L’ultimo capitolo di “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow

Da L’alba di tutto, di David Graeber e David Wengrow

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Conclusione
L’alba di ogni cosa

Questo libro è iniziato con un appello a porre domande più efficaci. Abbiamo cominciato osservando che indagare sulle origini della disuguaglianza significa necessariamente creare un mito, una caduta in disgrazia, una trasposizione dei primi capitoli della Genesi, che nelle versioni contemporanee prende la forma di una narrazione mitica, spogliata di qualunque prospettiva di redenzione. In questi resoconti, il massimo che noi esseri umani possiamo augurarci è qualche piccolo miglioramento della nostra condizione intrinsecamente squallida e, si spera, un’azione drastica per impedire qualsiasi imminente disastro assoluto. L’unica altra teoria disponibile finora è l’ipotesi che la disuguaglianza non abbia origini, perché gli esseri umani sono, per natura, creature aggressive e i nostri esordi furono infelici e violenti; nel qual caso il «progresso» o la «civiltà», stimolati in gran parte dalla nostra indole egoista e competitiva, furono essi stessi capaci di redenzione. Questa idea gode dell’approvazione dei miliardari, ma non convince nessun altro, compresi gli scienziati, consapevoli che non rispecchia i fatti.

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The main reasons why i think Mastodon is probably the worst alternative to centralized, commercial socials [with Italian version]

English version
[Italian version below]

  1. Instead of implementing the APIs defined by ActivityPub, of which only a small portion has been implemented in Mastodon to date, the Mastodon development team implemented its own APIs on top of those of ActivityPub and, taking advantage of the fact that Mastodon, before supporting ActivityPub (now the only decentralized social protocol it claims to support: little, as noted above), was by far the most widely used FOSS alternative to the large, centralized, commercial socials, it forced the development teams of the other platforms to implement the Mastodon-specific APIs, so that their own platform instances could interact with Mastodon instances; thus the Mastodon API became de facto the most widely used and most implemented interoperability standard among the Fediverse platforms, to the detriment of implementations of ActivityPub, which as a core social protocol was and would in itself be able to guarantee interoperability of the various platforms that implemented it;
  2. the Mastodon development team did everything possible, including the above, to centralize the Fediverse to its own platform and especially to the most widely used Mastodon gGmbH-owned instance, mastodon.social, which is also by far the most populated instance of all the Fediverse’s platforms, and this is bad for decentralization in itself (a network of small-to-medium instances is more resilient to any attack, and does not carry the risk that the most widely used platforms and instances will dictate interoperability rules and customs), and because the larger and more generalist an instance is, the less effective its moderation will be; it pursued and achieved this centralization by doing what is described in the first point and, even more, by putting a nice big button “Join mastodon.social” on the homepage of the project’s official website, before the “Pick another server” button, which, for its part, sends to a Mastodon instances presentation page that shows first, again, mastodon.social, and, immediately after that, the other, already more populated instances, and doing something very similar with its official mobile apps, where new users are even more induced to join mastodon.social;
  3. the Mastodon’s development team introduced “trending posts,” “trending accounts,” “trending hashtags,” and “trending news,” which are active by default and can only be turned off by those who manage the instance, thus gamifying the experience of the vast majority of users and increasing their FOMO; in other words, it has implemented features which are detrimental to equal and non-competitive interaction, investing a lot of time, energy, and money coming even or especially from the European community, instead of solving the huge problems Mastodon has been carrying for so long (see the first point, and below), and instead of implementing things which would be useful in themselves (see below, again), especially those that would be useful for decentralization, such as a simple inter-istance discovery mechanism for accounts;
  4. on Mastodon, if you read a thread whose first post comes from an instance other than your own, the thread very often has a lot of missing branches, i.e., those that develop under a post written from an account that your instance doesn’t know yet, including that very post; this is a huge bug, which greatly reduces the basic functionality of a social, and has been known since 2016, and has not yet been fixed; on other platforms supporting ActivityPub this bug is not present;
  5. on Mastodon you can’t make a public post of yours appear only on the local timeline of your instance; on other platforms you can, and it is an important feature for community-building – also, possibly, from the perspective of economic sustainability;
  6. on Mastodon those who manage an instance do not have an easy way to set the number of characters per post available to those who use it (they have to apply an hackish patch with each update); on other platforms it is possible to do this much more simply, by modifying an instance setting, and this is important because Mastodon’s default 500 characters limit is often very inadequate: as we see in so many threads, it happens very often that one has to split their posts.

Versione in italiano

I motivi principali per cui penso che Mastodon sia probabilmente l’alternativa peggiore ai social centralizzati e commerciali

  1. Invece di implementare le API definite da ActivityPub, delle quali ad oggi, in Mastodon, è stata implementata solo una piccola parte, il team di sviluppo di Mastodon ha implementato proprie API sopra quelle di ActivityPub e, sfruttando il fatto che Mastodon, prima di supportare ActivityPub (ora l’unico protocollo social decentralizzato che sostiene di supportare: poco, come già detto), era di gran lunga la più diffusa piattaforma FOSS alternativa ai grandi social commerciali e centralizzati, ha costretto i team di sviluppo delle altre piattaforme a implementare le API specifiche di Mastodon perché le istanze delle proprie piattaforme potessero interagire con le istanze Mastodon; così le API di Mastodon sono diventate di fatto lo standard di interoperabilità più diffuso e più implementato tra le piattaforme del Fediverso, a detrimento delle implementazioni di ActivityPub, che in quanto protocollo social di base era e sarebbe in grado di per sé di garantire l’interoperabilità delle diverse piattaforme che lo implementassero;
  2. il team di sviluppo di Mastodon ha fatto tutto il possibile, compreso quanto sopra, per centralizzare il Fediverso verso la propria piattaforma e soprattutto verso l’istanza di proprietà di Mastodon gGmbH più usata, mastodon.social, che è anche l’istanza di gran lunga più popolata tra tutte le piattaforme del Fediverso, il che è male per la decentralizzazione in sé (una rete di istanze medio-piccole è più resistente a qualsiasi attacco, e non si porta il rischio che le piattaforme e le istanze più usate dettino le consuetudini e le regole di interoperabilità), e perché quanto più grande e generalista è un’istanza, tanto meno sarà efficace la sua moderazione; ha perseguito e ottenuto questa centralizzazione facendo quanto descritto al primo punto e, ancor più, mettendo un bel pulsantone “Join mastodon.social” sulla homepage del sito web ufficiale del progetto, prima del pulsante “Pick another server” che, dal canto suo, manda a una pagina di presentazione delle istanze Mastodon che mostra per prima, di nuovo, mastodon.social, e subito dopo le altre istanze già più popolate, e facendo qualcosa di molto simile con le sue app mobile ufficiali, dove i nuovi utenti sono ancora più indotti a iscriversi a mastodon.social;
  3. il team di sviluppo di Mastodon ha introdotto “trending posts”, “trending accounts”, “trending hashtags”, “trending news”, attivi per default e disattivabili solo da chi gestisce l’istanza, gamificando così l’esperienza della stragrande maggioranza dell’utenza e aumentandone la FOMO; in altre parole, ha implementato funzionalità dannose per l’interazione paritaria e non competitiva, investendoci un sacco di tempo, energie, e soldi che gli arrivano anche o soprattutto dalla comunità europea, invece di risolvere i problemi enormi che si porta appresso da tanto tempo (vedi il primo punto, e sotto), e invece di implementare cose utili in sé (vedi sotto, di nuovo), in particolare quelle che sarebbero utili per la decentralizzazione, come un meccanismo di semplice discovery interistanza degli account;
  4. su Mastodon, se leggi un thread il cui primo post viene da un’istanza diversa dalla tua, il thread ha spessissimo un sacco di rami mancanti, ovvero quelli che si sviluppano sotto un post scritto da un account ancora non noto alla tua istanza, compreso quello stesso post; questo è un bug enorme, che riduce moltissimo la funzionalità di base di un social, ed è noto dal 2016, e non è ancora stato risolto; su altre piattaforme che supportano ActivityPub questo bug non c’è;
  5. su Mastodon non è possibile fare in modo che un proprio post pubblico compaia solo sulla timeline locale della propria istanza; su altre piattaforme si, ed è una funzionalità importante per fare comunità – anche, eventualmente, dal punto di vista della sostenibilità economica;
  6. su Mastodon chi gestisce un’istanza non ha un modo semplice per settare il numero di caratteri per post disponibili a chi la usa (deve applicare una patch arrangiata a ogni aggiornamento); su altre piattaforme è possibile farlo molto più semplicemente, modificando un’impostazione della propria istanza, ed è importante perché i 500 caratteri di default di Mastodon sono spessissimo insufficienti: come si vede in tanti thread, capita spessissimo di dover suddividere i propri post.

The necessary anarcho-communist International

[Last edited on Saturday, 27 January 2024]

TL;DR (AKA: an abstract)

It is necessary now more than ever before in history to take the means of production and the cultivated lands in the context of an anarcho-communist International, like Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta, Emma Goldman and so many other anarchists advocated and fought to make happen, because today we not only need to finally end it with the domination of exploitation, violence and death that patriarcapitalism is in the whole world, and with any other domination of man on man and of man on the other species, but we also need to save ourselves, our children and the future generations of our species, and so many others, from the decimation or, more probably, the extinction that otherwise would happen in some decades, or even before, by spreading and growing wars and by ecosystemic catastrophes like the escalating reduction of biodiversity, the escalating frequency of pandemics, and global warming driven disasters like the droughts, floods, fires, hurricanes, sea level rise, unlivable temperatures in the summer, and more and more cold winters, which are already happening and causing so much pain and death everywhere, but especially in areas of the planet that have less temperate climate conditions than ours, less financial and material resources to mitigate the effects of these disasters, and, in many cases, even more pollution than our countries.

Moreover: tomorrow it would be much easier than ever before to make a global, federated community of many little communities that would self-manage themselves with open-to-all, consensus driven assemblies (i.e. real, direct democracy, that is a necessary condition for achieving and maintaining good or very good levels of equality and social justice, along with periodic redistribution of wealth accumulation, to be culturally ritualized in the context of festivities), because when the huge advancements in technology that humanity has done since the ancient times when big self-managing communities existed before, particularly those in the many-to-many communications and in the increasingly immersive fiction production and fruition fields, would grant paritary confrontation and creative sublimation and cathartic release of our dark sides (competitiveness, aggressiveness, and so on) to all, when they actually were, hardware and software, in the hands of everybody.

Also: the anarcho-communist International could and would much better start from rich countries, where conscience of the huge inequalities of patriarcapitalism is more widespread and material and cultural conditions are still better than in those many countries where the vast majority of the people of the world lives: by putting an end to the domination of the masters and rulers in our countries we would directly and greatly alleviate the near-slavery conditions of  the populations of the poorest countries, where the local rulers and masters would then no longer receive the more or less overt or covert support and the weapons they receive today from our governments and masters, who are interested only in securing for themselves the possibility to obtain at very low prices the raw materials to be used in the production of tools which are so often overpowered, or even useless or damaging, and also designed, with planned obsolescence, to last much shorter than they could.

Finally: although it would still require being armed, if we managed to be many enough to take the means of production and the cultivated lands in our rich countries, maybe not even a single drop of blood, neither ours nor of our adversaries, would be shed; but time is running fast and it’s very improbable that we will be that many soon enough, so, and in any case, we’d better start or continue with more conviction to organize ourselves secretly, in groups, on an operational level, while continuing to spread our knowledge and ideas publicly.

Like Pëtr Kropotkin, Errico Malatesta, Emma Goldman and so many other anarchists said, we have to take the means of production and the cultivated lands in order to finally end it with this domination of exploitation, violence and death that patriarcapitalism is, and with every other domination and exploitation and violence; and, nowadays, also to save ourselves, our children and the future generations: because in addition to the “usual” exploitation and violence, there’s the immense ecological problem of the average temperature of the world rising, that no one “from above” has even put a curb on (globally, greenhouse gas emissions continue to increase, instead of decreasing), despite more than two decades of peaceful pressures which we acted in every sauce from below; and there is covid with its variants, this never-ending tragic affair which is predominantly and by far yet another consequence of the material and cultural misery that patriarcapitalism produces, also in its state version (see [1], [2], and [3], or just mind that if it was not because of these miseries, in that Chinese market people would not have sold animals at the risk of causing that virus to jump to humans), and to date has already painfully killed almost 7 million persons worldwide, and would otherwise continue; because yes, the anti-covid vaccines which are currently disposable in the richest countries do work: they are statistically very effective in preserving from getting ill those who accept to get vaccinated, although they provide a rather brief cover; but, despite the fact their development was financed to a great extent by rich states with money from tax payers, these same states buy them at a price per dose that is up to 24 times its cost of production, while the states where the large majority of the people of the world lives can’t afford to buy them and the bosses of pharmaceutical multinationals producing them don’t remise, not even temporarily, to the related patents, and don’t publish the know-how that’s necessary to build the machines to produce them, nor are they disposable to help in building these machines and to train the people who could use them within less rich and poor countries; thus, covid and its variants would otherwise continue spreading, and new viruses would otherwise born and spread – see [1], [2], and [3] again – even in rich countries: viruses, in fact, know no borders, as covid and its variants proved.

These are some of the reasons why we need to take the industrial infrastructures and turn off those that produce the bulk of the global warming that threatens to drive us to extinction, and why we need to take and close the industrial “meat factories”, and why we need to take the cultivated lands, whose cultivation today produces the second most important part of the greenhouse effect, to cultivate them without resorting to fossil fuels burning,  which today is mostly used to produce synthetic nitrogen, letting instead work the good old little mushrooms that have taken billions of years to learn how to make nitrogen for good and without polluting, in synergy with the roots of the plants, and thus also letting the lands rest by turning the cultivated plants from year to year, etc., and soon build lots of wind, photovoltaic and photothermal, hydroelectric infrastructures, and produce the necessary batteries without polluting and exploiting people, and start anew everywhere as a world of small federated communities, more or less on the model of Kurdish democratic confederalism, which in the cities could be neighborhoods, and in smaller towns the town itself, where decisions and rules will be defined and refined in assemblies that will be open to all, and which will commercially relate one another by public assemblies as well, through the internet, basing their commercial relations on the answer to the question “which is the closest among other communities that can exchange that resource or that product or that service?”, that will be publicly available information, and socializing through the internet the knowledge they will develop so that, for example, with respect to viral pandemics – that would be then much more seldom anyway –, they would be globally stopped for real and also in a much shorter time; and because we should be clear, by now, also due to the historical experiences of “real communisms,” with their marxist nonsense of the “dictatorship of the proletariat,” which by the way has never been real and produced some of the worst nefariousness in history, that social justice and good levels of social equality require to be backed, along with periodic redistribution of wealth accumulation, that would be culturally ritualized and much more real than today in the context of festivities, by the constant possibility of openly and publicly, verbally confronting in open-to-all assemblies, in every community, about what to do with common goods and common spaces, and about which rules to give ourselves, as this happened already in history, and would happen much better tomorrow due to global free access for all to lay, egalitarian education and knowledge of horrors of the past, that would be widespread everywhere in the world also thanks to the technologies we have developed in the meantime, which should be common heritage of everybody, and due to the abolition of licenses, patents and trade or industrial secrets, and to the possibility that then everyone in the world would have to sublimate their “dark sides” in creativity and lash them out in almost or totally harmless ways, to an extent and with an immersivity that we, as a whole, never had before: the possibility for all to build fictional worlds, with or without fictional stories, using open hardware and software produced by the communities, and to virtually live some time there, and to play and fight and love and build there too, with or without other avatars of others’ selves. This is what arts have always been about, and tomorrow it would be just freely accessible for all, and it would be a great contribution to sublimation and catharsis of our “dark sides”, along with frugal sports and more usual arts and free, respectful love.

And we need to do the anarcho-communist International because it’s our interest not only to save ourselves and the future generations, but also to make the world a much better place for us and our children and everyone else.

There’s no alternative, and time is crucial at this historical stage, and it’s running out not least with respect to the risk of extinction by climate change, that otherwise would happen in this very century, but especially with respect to the increasingly less remote possibility that this umpteenth crisis “of capitalism” will end up again, through the spread of worse and worse nationalisms and wars in which access to those fossil fuels we should have stopped burning yesterday is still one of the main justifications, in an unfolded third world war with a decimation of the global population that would be much heavier than in the previous two (or perhaps, even in this case, with the total extinction of the human species, and so many others): because, in short, this crisis “of capitalism” that we are living today is not only the umpteenth of a series of crises which, on average, have been increasingly damaging, but it’s also totally unprecedented, with its enormous ecological implications which are now, already tragic, with the amount of death and pain they have already caused and are causing now in the world, and which will get much more tragic with the worsening of the already and since long ongoing crisis in the ability of the living to reproduce, even in order to feed us, and with the worsening of water scarcity and drought that is already ongoing, and with so many other problems that patriarcapitalism has caused and is causing, which will certainly worsen and will form a whole that, as if one or a few of its “pieces” wasn’t enough, will be totally fatal for our species and so many others, unless we actually organize and do the anarcho-communist International we need to do, quickly, to transform what otherwise would certainly be a bitter and very painful end for most or all of us, into the foundation and the beginning of a new and much more peaceful, and much more just, and much more happy world for all to live in, and, quite soon, also out of, when anyone who will so desire will have the ability to peacefully live with anyone else, members of terrestrial and non terrestrial species as well, on other planets too, to bring life to those planets were life is not already present and to protect it on those where it is. Because that which is holy and sacred is not much our individual lives, but life itself, that just can’t be stopped, and in order to be a living and healthy part of it, and to peacefully live our individual lives in it, we still have to understand that it is the only “god”, and we have so much more to learn from and about it.

The anarcho-communist International could and would much better start from rich countries, where conscience of the huge inequalities of patriarcapitalism is more widespread and material and cultural conditions are still better than in those many countries where the vast majority of the people of the world lives: by putting an end to the domination of the masters and rulers in our countries we would directly and greatly alleviate the near-slavery conditions of  the populations of the poorest countries, where the local rulers and masters would then no longer receive the more or less overt or covert support and the weapons they receive today from our governments and masters, who are interested only in securing for themselves the possibility to obtain at very low prices the raw materials to be used in the production of tools which are so often overpowered, or even useless or damaging, and also designed, with planned obsolescence, to last much shorter than they could.

Finally: although it would still require being armed, if we managed to be many enough to take the means of production and the cultivated lands in our rich countries, maybe not even a single drop of blood, neither ours nor of our adversaries, would be shed; but time is running fast and it’s very improbable that we will be that many soon enough, so, and in any case, we’d better start or continue with more conviction to organize ourselves secretly, in groups, on an operational level, while continuing to spread our knowledge and ideas publicly.

The problem with libertarian and egalitarian education at the present time

The problem with libertarian and egalitarian education, at the present time, is that the more we adopt an education in which rules are established with children, as they begin to understand the language, and always remain open to being improved and modified, which is necessary and foundational for a wider education to sharing, the more likely it is that children, once they become adults, will have difficulty adjusting to this ultra-hierarchical present, in which social justice is only a verbal expression with such a small correspondence to reality, and that is currently decimating and would possibly extinguish our species and so many others.

But i think it would be worth it all the same, if we made children aware early enough that, at the present time, the adult world is mostly like that; and, above all, if we organized ourselves, for this and so many other reasons, for the necessary anarcho-communist International.

“The dawn of everything”, the “always turn the other cheek” Christian commandment, the Anarchic International and immersive fiction

In their The dawn of everything, David Graeber and David Wengrow prove with archaeological evidence that, in a relatively distant past, there were big cities where people already knew and practiced agriculture, and where, in some cases for more than one millennium, decisions and rules about the commons were taken in open assemblies; thus, they also had good levels of equality in distribution of wealth and resources.

At some point in the book they ask themselves, and obviously their readers too, why, at least now, there is no archaeological evidence of later examples of such big societies which worked that way, and they make an hypothesis: that when three issues or “traits” of centralized accumulation of power and wealth and resources, which i won’t summarize here (read the book! 🙂), intertwine in a given society (like our present societies, since very long time), it’s very difficult to get back, or forward, to equality in distribution of power, work, wealth and resources.

They also emphasize that it is an hypothesis, and that more studies should be done to prove it more, or modify it, or extend it.

Anyway, i have an hypothesis about something that has probably worsened the situation: the Christian commandment to “always turn the other cheek” when anyone treats you bad: although i guess nobody can sincerely tell to really always behave like that, i think it’s a commandment which worked and still works a lot as a moral condemnation of some of the most effective actions any oppressed people can implement against their oppressors, and as a self-justification of fear of implementing it or, sometimes, even of thinking about it.

This bugs me a lot, also because i think that today it would be much easier to build equal societies, after an Anarchic International like this, i.e. after taking the lands to cultivate them without polluting, and the industrial facilities to shut down the polluting ones and build the sustainable alternatives while consuming less and better, which would also save our species and many others from the already ongoing decimation and the otherwise very probable future extinction caused by the current ecological catastrophe and-or the equally severe risks of the ongoing and future wars that the ecological catastrophe itself is very intertwined with: after an Anarchic International like this, in the liberated context it could foster (i.e. a global context of many federated little-to-medium sized communities where decisions and rules about the commons would be defined and refined in open assemblies, and thus we would have very good levels of equality in distribution of work, wealth and resources too, and where two or more communities would settle about exchanges of resources and products with inter-communal assemblies which could be made through the internet), tomorrow we would also have a hugely wider possibility to access and share all knowledge, and to build fictional worlds, with or without fictional stories, using open hardware and software produced by the communities, and to virtually live some time there, and to play and fight and love and build there, with or without other avatars of others’ selves, thus sublimating our dark sides in creativity and lashing them out in almost or totally harmless ways to an extent and with an immersivity that we, as a whole, never had before.

This is what arts have always been about, and tomorrow it would be just freely accessible for all.

Reasons why Meta joining the Fediverse is very bad, how to mitigate the damage, and an idea to save the Fediverse as a new and safer web space

[Last edited on Tuesday, 16 January 2024]

Although i’m sure it won’t avoid most of the damage, i strongly support the Anti-Meta Fedi Pact, and urge Fediverse admins to block Meta’s Threads (currently, the threads.net domain) at their Fediverse instances’ level, because Meta, the producer of Facebook, Whatsapp, Instagram and Threads, is known to do such things as:

  1. profiling users for targeting advertisements [e.g.: 1, 2];
  2. controlling their users emotions;
  3. spreading misinformation and conspiracy theories about November 2020 presidential election in USA;
  4. censoring political organizations – mostly, and by far, of the global left [1, 2], while not censoring political organizations of the most far right (e.g.: italian neofascist organizations like Casapound, Forza Nuova, Lealtà e Azione all have many pages and profiles on Facebook);
  5. facilitating a genocide;
  6. super-exploiting moderators;
  7. censoring wildfires news stories from Canada to Canadian users;
  8. systemically censoring Palestine contents on Instagram and Facebook;
  9. and so much more;

But most Fediverse platforms’ instances, especially most or all of the most populated, are not blocking and won’t block threads.net; thus, using those instances, will be less and less different than using Meta’s products, in terms of data scraping by Meta and users’ privacy, because those instances expose their users to the risk of giving complete access to their “private” messages (messages addressed to “Mentioned people only”, on Mastodon) just by unknowingly or thoughtlessly mentioning Threads accounts in such messages, and to complete access by Meta to their “less public” posts (posts addressed to “Followers only”, on Mastodon), when Threads users will get the possibility to follow other Fediverse platforms accounts, that is soon going to be implemented by Threads developers. Meta has scraped even “less public” posts and “private” messages on its platforms in the past, and it is most probably still doing it, in spite of some court cases that accounted it guilty of doing it and “punished” it, much later than when each one of those abuses was made, with financial penalties that were ludicrous to Meta, because of its huge financial wealth.

To mitigate these risks, users of Fediverse platforms instances that have not blocked the threads.net domain at instance level can still block it by themselves and for themselves only (on Mastodon’s official web frontend, this can be done by clicking on the three dots icon in the lower right corner of any post and choosing Block domain from the popup menu); or they can set their accounts to prompt for their confirmation whenever another account tries to follow theirs (on Mastodon’s official web frontend, this can be done by going to Preferences > Public profile > Privacy and reach tab, and unchecking the Automatically accept new followers checkbox), and then paying attention to not mention any Threads account in their non-public posts (“Followers only” and “Mentioned people only” posts, on Mastodon).

Still, to ensure that the Fediverse won’t become a big barrel from which Meta, and probably other big and medium commercial players in the future, will scrape not only data from public posts, but also from “less public” and “private” posts, the most safe way would be to write a new social networking protocol specification, that could be named FreeSocialProtocol, and to put it under a license or a patent that (1) would prohibit any use of the protocol itself in products that are not open source, and (2) would prohibit its use in products that also use other protocols that are under no licenses, or that are under licenses not prohibiting their use in non-open source products (point 2 would make it a viral license/patent, like the GPL, but only on the open source condition; and necessarily so, because otherwise, this license/patent very purpose would be defeated).

I have no illusion that a new protocol with such a license or patent would be used by many from the start, and maybe it would take long for it to gain traction, or maybe it would never exit the “niche” status, but it would be good all the same even in these cases, and i think there is the possibility that it would gain a lot of traction, soon or later. But, again, i think it would be just and good if it existed even if it was never to exit the “niche” status.

Note 1: i’m trying to verify whether it is possible to create such a license, or such a patent, and to apply it to the specification of a social networking protocol: on Friday, 22 December 2023, i wrote an e-mail to the FSF (using the licensing@fsf.org e-mail address) asking just this; and on Saturday, 6 January 2024, i’ve written to the European section of the FSF too, at its licence-questions@fsfe.org e-mail address, without receiving any answer from both as of today, Tuesday, 16 January 2024.

Note 2: on this topic, you may want to read these ongoing discussions i’m having: the first one with a Fediverse protocols and platform (Streams) developer, the second one with an Akkoma developer (Akkoma is another Fediverse platform, a fork of Pleroma). I think they’re both at least very useful, clarifying and instructive.

Michael Pollan su Timothy Leary

Da Come cambiare la tua mente,
di Michael Pollan (Adelphi, 2019)

«A Harvard stavamo concependo pensieri storicamente estremi» scrisse in seguito Leary a proposito di quel periodo: convinti che «fosse arrivato il momento (dopo i superficiali e nostalgici anni Cinquanta) per visioni rivoluzionarie, sapevamo che l’America aveva esaurito la filosofia, e che era urgentemente necessaria una nuova meta-fisica empirica e tangibile». La bomba e la guerra fredda costituivano lo sfondo essenziale di quelle idee, conferendo al progetto un carattere d’urgenza.

Nel suo passaggio da scienziato a evangelizzatore Leary fu incoraggiato anche da alcuni degli artisti che aveva egli stesso iniziato agli psichedelici. In una memorabile seduta nella sua casa di Newton, nel dicembre del 1960, Leary diede la psilocibina al poeta beat Allen Ginsberg, un uomo che per vestire i panni del profeta visionario non aveva bisogno di alcuna induzione chimica. Verso la fine di un trip estatico, Ginsberg scese incespicando al piano di sotto, si tolse tutti i vestiti e annunciò la propria intenzione di marciare nudo per le strade di Newton predicando il nuovo vangelo.

«Insegneremo alla gente a smettere di odiare» disse, «inizieremo un movimento di pace e amore». Nelle sue parole si può quasi udire la nascita degli anni Sessanta, come un pulcino fluorescente ancora bagnato che rompe il guscio dell’uovo. Quando Leary riuscì a persuadere Allen a non uscire di casa (tra l’altro, era dicembre), il poeta andò al telefono e cominciò a chiamare vari leader mondiali, cercando di farsi passare Kennedy, Chruščëv e Mao Zedong, per cercare di appianare le loro divergenze. Alla fine riuscì a parlare solo con il suo amico Jack Kerouack, presentandosi come Dio («qui è D-I-O che parla») e dicendogli che doveva prendere quei funghi magici.

Al pari di chiunque altro.

Ginsberg era convinto che Leary, il professore di Harvard, fosse l’uomo perfetto per guidare la nuova crociata psichedelica. Per Ginsberg, il fatto che il nuovo profeta «emergesse dall’Università di Harvard», l’alma mater del neoeletto presidente, era un esempio di «commedia storica», giacché qui c’era «il solo e unico Dr. Leary, un essere umano rispettabile, un uomo navigato, messo di fronte al compito d’un Messia». Venendo dal grande poeta, quelle parole caddero come semi sul terreno fertile e ben innaffiato dell’ego di Timothy Leary. (Il fatto che le sostanze psichedeliche possano promuovere un’esperienza di dissoluzione dell’ego, la quale in alcuni individui porta poi rapidamente a una sua colossale espansione, è uno dei loro numerosi paradossi. Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo, chi riceve tale conoscenza tende a sentirsi speciale, prescelto per grandi imprese).

[«Essendo stato ammesso a conoscere un grande segreto dell’universo», mah, boh, io al massimo poi così]

Darwinismo e anarchia

Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (elèuthera, 2021)

Capitolo sesto
Risposta ad alcune obiezioni

[…]

6.4 Il darwinismo non è anarchico

Associare il darwinismo e l’anarchia nello stesso quadro concettuale potrebbe essere fonte di malintesi che vanno evitati. Una prima precisazione si impone. Quando si fa riferimento al darwinismo per spiegare i meccanismi di embriogenesi non si tratta evidentemente di trasferire il meccanismo preciso della selezione naturale così come viene descritto da Darwin. Si tratta piuttosto di recuperare in primis l’ontologia e la specifica causalità introdotte da Darwin, le quali forniscono un nuovo quadro generale per pensare l’ontogenesi. D’altronde, il meccanismo della selezione naturale non era del tutto precisato in Darwin, dal momento che all’epoca non erano completamente note le modalità della variazione. I biologi di solito fanno riferimento al darwinismo in senso lato quando traspongono la selezione naturale al di fuori del suo originale ambito di applicazione. Che sia nella teoria clonale degli anticorpi o nel darwinismo neuronale citati in precedenza, o ancora nel modello anarchico della differenziazione cellulare, il riferimento al darwinismo indica uno schema generale comune e non un’analogia dei meccanismi in senso stretto, cosa che sarebbe assurda. In ognuno di questi casi quel che si intende esattamente con variabilità e selezione è differente. Del resto, fin dall’inizio l’utilizzo del concetto di «selezione» da parte di Darwin era metaforico.

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La competizione fra gli uomini (K. Lorenz)

Da Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, di Konrad Lorenz

La vita organica si è posta, come una strana diga, nel mezzo della corrente dissipatrice dell’energia universale: essa “divora” entropia negativa e cresce attirando a sé energia; man mano che cresce essa acquista la possibilità di accaparrarsi sempre più energia con un ritmo la cui velocità è direttamente proporzionale alla quantità assorbita. Se tali fenomeni non hanno ancora condotto al soffocamento e alla catastrofe, ciò è dovuto anzitutto al fatto che le forze impietose del mondo inorganico, le leggi della probabilità, mantengono entro certi limiti l’incremento degli esseri viventi; ma in secondo luogo anche al formarsi, nell’ambito delle diverse specie, di circuiti regolatori.

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Nel primo capitolo ho spiegato come e perché, nei sistemi viventi, la funzione dei circuiti regolatori, anzi, di quelli a retroazione negativa, sia indispensabile ai fini del mantenimento di uno stato costante; e inoltre come e perché la retroazione positiva, in un circuito, comporti sempre il pericolo di un aumento “a valanga” di un singolo effetto. Un caso specifico di retroazione positiva si verifica quando individui della stessa specie entrano in una competizione che, attraverso la selezione, ne influenza l’evoluzione. Al contrario della selezione causata da fattori ambientali estranei alla specie, la selezione intraspecifica modifica il patrimonio genetico della specie considerata attraverso alterazioni che non solo non favoriscono le prospettive di sopravvivenza della specie, ma, nella maggior parte dei casi, le ostacolano.

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Il mio maestro Oskar Heinroth diceva, nel suo solito modo drastico: «Dopo lo sbatter d’ali del fagiano argo, il ritmo di lavoro dell’umanità moderna costituisce il più stupido prodotto della selezione intraspecifica». Al tempo in cui fu pronunciata, questa affermazione era decisamente profetica, ma oggi è una chiara esagerazione per difetto, un classico understatement. Per l’argo, come per molti altri animali con sviluppo analogo, le influenze ambientali impediscono che la specie proceda, per effetto della selezione intraspecifica, su strade evolutive mostruose e infine verso la catastrofe. Ma nessuna forza esercita un salutare effetto regolatore di questo tipo sullo sviluppo culturale dell’umanità; per sua sventura essa ha imparato a dominare tutte le potenze dell’ambiente estranee alla sua specie, e tuttavia sa così poco di sé stessa da trovarsi inerme in balìa delle conseguenze diaboliche della selezione intraspecifica.

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La competizione fra uomo e uomo agisce, come nessun fattore biologico ha mai agito, in senso direttamente opposto a quella «potenza eternamente attiva, beneficamente creatrice».

Da «Negoziare con il male», di Piero Coppo

4.2. Può un gesuita essere stregone?

Nel 1957 Eric de Rosny, gesuita, è inviato in Camerun, a Duala, per insegnare francese e inglese al Collegio cattolico Libermann. Il contatto con i suoi allievi, giovani liceali camerunesi, lo convince ben presto che, senza una conoscenza delle basi della loro cultura, gli sarebbe stato impossibile svolgere bene il suo mestiere. In particolare, un episodio lo obbliga a interrogarsi sulla cultura d’origine di quei giovani. Una notte, nel dormitorio, un giovane allievo è preso da convulsioni, con spasmi violenti e incontrollabili frammisti a grida: «Acqua, acqua!» Finalmente gli spruzzano addosso dell’acqua, che lo calma. Gli altri allievi spiegano che non è una crisi normale, ma una possessione da parte di jengu, lo spirito dell’acqua, che non vuole che il giovane resti al Collegio. Nonostante tutti gli sforzi del gesuita, da quel giorno il giovane non riesce più a seguire le lezioni, e resta per ore seduto al banco, prostrato e assente. Fino a che, per allontanarlo dalle «cattive influenze», la famiglia lo ritira dal Collegio e lo invia in una cittadina del Nord. Rosny non ne avrà più notizie; ma aver condiviso con i suoi compagni il dramma di quella notte apre all’insegnante una via di comunicazione con gli allievi su differenti aspetti della loro cultura di origine, e non solo sulla cultura che Rosny rappresenta e alla quale, attraverso gli studi, i giovani avrebbero dovuto accedere. Iniziano così loro a parlare, e Rosny a chiedere, di stregoneria, antenati, spiriti e geni. L’interesse del gesuita per quel mondo che inizia a svelarsi, per quella cultura1, lo costringe a interrogarsi perché mai, mentre

i giovani africani sono attirati in un universo nuovo, quello dei Lumi, della scienza e di un modo di vita planetario … io invece sono trascinato nel mondo della notte, dei simboli e dei riti iniziatici? Perché sono attirato dalle manifestazioni di una cultura evidentemente fin d’ora condannata. Domanda irritante, che respingo come una tentazione, ma alla quale dovrò pure, un giorno, rispondere (Rosny 1981, p. 23).

Nel suo alloggio a Duala, il gesuita sente tutti i sabati, di notte, un tamburo suonare in una casa vicina, con ritmi a volte lenti a volte precipitosi. L’emozione che gli suscita gli ricorda quella provata, da bambino, quando la sera, nella campagna francese, andava a ritirare le lenze da fondo nei fossati.

Sotto la superficie di quell’acqua calma e scura, che per me ricopriva un abisso, immaginavo tutta l’intensità della vita di un ambiente misterioso. Mi sottoponevo alla più totale solitudine e al più grande silenzio interno per avvicinarmi alla riva, sulla punta dei piedi, lì dove la lenza si immergeva. Se faceva dei bruschi zig-zag, ero come paralizzato insieme dalla paura e dalla gioia. Gli altri tipi di pesca, con la mosca o col galleggiante, non mi soggiogavano nello stesso modo. Solo questa lenza da fondo, questo tamburo nella notte… Dei richiami… Degli avvertimenti venuti da quali profondità? (ibid., p. 47)

Da qualunque parte venisse, il richiamo aveva funzionato. Il sacerdote chiede di essere ammesso alle cerimonie che, la notte di ogni sabato, si svolgono nella casa di Din, un guaritore esperto in pratiche di controstregoneria. Din è un mota bwanga, un conoscitore e possessore di rimedi carichi di una potenza che supera i semplici farmaci; ma anche un nganga, un terapeuta tradizionale conoscitore dei comuni rimedi. I mota bwanga sono nemici degli stregoni: sia dei bato ba lemba (quelli che si procurano, spesso comprandoli, oggetti malefici e possono divenire invisibili), sia dei bato b’ewusu, quelli che hanno ricevuto per eredità il bisogno, per aumentare la propria forza, di divorare altri umani (detti anche stregoni dell’acqua, o del caimano: quelli che uccidono e divorano). Infine, i bato b’ekong portano via la componente invisibile, il doppio di altri umani, fino a farli morire, perché lavorino nelle loro piantagioni invisibili, e accumulare così ricchezze che non hanno, nel mondo ordinario, giustificazioni. I comuni mortali vedono le vittime ammalarsi, deperire e morire mentre vicino a loro altri prosperano e si arricchiscono senza ragione; gli iniziati invece vedono, come in pieno giorno, il traffico di uomini che c’è sotto. Ekong era, una volta, il nome di una associazione che riuniva commercianti, notabili e capi: era un gruppo di potere, certo, ma non aveva il carattere malefico, nascosto e odioso che ha invece oggi, dovuto forse, secondo l’autore, all’apparizione in quel contesto della carta moneta e del lavoro salariato.

Rosny comincia così a partecipare alle cerimonie nel corso delle quali Din si immerge in un’altra dimensione, lo ndimsi, non percepibile dai comuni mortali, dove stanno le intenzioni segrete e i disegni nascosti, e che bisogna frequentare per poter agire sulla salute, la malattia, la fortuna e la sfortuna dei singoli. È proprio in questa dimensione che gli stregoni catturano la forza della vita, il doppio degli altri, per sottometterli ai loro propri interessi; è quindi in questa dimensione che il controstregone, vero e proprio guerriero dell’invisibile, deve immergersi per combatterli. L’esecutore delle intenzioni degli stregoni è il nyungu («arcobaleno» in lingua duala), il serpente malefico che solo chi è dotato della doppia vista può vedere in azione anche nella vita ordinaria: si nasconde nelle case, gira in cerca delle sue vittime per mangiarne il cuore. Poiché è invisibile agli occhi ordinari, la sua presenza è svelata dai rumori strani che abitano la notte, o dall’improvviso schiamazzare dei polli e latrare dei cani. La mattina, se ne possono osservare le tracce sulla sabbia.

Vestito di rosso, una sciarpa alla vita, Din alterna nelle cerimonie notturne esibizioni davanti al pubblico (danze, canzoni, fachirismi), interventi diagnostici (sulla natura del problema, sulla sua causa soprannaturale), prescrizioni terapeutiche (sacrifici da fare, azioni da intraprendere) e lunghi periodi in cui, sdraiato e immobile dentro la stanza che racchiude i suoi oggetti di potere, lascia il corpo per accedere allo ndimsi, condurre le sue battaglie, prendere le necessarie informazioni.

A tutto questo il gesuita partecipa e tutto descrive, mano a mano che ha accesso a quella visione del mondo e a quel sistema originale e complesso di gestione del male, della sfortuna, delle disgrazie. Lì, il guaritore e soprattutto il controstregone svolgono un ruolo fondamentale, riordinando il disordine, regolando conflitti, aggressioni, risentimenti. Strada facendo, però, Rosny incontra problemi che non aveva previsto e registra anche in se stesso dei cambiamenti.

Intanto, coinvolto in alcuni processi di guarigione gestiti da Din, si trova costretto a prendere partito; e comunque viene percepito dall’ambiente come un suo alleato, vista l’assiduità della presenza al suo fianco. E forse, non solo un alleato, ma addirittura un allievo. E che allievo! Un bianco, un sacerdote, un insegnante al prestigioso Collegio Liberman, dove si formano al mondo dei bianchi (e, spesso, a lasciare quello degli antenati) i figli delle nuove élite camerunesi. Così, in un paio di occasioni, il ricercatore si trova in pericolo, circondato da una piccola folla minacciosa che lo teme come stregone, o esposto al sospetto di far parte di una confraternita dalle ambigue intenzioni, quando, con altri, si reca lontano, nella boscaglia, alla ricerca delle piante necessarie. Sperimenta così, sulla propria pelle, quanto sia difficile mantenersi sul filo di rasoio che separa guaritori e stregoni; equilibrio che solo una scelta esplicita di campo, mai però definitiva per gli altri, può consentire: esporsi, operando pubblicamente, appunto, come controstregone.

Poi, la relazione col suo maestro conosce dei momenti di crisi. Din, quando andava nella casa del gesuita, beveva l’acqua che gli veniva offerta solo dopo averci messo un piccolo oggetto, un oggetto di protezione, che poi riprendeva dal bicchiere vuoto. A volte, il maestro esprimeva il dubbio che l’allievo volesse carpire i suoi segreti per poi eliminarlo, e prenderne il posto. Dal canto suo, un mattino, il gesuita, alzandosi dal letto, era stato preso da vertigine, al punto da non riuscire ad attraversare la strada. D’improvviso, un pensiero inaspettato lo aveva attraversato: Din gli aveva forse somministrato un veleno? Il crescere di questa reciproca diffidenza andava di pari passo con la trasmissione sempre più approfondita da Din al gesuita del saper-fare del guaritore. Anzi: più il gesuita veniva accompagnato dentro quel sistema, più aumentavano gli equivoci, le diffidenze, le prese di distanza. C’era ovviamente una sola via per continuare quel lavoro, la via che Din aveva infatti un giorno proposto al sacerdote, in seguito alla sua ennesima richiesta di spiegazioni: se vuoi continuare a vedere quello che faccio, non ho niente da dirti, continua a guardare ed è tutto; ma se vuoi veramente vedere, allora dobbiamo fare una «convenzione». Davanti a questo ulteriore, impegnativo passo, il gesuita prende tempo per riflettere. Nel corso di un soggiorno a Parigi, chiede consiglio ad altri della sua confraternita e si espone ad alcune sedute di psicoanalisi di gruppo, che descrive nel suo libro. Le dinamiche che vive in quel contesto lo costringono a una implicazione personale, emotiva, diretta. Si rende conto, allora, che fino a quel punto aveva preso, a scuola dal controstregone, la posizione dello studente muto e riservato, seduto in un angolo, a distanza dal tavolo dove si giocava l’azione; e capisce che ci sono solo due modi per cambiare posizione: o mettersi dalla parte delle vittime, dei perseguitati, degli stregati e quindi subire un trattamento; o «farsi aprire gli occhi» per essere davvero, da allora in poi, insieme ai maestri della notte.

Nella cultura duala, infatti, gli umani dispongono di quattro occhi. Chiudono quelli visibili nel momento della morte, per aprire gli altri sul regno degli antenati. Ma alcuni nascono con i quattro occhi aperti. Ci si rende conto di questa anomalia quando, per esempio, un bambino vede passare furtivamente l’ombra di qualcuno che muore poco tempo dopo. Allora i familiari si affrettano a farglieli chiudere, a «trapassare» i due occhi aperti sull’invisibile con un idoneo trattamento, perché un bambino non ha la forza per sopportare simili rivelazioni. Quelli che sanno chiudere gli occhi sanno però anche come aprirli. Gli umani che così sommano le due visioni, quella dei vivi e quella dei morti, fanno da intermediari tra il mondo visibile e quello invisibile. Vedono le cose nascoste e quindi sono incaricati dal gruppo di intervenire per contrastare l’attività degli stregoni. È tra loro che si scelgono e si formano i controstregoni (cfr. Rosny 1981, pp. 313-14).

Il gesuita alla fine decide, e chiede a Din di aprirgli gli occhi; vuole passare la soglia. Si tratta quindi di chiarire le condizioni: stipulare la «convenzione». Il controstregone si rivolge così ai suoi altari, in presenza dell’allievo:

Gli chiederò cosa mi darà in cambio del mio insegnamento, quale grande gesto farà per me. Per aprire gli occhi, la tradizione vuole che si domandi un «animale senza peli sul corpo», e cioè una persona. Quando avrai ucciso questa persona, allora, ma allora soltanto, ti verrà messo qualcosa negli occhi, e comincerai a vedere la notte, a sapere tutto. Ma io rifiuto questa cosa. Non sono d’accordo con questa transazione. Non mi hanno insegnato le cose in questo modo. Siete voi, le piante e le erbe, che mi avete aperto gli occhi. Al posto della persona, si può portare una capra. (ibid., p. 336)

Il gesuita-antropologo offre allora la capra e descrive poi minuziosamente la sua iniziazione, che dura parecchie settimane, e i suoi stati d’animo mentre vi si inoltra, passo dopo passo, seguendo le indicazioni di Din. E, intanto, riflette sull’ambiguità degli uomini di potere, e quindi anche di Din, e, forse, anche sull’ambiguità della sua ricerca e della sua propria storia: ambiguità delle motivazioni, delle intenzioni. A questo punto, non può più procedere solo: chiede a un gruppo di confratelli di rendersi disponibili a un dialogo epistolare che lo sorregga. Nel corso della sua iniziazione, diventa molto sensibile ai conflitti, di qualsiasi natura, che hanno luogo attorno a lui; in occasioni precise, come si somministra un farmaco, Din gli versa delle gocce negli occhi. Un giorno, all’alba, c’è come uno scatto, un evento critico: di colpo «vede chiaro», percepisce nettamente e con freddezza la violenza che c’è nel mondo e vede, come sovrapposte per un effetto cinematografico, mille immagini di conflitti mondiali (cfr. Rosny 1981, p. 359). La prima facoltà che acquista come aspirante controstregone è dunque la percezione lucida e ferma degli atti di violenza che hanno luogo attorno a lui: diviene capace di guardare sotto le forme sociali, addomesticate, delle relazioni tra umani. Questa facoltà spiega la paura dei nuovi iniziati, e il loro isolamento.

La grande paura del futuro iniziato viene dall’anomalia della sua situazione sociale, anomalia che gli procura degli incubi. È un uomo solo. Sollevando il mantello della violenza, va controcorrente rispetto a tutte le tendenze della vita pubblica e a ritroso della sua educazione. Controstregone per definizione, sarà sempre sospettato di divenire il suo contrario, perché percepisce la violenza e gioca con essa. (ibid., p. 362)

Poco dopo aver «aperto gli occhi» al gesuita, Din, il suo iniziatore, muore. I sospetti inizialmente cadono sull’allievo, che avrebbe potuto volerne la morte per prenderne il posto; sospetti che motivano una serie di azioni di riparazione e conciliazione da parte di Rosny. In seguito, il gesuita è chiamato non solo a fare l’indovino (visto che gli avevano «aperto gli occhi») e il guaritore; ma addirittura a iniziare, ad «aprire gli occhi» a guaritori locali che avevano avuto una iniziazione incompleta. Tutte queste attività, così come il suo tentativo di aprire pubblicamente, anche sui media, il dibattito sulla stregoneria, lo coinvolgono profondamente e lo espongono a rischi e fraintendimenti. Come quando un articolo sulle sue attività comparso su «Paris-Match» col titolo Un padre gesuita divenuto stregone. È la rivincita degli dei africani!, induce la gerarchia ecclesiastica a chiedergli ragione della sua posizione (cfr. Rosny 1996, pp. 196 sgg.).

Oggi, è il patriarca Eric de Rosny Dibounje, dove dibounje sta per «germoglio». Così descrive il suo percorso:

Scendere dal germoglio al ceppo, come ho fatto io, andando contro la corrente della linfa, necessita per uno straniero decenni di radicamento. Vorrei approfittare dell’esperienza fatta e sempre in corso per cercare di far condividere la mia convinzione: là dove restano vive le radici della tradizione, il grande albero Africa, che venti contrari scuotono così pericolosamente, può piegarsi, ma non spezzarsi; o anche, avvampare, ma non bruciare: «il baobab non arde»! (Rosny 2003)

Lungo questa strada, il gesuita si è trovato costretto a riflettere anche sulle sue proprie radici.

Diversamente dal sistema della stregoneria che riesce a scartare provvisoriamente la minaccia del male, per la salvaguardia dell’unità del clan, il cristianesimo pretende di sopprimerlo radicalmente. Il progetto che si è realizzato nello stesso Gesù Cristo [prendere su di sé tutta la violenza del mondo, e con questo produrre un effetto liberatorio decisivo], è proposto nel tempo alla libertà di ciascuno. Una problematica tanto rivoluzionaria – se la si situa nella storia delle religioni – ha la sua influenza sul comportamento dei credenti nei confronti della violenza. Quando appartengono a famiglie cristiane secolari, ne sono impregnati a tal punto, e fino nel profondo del loro inconscio, da essere meno portati ad averne paura. Mi domando perfino se la società europea, che è stata per tanto tempo segnata dal cristianesimo, non debba ad esso almeno l’audacia di far scoppiare la violenza alla luce del giorno.

Mi rendo conto oggi che l’iniziazione attraverso la quale mi ha fatto passare Din non era la prima. Nel contesto della mia vita religiosa, avevo già seguito sotto la direzione di un maestro un percorso chiamato «esercizi spirituali», che è una forma di iniziazione. Per tre volte, nel corso di un mese, il novizio si impegna a seguire un percorso programmato, che lo porta a cambiare il suo sguardo. Impara delle tecniche di contemplazione e non gli sono risparmiate le visioni di violenza. Ma passati i primi giorni, molto presto la vita di Gesù gli è offerta come modello da guardare e imitare. È impregnato della certezza che il Cristo ha vinto la morte. Così avevo già, in un certo modo, aperti gli occhi sulla violenza, quando Din ha iniziato il suo trattamento. Né lui né io potevamo sapere, allora, che iniziavamo un lavoro di sovrimpressione, senza possibile coincidenza reale. (Rosny 1981, p. 363)

Senza possibile coincidenza reale… Certo, le modalità con cui si cerca di gestire il fondo oscuro dell’animo umano sono diverse nei vari gruppi. Tra la lotta frontale dei cristiani contro il male, perché sia finalmente estirpato dal cuore di ognuno e addirittura dal mondo intero, ricacciando Satana nelle tenebre, e la negoziazione attenta dei gruppi africani, sta la differenza che c’è tra il sogno prometeico e il paziente lavoro di umani che sanno i loro limiti e la loro posizione nel mondo.


1. «Con questo termine non designo la schiuma lussuosa di una civiltà, ma lo spirito molto particolare, inafferrabile, di un popolo. Ci sono forse altri modi per renderne conto se non attraverso gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi?» (Rosny 1981, p. 30).