Da La vita inaspettata,
di Telmo Pievani
Oggi su quegli altri quattro quinti della storia della vita sappiamo molto di più. Ma il messaggio che ci restituisce il tempo profondo è spiazzante, perché scopriamo anzitutto che l’evoluzione nelle sue prime fasi ha probabilmente preferito molto più l’associazione della competizione.
Una seconda indicazione di fondo riguarda invece la sorprendente stabilità dell’evoluzione degli organismi unicellulari procarioti per un lunghissimo periodo dopo l’apparizione dei primi esemplari: non vi sono segni di un lungo e graduale aumento della complessità delle forme organiche per quasi due miliardi e mezzo di anni, ovvero quasi due terzi dell’intera durata della vita sulla Terra. Le prime cellule con nucleo fecero il loro ingresso nella cronologia biologica in virtù di un processo di unione simbiotica fra organismi più semplici, realizzando così un’importante transizione evolutiva ma senza innescare, neppure in questo caso, un’apparente diversificazione graduale nelle epoche successive.
Il punto controverso è che questa presunta progressività dell’evoluzione sarebbe il risultato della comparsa di “progetti” organici sempre più perfetti per opera della signora delle migliorie, la selezione naturale, e delle sue “corse agli armamenti”. Le evidenze di questa escalation competitiva fra lignaggi genetici non sono però così convincenti. Come abbiamo visto già nel Cambriano, l’equazione secondo cui più antico equivarrebbe a meno complesso e meno diversificato è piena di eccezioni, proprio perché i fattori evolutivi influenti hanno agito in modo da produrre organismi complessi in tempi precoci, o viceversa hanno conservato per centinaia di milioni di anni soluzioni di sopravvivenza semplici e robuste. La grande maggioranza della biomassa terrestre è data da organismi unicellulari, resistenti alle condizioni più estreme, adattatisi a ogni anfratto ecosistemico. Su altri pianeti oggi cerchiamo qualcosa di simile a questi archeobatteri, non alieni complessi.
I cicli di autoregolazione della biosfera dipendono da protagonisti silenziosi inchiodati allo stadio minimo di “progresso”: la loro estinzione metterebbe a repentaglio la sopravvivenza dell’intera schiera di organismi complessi. Viceversa, se noi scomparissimo, loro non se ne accorgerebbero neppure. Non solo, la diffusione di processi simbiotici nell’economia della natura mostra che spesso a trarre vantaggio è chi si associa e perde funzioni, non chi ne acquisisce di nuove. Homo sapiens stesso, ultimo ramoscello di un cespuglio un tempo lussureggiante, è la riprova che, come abbiamo visto, non vi è stata alcuna freccia del tempo puntata verso la diversità crescente. Basta allargare un po’ lo sguardo e quel ramoscello animale finisce alla periferia di un albero che contiene decine di specie di primati, migliaia di mammiferi, per non dire di un mezzo milione di coleotteri.
È chiaro infatti che le due ipotesi estreme e antitetiche discusse nel capitolo precedente — il “puro caso” da una parte e la dura necessità dall’altra — godono entrambe di un vantaggio impalpabile: la deresponsabilizzazione. Tanto il meramente fortuito quanto l’inevitabile non sono controllabili da un agente, e non dipendono da noi. Se siamo figli dell’aleatorietà più assoluta o viceversa di leggi inflessibili, se non persino di un disegno, non possiamo più farci nulla. Rilassiamoci: è tutto già scritto, o nulla potrà mai esserlo. La falsa dicotomia offre inoltre un indiscutibile vantaggio retorico: se polarizziamo la discussione attorno a due fuochi antagonistici (da una parte il “puro caso”, dall’altra il disegno di una mente superiore) e approfittiamo maliziosamente delle nostre repulsioni cognitive per presentare una delle due alternative come spaventevole e improbabile (ma come, tutto questo, e la meravigliosa natura umana, frutto del puro caso?), sarà gioco facile condurre per mano i nostri interlocutori, in cerca di consolazione, verso la (presunta) alternativa opposta, il piano preordinato. Eh sì, non può essere frutto del caso, dunque non resta che abbandonarci fiduciosi al disegno!
La contingenza è più impegnativa, sotto tutti i punti di vista, perché non fornisce scorciatoie. Ci distoglie sia dall’alibi del “puro caso” sia dalle uscite di sicurezza finalistiche e antiscientifiche. Ci prende gentilmente per le spalle e ci chiede di guardare dritte negli occhi le evidenze raccolte, per il momento, dalla scienza. Il potere causale del singolo evento cambia infatti la prospettiva: se il passato era aperto, e a maggior ragione lo è il futuro, le scelte contano. Il processo è influenzabile, la storia si può cambiare, tocca a noi, specie biologica e culturale al contempo. Ne siamo responsabili, e forse questo non piace.
[La mia piccola critica: mi sembra che una via di mezzo tra due estremi che negano entrambi l’esistenza del libero arbitrio non sia affatto efficace nel dimostrarla, e non spiega “come funziona”. Io credo che esista, ma so che il mio è una specie di “atto di fede”, perché non so dimostrarne l’esistenza né “come funzioni”, e mi piacerebbe che ci si arrivasse, penso che sarebbe importante.]
[…] la teoria dell’evoluzione ci dice — prove empiriche alla mano come abbiamo visto nei tre capitoli precedenti — che noi non saremmo qui se una catastrofe globale non avesse per ragioni contingenti portato all’estinzione quasi tutti i dinosauri, offrendo ai mammiferi un’inaspettata messe di occasioni ecologiche; che a maggior ragione non saremmo stati invitati alla cena postapocalittica se prima la storia naturale non fosse transitata attraverso innumerevoli altre biforcazioni contingenti, a cominciare da Pikaia gracilens che per il rotto della cuffia ce la fa, dai vertebrati terrestri che si disseminano come capita e dai validi crurotarsi sepolti improvvisamente da fiumi di basalto fuso; che molti tratti sono frutto di derive genetiche casuali e che la selezione non è un ingegnere ma un bricoleur che fa quel che può; che anche noi ominini siamo qui in virtù di una sequenza di eventi improbabili che avrebbero potuto facilmente prendere tutta un’altra direzione; che fino a poche migliaia di anni fa non eravamo affatto gli unici rappresentanti del genere Homo a scorrazzare per il pianeta, ma in compagnia di almeno altri quattro cugini; che siamo figli delle glaciazioni, della Rift Valley, delle correnti oceaniche, del Sahara, delle radure africane assolate e di una miriade di altri capricci ambientali, dai quali siamo usciti rimpiccioliti come si esce da un collo di bottiglia; che per milioni di anni siamo stati umilmente prede e non predatori; che per cinque sesti della storia naturale la vita è stata rappresentata gloriosamente da modestissimi ma assai resistenti organismi unicellulari […]
Noi avremmo dunque una dotazione innata relativa non soltanto al patrimonio genetico ereditato dalla storia di specie, ma anche alla variabilità e alla plasticità che sappiamo esprimere durante l’intero corso della vita individuale. La mente verrebbe così a essere un peculiare prodotto dell’evoluzione, perché eredita una lunga storia di adattamenti dei moduli psicologici ma anche un’eccezionale flessibilità nel produrre in ciascuno di noi i mondi soggettivi, imprevedibili, fallaci (ma per questo anche autenticamente liberi) della cultura, della morale, dell’arte, della politica. Come per il genoma umano, la natura subottimale della mente umana stessa sembra essere il frutto di rimaneggiamenti, di inerzie evolutive, di compromessi fra soluzioni adattative locali e vincoli storici, in buona sostanza di espedienti imperfetti e fortunosi che nonostante tutto hanno funzionato (Marcus, 2008).
Potremmo persino spingerci a pensare che la conquista (filogenetica e ontogenetica) dell’autonomia culturale e morale di ogni essere umano — la “venerabile” libertà kantiana di governare se stessi e di sviluppare la propria identità personale — sia proprio il fulcro di ciò che ci restituiscono le più aggiornate conoscenze scientifiche sulla storia naturale e culturale della mente umana. A dispetto dei determinismi e dei finalismi teologico-naturalistici di moda oggi — che schiacciano l’identità autobiografica reale degli individui sotto il tallone di un’astratta identità biologica “sacralizzata” — forse è proprio la nostra peculiare (ma non speciale) biologia a riaprire i giochi della libertà umana.
Torniamo così al paradosso precedente: espelliamo la natura da una parte, e questa rientra da un’altra. Fissiamo un criterio di unicità, decidiamo che siamo gli unici ad avere le condizioni fisiologiche per rispettarlo e poi, ogni volta, scopriamo che in forme diverse anche qualche nostro parente non umano ne è dotato. Forse allora non è la specificità in sé di sapiens a essere confutata, ma i nostri modi antropocentrici di argomentarla. Potremmo scegliere un’altra strada: è la nostra particolare e contingente storia evolutiva, e niente altro, a renderci non “speciali” ma “unici”, proprio come sono uniche a modo loro le altre specie (Ferretti, 2007). L’evoluzione, dopo tutto, è anche innovazione, emergenza contingente dell’inedito. Ne discende una sorta di egualitarismo evoluzionistico della contingenza storica, che non scalfisce la specificità di Homo sapiens (“come noi non c’è nessuno”) ma solo la presunta eccezionalità di questa specificità (come i bonobo e gli oranghi, pure, non c’è nessuno).
Se, come gli studi sull’evoluzione delle credenze evidenziano, nella specie umana il comportamento morale si sviluppa prima e indipendentemente dall’acquisizione di credenze religiose, è alquanto dubbio che queste ultime possano essere un fondamento “necessario” della morale. Non è nemmeno così scontato che la credenza religiosa favorisca automaticamente atteggiamenti prosociali e cooperativi all’interno di un gruppo. Ciò nonostante, sembra proprio che la mente di Homo sapiens sia “nata per credere” in entità intenzionali sovrannaturali e in recondite finalità nascoste dietro i fenomeni naturali (Girotto, Pievani, Vallortigara, 2008). Dati convergenti provenienti dalla psicologia del pensiero, dall’etologia cognitiva e dalle neuroscienze suggeriscono l’esistenza di una programmazione biologica delle nostre menti per distinguere naturalmente le entità inerti (come gli oggetti fisici) da quelle di natura psicologica (come gli agenti animati) e per l’attribuzione o, in molti casi, l’eccessiva attribuzione di scopi e di intenzioni agli oggetti animati e inanimati. Ciò spiegherebbe l’inclinazione naturale a trovare psicologicamente soddisfacenti le spiegazioni delle nostre origini di tipo animistico o quelle basate sul “disegno”, intelligente o divino che dir si voglia.
Il segno è stato oltrepassato dall’umiltà evoluzionistica che fece sospettare, ancora a Haldane, in Possible Worlds del 1927, che “l’Universo sia non soltanto più eccentrico di quanto supponiamo, ma più eccentrico di quanto possiamo supporre”. Ne deriva che ogni possibilità di vita realizzata valeva la pena di essere esplorata, proprio per la sua unicità. Se non c’è inferiore e superiore in natura, né gerarchie fra i rami del corallo della vita, l’insieme di fragili opportunità che noi siamo non potrà che ritrovare una maggiore solidarietà. In conclusione, dunque, che cosa ha a che fare questa saggezza naturalistica con la nostra vita? Rovesciando quanto scrive Vito Mancuso nel libro prima citato (2009), possiamo dire che l’uomo “autentico” è sì certo l’uomo che vive per la giustizia, il bene e la verità, ma proprio perché sa che la logica del mondo non è necessariamente indirizzata alla giustizia, al bene, alla verità. Responsabilmente, sa che la natura non offre lezioni morali e che non dobbiamo proiettare i nostri pregiudizi e le nostre personificazioni su di essa. E tuttavia, se mai esistesse, quella “logica del mondo”, che non aveva presagito tutto questo, ha alfine partorito la specie umana e il suo corredo di potenzialità. Come scriveva Stephen J. Gould nel 1998: “Come posizione morale preferisco la teoria della ‘doccia fredda’, secondo la quale la natura può essere davvero ‘crudele’ e ‘indifferente’, in quanto non esiste a nostro beneficio, non sapeva che saremmo venuti e non le importa assolutamente nulla di noi (metaforicamente parlando). Considero tale posizione liberatoria, non deprimente, perché ci dà la capacità di sviluppare un discorso nei nostri termini, liberi dall’illusione di poter leggere passivamente la verità morale nella attualità della natura” (1998, p. 285).