Sarà stato un annetto fa, una mattina mi alzo e vado a comprare bombolette spray nei colori bianco, rosso, grigio e nero. Sono i colori che mi servono per restaurare il murale “Corvetto antifascista” all’angolo tra Via Barzoni e Piazza Gabriele Rosa (“gabrirosa”) e quello “Abd El Salam vive nelle lotte” che i VolksWriterz fecero ormai credo una decina di anni fa nel quartiere in cui abito da sempre, a Milano, coprendo con i colori originali dello sfondo le cinque o sei svastiche, di cui una a sfregio sul ritratto del volto di Abd El Salam, che qualche imbecille gli aveva fatto sopra ormai mezz’anno prima, almeno; e così subito dopo faccio, in pieno giorno, verso le 12, perché valuto che sia una cosa troppo lunga perché il rischio sia minore facendola alle prime luci dell’alba.
Qualche giorno dopo mi alzo presto e vado a cancellare tre scritte razzistissime e-o fascistissime e-o nazistissime e-o sessistissime che stavano in Viale Omero ormai da qualche anno senza che nessuno le coprisse (figuriamoci il comune). Quando ho finito, faccio una piccola “A” cerchiata rossa sul muro della scuola della chiesa di gabrirosa, quello che dà su Viale Omero, e su cui da tanti anni ci sono tante altre scritte: qualche piccolo graffito, varie dichiarazioni d’amore. Mentre mi allontano tranquillamente, sento da lontano una voce: “Ehi tu, fermo!”. Mi volto e vedo, a circa 200 metri di distanza, un tizio, che non ho mai notato in zona prima, il quale, brandendo il proprio fido telefonetto con l’obiettivo rivolto verso di me, mi si avvicina di corsa riprendendo ancora nulla di distinguibile, data la distanza. Mi giro di nuovo dall’altra parte e ricomincio a camminare, a passo solo un po’ più sostenuto, verso casa: di scappare da un imbecille non mi va. L’imbecille mi raggiunge e, ancora brandendo il telefono, mi mette una mano sulla spalla e mi tira. Mi volto, lui continua a riprendere e mi dice “Vandalo! Idiota! Ora mando il video ai carabinieri!”; gli rispondo “Se ti dico che prima ho coperto un tot di scritte fasciste t’incazzi di più?”, mi volto e riprendo a camminare verso casa, dandomi qualche occhiata alle spalle ogni tanto; lui dietro, seguendomi, ancora brandendo il telefonetto, ora alto sopra la testa, mi urla “Deficiente! Fermati se sei un uomo, se hai il coraggio delle tue idee!”. A quel punto so che se mi fermo non è improbabile che uno dei due finisca all’ospedale, perché non ho mai alzato le mani su nessuno, prima, ma il pensiero che questo stronzo mi stia dicendo così mentre mi filma per mandare il filmato ai carabinieri tende a imbizzarrirmi, e anzi, stento già a tenere a bada la rabbia; perciò allungo il passo e lo distanzio, fino a quando si ferma, non prima di aver proferito l’ultimo insulto abilista di una lunga serie.
Da allora l’avrò incontrato altre quattro o cinque volte, il più delle volte in un bar, lui a bere qualche bicchiere di bianco frizzante e-o giocare alle slot (più spesso la seconda), io a prendere un ginseng o un caffè a volte corretto grappa, e sempre entrambi abbiamo fatto finta di nulla.
Stamattina vado a uno dei due bar dove vado di solito la mattina a prendere il ginseng grande e me lo trovo lì, al banco, con il solito bicchiere di bianco in mano. Chiedo il ginseng e poi mi volto verso di lui e gli chiedo: “Tu sei quello che mi ha ripreso qualche tempo fa dopo che avevo fatto la scritta, vero?”; sta lì qualche secondo immobile, poi dice “Si”; gli dico “Sei proprio un essere squallido”; mi risponde dopo qualche secondo “Anche tu, tu sei un vandalo, e vattene o ti metto le mani addosso”; subito dopo va sulla porta del bar e guarda a destra e sinistra cercando con lo sguardo qualche tutore della legge. Lì resta, continuando a guardare a destra e sinistra, buttando a volte uno sguardo verso di me. Di nuovo ho la stessa tensione della prima volta. Stavolta penso che potrebbe pure scapparci un morto. Mi trema un po’ la mano. Metto giù il ginseng, esco dal bar, sull’uscio metto la mia testa davanti alla sua e i miei occhi nei suoi guardandolo con odio, poi mi allontano di qualche passo, mi fermo, mi volto e gli faccio un medio dicendogli ad alta voce “Crepa, pezzo di merda”, tra qualche passante che guarda con qualche preoccupazione. Lui resta fermo per qualche secondo, poi estrae il fido telefonetto. Mi giro e mi allontano a passo spedito faticando, di nuovo, a contenere la rabbia gigante. Cammino e cammino spedito e, dopo circa 500 metri, quando mi è un po’ sbollita, entro nell’altro bar solito, prendo un ginseng grande, pago, esco e mi dirigo ancora a passo sostenuto verso il bar dove poco prima avevo incontrato lo stronzo, per pagare il ginseng che non avevo pagato là. Arrivo, entro, e lui è ancora lì, col suo calicino di bianco frizzante, appoggiato con un gomito al bancone, sembra abbastanza rinfrancato, abbastanza tranquillo, mi guarda con un misto di disprezzo e di timore. Metto i due euri in moneta sul bancone sorridendo alla barista cinese, che mi sorride di rimando, solo un po’ tesa. Mi volto verso il tizio e gli mostro di nuovo il medio dicendogli “Fottiti, stronzo”. Rimane lì così, con lo sguardo vacuo. Mi volto, esco e faccio una camminatona a passo veloce fino a Chiaravalle, attraverso la Vettabbia all’andata, e attraverso il parco Cassinis (o “delle rose”) al ritorno, dove, ormai sbollita la rabbia, ormai poco distante da casa, metto la testa nel pertugio tra le due porte di ferro arrugginito che precludono l’accesso al cortile di un grossista di piante. Chiamo “Tequila!”, e lei c’è: arriva scodinzolante e dolcissima si prende tutte le mie carezze e anche un bacino sul muso. La saluto poi con tanto magone e torno a casa.