo. La differenza è, naturalmente, che l’intero processo non richiede qualche principio fisico particolare, ma soltanto la capacità di categorizzare, memorizzare e progettare secondo un modello concettuale. Nessuna combinazione di oggetti inanimati e non intenzionali potrebbe dar luogo in modo così ricco a una modifica storica di catene causali, poiché ad essi manca la memoria di tipo adatto. Questo punto è importante per distinguere la biologia dalla fisica, come si vedrà in maniera più approfondita nel capitolo 20.
In alcuni sistemi nei quali entra in gioco la memoria, succede che alcuni eventi, che si verificano una sola volta nella storia del sistema e che sono relativi a una certa scala, generino effetti importanti su scale molto differenti. Si immagini che la sequenza del codice genetico di un animale vissuto in tempi remoti si sia modificata per effetto dei suoi spostamenti (guidati, per esempio, da variazioni climatiche) attraverso regioni acquitrinose; se il diverso ordine dei nucleotidi avesse contribuito a migliorare l’adattamento, esso potrebbe influenzare gli eventi di selezione e la funzionalità dell’animale di oggi, lontano discendente di quello. Eppure le leggi fisiche che governano le effettive interazioni chimiche fra i componenti genetici che formano il codice (i nucleotidi) sono deterministiche. Tuttavia, non c’è legge deterministica al livello chimico che possa rendere conto da sola del fatto che la mutazione del codice si è protratta nel tempo, una mutazione che fu avviata e in seguito si stabilizzò, nel corso di lunghi periodi di tempo, in conseguenza di eventi selettivi assai complicati che hanno agito sugli animali in maniera globale, nel caso di condizioni ambientali straordinarie.
Gli eventi relativi alla memoria che si verificano in un cervello soggetto alla selezione hanno la medesima natura. Ci sono molti gradi di libertà: poiché l’ambiente categorizzato si presenta ricco di novità, poiché la selezione avviene a posteriori, poiché essa si attua su repertori storici di grande ricchezza e variabilità, nei quali strutture differenti possono produrre il medesimo risultato. Se ne può concludere con ragionevole certezza che in un sistema cosciente a più livelli i gradi di libertà sono ancora più numerosi. Queste osservazioni suggeriscono che, per quanto riguarda i sistemi che categorizzano nello stesso modo di un cervello, si può parlare di indeterminatezza a livello macroscopico. Inoltre, richiamando quanto detto sui modi in cui la memoria altera la causalità, si può affermare che la coscienza permette uno «slittamento del tempo», insieme con l’attività di pianificazione, e ciò modifica il modo in cui gli eventi si attuano.
Nonostante il successo riportato nella fisica, nella chimica e nella biologia molecolare, il riduzionismo diventa sciocco, se applicato in maniera assoluta alla materia della mente, il cui modo di funzionare trascende la causalità newtoniana. L’attività delle memorie di ordine superiore trascende la descrizione di successioni temporali della fisica. Infine, lo strutturarsi del sé nell’ambito sociale è, in una certa misura, un evento storico fortuito.
Queste conclusioni riguardano il classico dilemma del libero arbitrio e la nozione di «determinismo debole», o compatibilismo, secondo la definizione di James Mill. Se ciò che ho affermato è corretto, un essere umano ha un certo grado di libero arbitrio. Tale libertà non è totale, comunque, ed è limitata da un certo numero di vincoli ed eventi interni ed esterni. Questa concezione non nega l’influenza dell’inconscio sul comportamento, né sottovaluta la possibilità che piccoli cambiamenti biochimici ed eventi che accadono agli inizi della vita di un individuo possano modellarne lo sviluppo in maniera critica; essa sostiene, però, che il determinismo psicologico forte proposto da Freud non regge. Siamo liberi almeno quanto la nostra grammatica ci consente di essere.
Sia queste considerazioni sia il rapporto tra il nostro modello della coscienza e i valori che si sono stabilizzati nel corso dell’evoluzione riguardano anche la nozione di significato. Quest’ultimo si forma sulla base di alcuni concetti che dipendono da categorizzazioni basate su valori; poi cresce con la successione di ricordi di sensazioni fisiche e di immagini mentali.
La mescolanza degli eventi è del tutto individuale e, in gran parte, imprevedibile. Quando, attraverso le interazioni di natura sociale, nascono le capacità linguistiche e semantiche e il pensiero si fa metaforico, la capacità di creare nuovi modelli del mondo cresce a un ritmo rapidissimo. Si ricordi, però, che il sistema del significato è legato ai valori e al concetto di sé, e pertanto non è quasi mai esente da affetti, ma ha una forte carica emotiva. Non è questa la sede per esaminare le emozioni (i più complicati tra gli oggetti mentali), né si può dedicare molto spazio al pensiero stesso. Entrambi gli argomenti saranno trattati nel capitolo successivo; tuttavia è utile menzionarli qui e collegarli alla discussione sul libero arbitrio e sul significato. Come hanno osservato spesso filosofi e psicologi, la libertà umana è limitata dall’incapacità dell’individuo di distinguere le conseguenze del pensiero da quelle delle emozioni.
Gli esseri umani sono creati mediante una sequenza di eventi del tutto improbabile e sono vincolati rigidamente dalla propria storia e morfologia, eppure possono godere di una straordinaria libertà di immaginazione. È evidente che non appartengono alla stessa classe degli oggetti non intenzionali: sono in grado di riferirsi al mondo in una molteplicità di modi differenti; possono figurarsi progetti, formulare speranze per il futuro e influenzare gli eventi del mondo a loro scelta; sono legati in molti modi, accidentali o meno, ai genitori, alla società e al passato; posseggono un senso del sé, puntellato dalle emozioni e dalla coscienza di ordine superiore. E, in quanto possono immaginare la propria estinzione, conoscono la tragedia.
Si sente dire spesso che l’uomo moderno ha subito perdite irreparabili da svariati episodi di «decentramento» — a cominciare dalla demolizione delle cosmologie originarie che ponevano l’uomo al centro dell’universo. Il primo episodio, tuttavia, si realizzò — secondo Freud — quando l’eliocentrismo spodestò il geocentrismo; il secondo quando Darwin indicò l’origine degli esseri umani; il terzo quando si dimostrarono gli straordinari effetti dell’inconscio sul comportamento. Ben prima di Darwin e Freud, peraltro, la concezione newtoniana dell’universo aveva portato a quel rigido fatalismo che paralizzò le speranze illuministiche in una società migliore. Oggi ci si può render conto che, se il nuovo modo di vedere l’attività cerebrale e la coscienza è corretto, quel fatalismo non è necessariamente giustificato. Il presente non è gravido di un futuro programmato e stabilito; il programma non sta nella nostra testa. Le teorie della fisica moderna e i risultati conseguiti dalle neuroscienze non fanno escludere soltanto i modelli di un mondo-macchina, ma anche quelli che considerano il cervello in tal modo.
Si può ben sperare che idee nuove sufficientemente generali, capaci di sintetizzare i risultati che emergono dalle neuroscienze, potranno contribuire a un nuovo illuminismo. In questa ipotesi, saranno le neuroscienze a fornire le basi scientifiche principali, non la fisica.
Il problema non sarà, allora, l’esistenza dell’anima: che ogni individuo sia differente da ogni altro e che non sia una macchina è evidente; il problema sarà accettare il fatto che la mente dell’individuo è mortale. Date le concezioni laiche del nostro tempo, ereditate dal primo Illuminismo, come si può tenere un comportamento etico nella condizione di esseri mortali? Alla luce degli odierni modelli di una mente-macchina, il problema è di grande portata, poiché in base a tali modelli è facile respingere un essere umano o sfruttarlo, semplicemente come un’altra macchina. Oggi il meccanicismo si affianca al fanatismo: la società è nelle mani o di individui economicamente potenti ma vuoti di valori spirituali, oppure — in misura inferiore — nelle mani di zeloti fanatici dominati da emozioni e da miti che poco hanno a che vedere con la scienza. Forse quando arriveremo a capire e ad accettare una visione scientifica della comparsa della mente nel mondo, potremo avvalerci di una concezione più feconda della natura umana e di miti più benigni.
Se l’umanità adottasse una concezione dei processi percettivi, e del processo che ci porta alla consapevolezza, fondata sulla conoscenza del cervello, quali ripercussioni ne verrebbero? Proviamo a pensare quali risultati potrebbe avere l’accettare queste idee: lo «spirito» di ciascun individuo è davvero parte del corpo, ed è prezioso perché è mortale e perché la sua creatività è imprevedibile; bisogna guardare con scetticismo ai limiti della conoscenza umana; comprendere lo sviluppo psichico dei giovani ha importanza cruciale; l’immaginazione e la tolleranza sono collegate; tutti noi siamo quanto meno fratelli e sorelle, al livello dei valori evolutivi; i problemi etici sono universali, ma i casi singoli trovano una soluzione — se mai la trovano — soltanto se si tiene conto della storia dell’individuo. È possibile istituire un’etica convincente, nella condizione di mortali? Questa è una delle più grandi sfide del nostro tempo.
Rimarrà non chiaro, fino a che le neuroscienze non avranno raggiunto un’ulteriore maturità, il collegamento tra ognuno di questi punti e la nostra storia di individui appartenenti a una specie che continua a evolversi. In ogni caso, sono inammissibili il riduzionismo sciocco e il mero meccanicismo. Sembra che i dati di fatto scientifici confermino sempre più una teoria dell’azione basata sul concetto di libertà umana — proprio ciò che mancava ai tempi dell’Illuminismo. Passiamo ora all’esame di tali fatti in relazione al pensiero stesso.