L’amore è uno stregone, un fuoco isterico, magnifico

Tanto tempo fa, quando mia madre decise che 8 anni di psicoanalisi a 4 sedute la settimana eran troppi, visti i costi molto alti per noi e quelli che per lei erano “scarsi risultati” (in effetti non eran granché, però qualcosina si), la mia psicoanalista (di formazione freudiana) nell’ultima seduta mi chiese “Le emozioni da dove arrivano, dal corpo o dalla mente?”; io ero già pronto ad argomentare che “un po’ dal corpo, ma anche un po’ dalla mente”, però va be’ era l’ultima seduta e non avevo voglia di discutere e risposi “dal corpo”, e lei annuì. E a volte mi pare vero che le emozioni vengono dal corpo, e penso che un’ipotetica mente “da sempre senza corpo” non proverebbe niente, né avrebbe modo di (ri)evocare emozioni. Però forse invece il desiderio è innato: forse un’ipotetica mente “da sempre senza corpo” desidererebbe, e soffrirebbe l’impossibilità. Anzi, sono proprio di questa idea. E a volte penso che la condizione prenatale, una volta sviluppatosi un sistema nervoso centrale, sia il “paradiso perduto” da cui tutt* veniamo: una fusione con un altro corpo che soddisfa ogni nostro desiderio, bisogno; e forse il desiderio amoroso-sessuale non è che un desiderio di ritorno, per quanto fugace, a quella condizione… “L’amore è uno stregone, un fuoco isterico, magnifico”:

Una cosmoAgonia e due cosmogonie

Una cosmoAgonia

Un giorno il nostro universo va da un altro universo, che è il suo dottore, e gli dice: “Ho questo prurito costante, non doloroso ma piuttosto fastidioso, in fondo alla gola”. L’universo dottore gli fa fare delle analisi. Dalle analisi risulta che, nel corpaccione dell’universo, nella via lattea, c’è un pianeta, la terra, infestato di vita. “Vede”, dice l’universo dottore al nostro universo, “tutti gli altri pianeti sono in buona salute, ma questo pianetino qui è tutto coperto di vita, guardi, ci sono già dei dinosauri”. “È pericoloso?”, chiede il nostro universo. “Per ora no”, risponde l’universo dottore, “ma potrebbe diventarlo: se non interveniamo subito eliminando la vita da questo pianeta, quella potrebbe espandersi su altri pianeti, e poi altri, e poi altri ancora, e lei potrebbe morire di questa infezione”. Il nostro universo impallidisce un po’. L’universo dottore si affretta a proseguire, mentre scrive veloce su un foglietto: “Ma non tema, è una cosa abbastanza comune, di solito basta bombardare il pianeta infestato con questi cortico-asteroidi e il problema si risolve”. L’universo dottore stacca la ricetta dei cortico-asteroidi e la porge al nostro universo dicendogli: “Prenda questi a ore pasti per un mese e poi faccia queste analisi di controllo”. Il nostro universo ringrazia ed esce dallo studio del dottore, si reca in farmacia, acquista i cortico-asteroidi, li prende per un mese a ore pasti, si sente meglio, ma dalle analisi di controllo risulta che si, i dinosauri sono spariti, però ci sono ancora vegetali e altre forme di vita. “Mi spiace”, dice l’universo dottore, “dev’essere una forma un po’ resistente. Però non si preoccupi, c’è questa nuova tecnica che funziona nella stragrande maggioranza dei casi asteroidoresistenti come il suo, si tratta di modificare geneticamente una specie vivente abbastanza aggressiva con le altre e con sé stessa, così che diventi molto più intelligente delle altre; questa specie di scimmie, che una volta geneticamente modificate chiamiamo uomini, in breve tempo – circa due mesi – porta l’ecosistema del pianeta al collasso e gli dà poi il colpo di grazia con un’ultima guerra tra quelle che chiamiamo nazioni, così da eliminarsi ed eliminare al contempo tutto il resto del vivente dalla faccia della terra”.

Una cosmogonia

Un giorno la nostra universa fa un test di gravidanza e, con grandissima gioia, scopre di essere incinta: un pianetino della via lattea, la terra, è già coperto di vita, che tra sette anni si sarà evoluta e diffusa su tanti e tanti altri pianeti, che formeranno così un nuovo universo, che la nostra universa partorirà attraverso un suo buco nero. La nostra universa torna a casa. Non ha un universo compagno a cui annunciare che è incinta: l’universo padre si è involato dopo averla messa incinta. Erano d’accordo così: lei voleva un universo figlio, lui le piaceva abbastanza ma non tanto e del resto lui non voleva storie serie e lei non ne voleva una con lui. E però lei un compagno lo vorrebbe. E una sera si innamora di un universo per bene, ricco e famoso. E un mese dopo gli dice che è incinta, e lui la prende malissimo, ne nasce un alterco pesante, lei fa per andarsene da casa di lui, gli dice “Non voglio vederti mai più!”, lui urla “Tu non vai da nessuna parte!”, la spinge da dietro, lei cade in avanti sul pianerottolo, poi si rialza e scappa e torna a casa.

Il giorno dopo la nostra universa fissa un appuntamento per un esame di controllo, una settimana dopo va a ritirare i risultati, c’è un problema: uno sciame di asteroidi, deviato dalla botta conseguente alla caduta sul pianerottolo, ha colpito la terra, la prima cellula del suo nuovo universo, e la vita sul pianeta è piuttosto malmessa. “Però non è scomparsa”, dice l’universo dottore che le sta mostrando i risultati dell’ecografia, “e ci sono buone probabilità che si riprenda”. La nostra universa pensa prima di uccidere l’universo per bene, ricco e violento; poi di denunciarlo; poi lascia perdere, perché quell’universo è ricchissimo e in tribunale vincerebbe.

Un mese dopo, al successivo controllo, tutto sembra essersi sistemato, e c’è già sulla terra una forma di vita, una specie, che sta evolvendo una grande intelligenza e sembra quindi promettere bene per la diffusione della vita su altri pianeti e quindi la formazione dei tessuti del nuovo universo di cui la nostra universa è incinta.

Ma l’universo per bene, ricco e violento, corrompe un altrettanto meschino universo, barista, e per suo tramite avvelena la nostra universa, con l’intenzione di farle perdere l’universo figlio: il veleno mette in contatto gli umani con l’universo per bene, ricco e violento, e li spinge ad adorarlo come un dio; gli umani diventano molto aggressivi tra loro e con le altre specie, ogni umano diventa uno schiavista-schiavizzato, l’universo per bene, ricco e violento, li sta mettendo sulla strada dell’estinzione della vita tutta sul pianeta, loro compresi.

All’esame di controllo successivo, l’universo medico rileva dalle analisi questa situazione degli umani, ma non è in grado di risalire alle cause; si limita a prescrivere alla nostra universa una medicina che modifica alcune piante sulla terra permettendo agli umani che le assumono di mettersi in contatto con la nostra universa…

Un’altra cosmogonia

L’umanità, allo stato attuale – soprattuttissimamente ricconi e potentoni dell’industria del fossile, di quella agricola e dell’allevamento, ecc. – sta devastando la vita sul pianeta, ma sarebbe anche l’unica specie con il potenziale per espanderla su altri pianeti e connetterla con altra vita già esistente o portata lì da noi, cosa che – anche se forse non dovrebbe interessarci punto – magari sarebbe positiva anche per l’universo, per esempio se corrispondesse ad attivare nuovi neuroni e connetterli con nuove sinapsi nella psiche di un universo bambino; ma prima ovviamente l’umanità dovrebbe imparare a non distruggere qui, soprattuttissimamente i ricconi e potentoni di cui sopra, che siccome però non fanno altro che distruggere, andrebbero eliminati.

Mucche e porcelli felici

Da Il dilemma dell’onnivoro,
di Michael Pollan

Da un punto di vista biologico, coltivare è sempre stato un processo di conversione della luce solare in una fonte alimentare; oggi è diventato in misura significativa un processo di trasformazione dei combustibili fossili in cibo. Ecco perché la terra della contea di Greene, che prima si copriva periodicamente di verde, è sempre nera: gli agricoltori si comprano la fertilità sintetica in negozio e non hanno più bisogno di tenere i campi coltivati con altre specie che catturino l’energia solare per tutto l’anno; è come se si fossero attaccati a una nuova presa di corrente. Se sommiamo il gas naturale presente nel concime, il combustibile utilizzato nella fabbricazione dei pesticidi, quello necessario per i trattori, per il raccolto, l’essiccazione e il trasporto, troviamo che un quintale di mais prodotto con metodi industriali consuma l’equivalente di 4-4,5 litri di petrolio, ovvero 470 litri all’ettaro (certe stime portano a valori molto più alti). Detto in altro modo, per produrre una caloria alimentare ci vuole più di una caloria di combustibili fossili.


Accanto a me 534 [un manzo] stava abbassando il testone, tuffandolo nel fiume di mangime fresco. Che assurdità, pensavo: siamo qui immersi nel letame, con una bella vista su una pozza marrone, in questo posto dimenticato da dio, nel mezzo del nulla in Kansas. Dimenticato, forse, ma non separato, come ho capito pensando ai molti altri luoghi connessi in qualche modo a questo sito dal fiume di mais industriale. Ho risalito il flusso da questa mangiatoia fino al campo in cui è stato raccolto e mi sono ritrovato nel mezzo dei trecentoventimila chilometri quadrati di monocoltura, sotto una fitta pioggia di pesticidi e fertilizzanti. Continuando, potevo seguire l’azoto mentre scappava via da tutto quel concime chimico e finiva nel Golfo del Messico, aggiungendo il suo veleno a quello che ha già reso duecentomila chilometri quadrati di mare un deserto così povero di ossigeno che nulla tranne le alghe vi può sopravvivere. E ancora, a ritroso, guardavo il fertilizzante (e il carburante, e i pesticidi) servito per far crescere tutto quel mais tornare indietro da dove era venuto, dai giacimenti di petrolio del Golfo Persico.

Non sono così immaginifico da fissare il mio manzo e vederci un barile di petrolio. Eppure questo è oggi uno degli ingredienti principali nella produzione di carne, e il Golfo Persico è sicuramente un anello della catena alimentare che passa per questo feedlot (e per tutti gli altri). 534 ha iniziato il suo ciclo vitale come parte di una catena la cui fonte di energia primaria era il sole, che faceva crescere le piante di cui si nutriva con sua madre. Quando si è trasferito dal ranch all’allevamento intensivo, passando dall’erba al mais, è entrato in una catena industriale spinta dal combustibile fossile, e quindi difesa dal complesso militare (un altro costo di cui non si tiene mai conto): un quinto di tutto il petrolio consumato in America viene utilizzato per la produzione e il trasporto degli alimenti. Ritornato a casa, ho chiesto a un economista che si occupa in modo specifico di agricoltura se fosse possibile calcolare precisamente quanto combustibile sarebbe stato necessario per far crescere il mio manzo e portarlo fino al macello. Supponendo che 534 continui a mangiare dodici chili di mais al giorno e raggiunga i seicento chili di peso, consumerebbe l’equivalente di centotrenta litri di petrolio (quasi un barile).


Il modo più elementare per convertire l’energia solare in una forma utilizzabile dagli animali è sfruttare l’erba. Come dice Joel, «questi fili sono i nostri impianti fotovoltaici». E il modo più efficiente, anche se forse non il più semplice, per coltivare grandi quantità di questi pannelli solari è la gestione intensiva del pascolo, un metodo che come dice la parola stessa si basa più sulla strategia che sul capitale, o sull’energia fornita dall’esterno. Per iniziare basta qualche recinto elettrificato mobile, la voglia di lavorare ogni giorno per spostare gli animali su pascoli freschi e quel tipo di profonda conoscenza delle specie erbacee che Joel cercava di infondermi quel mattino di primavera, sdraiato a pancia in giù su un prato.

«La cosa più importante da sapere è che la crescita delle erbe segue una curva sigmoidale, cioè a “S”». Joel mi prese penna e taccuino e si mise a disegnare un grafico, copiato da uno di quelli contenuti nel libro di Voisin. «L’asse verticale rappresenta l’altezza della pianta, giusto? E quello orizzontale è il tempo, cioè i giorni trascorsi dall’ultima volta che un prato è stato brucato». Cominciò a tracciare una grande S partendo dall’origine degli assi, l’angolo in basso a sinistra. «Vedi, la crescita all’inizio è davvero lenta, ma dopo qualche giorno inizia ad accelerare, tanto che si parla di “crescita esplosiva”. Quando la pianta si è riavuta dai morsi degli animali, ha ricostruito le sue riserve e la massa delle radici, è pronta per ripartire. Però dopo un po’» e mi mostrò la curva che si appiattiva più o meno al quattordicesimo giorno «rallenta di nuovo, nel momento in cui è pronta a fiorire e a spargere i semi. Entra nella fase di senescenza, aumenta il contenuto di lignina e diventa meno appetibile per i bovini.

«La cosa importante è mandare le bestie al pascolo esattamente in questo momento» mi disse picchiando con forza il dito sulla carta «al punto più alto della crescita esplosiva. E non bisogna mai, per nessun motivo, violare la legge del secondo morso: alle mucche non deve essere consentito ripassare su un pezzo di pascolo che non ha ancora avuto il tempo di rimettersi in forma».

Se questa «legge del secondo morso» esistesse davvero nel codice penale, gran parte degli allevatori del pianeta sarebbero fuori legge, visto che permettono ai loro animali di pascolare in modo continuo sulla stessa terra. Alla seconda o terza passata, le specie più prelibate (come trifoglio, erba mazzolina, festuche, sweet grass, coda di topo e fienarole) si indeboliscono e a poco a poco spariscono, lasciando sul terreno chiazze spelacchiate e specie infestanti o legnose che i bovini non toccano nemmeno. Una pianta cerca sempre di bilanciare la parte aerea con quella radicale, per cui se la si tiene sempre corta con un pascolo eccessivo questa non sviluppa più le radici profonde che servono a portare verso la superficie acqua e minerali. Con l’andare del tempo, una zona erbosa troppo sfruttata si deteriora, e se il clima della zona è secco o instabile questa finirà con il diventare desertica. Il motivo per cui gli ambientalisti hanno una visione così pessimista dell’allevamento nell’Ovest è che quasi tutti gli operatori del settore praticano il pascolo continuo, violano la legge del secondo morso e contribuiscono al degrado del territorio.

A quel punto Joel strappò un filo di erba mazzolina per mostrarmi il punto esatto in cui una mucca l’aveva tagliato, la settimana precedente: una zona di ricrescita di un verde brillante, lunga un dito, si era sviluppata nel frattempo. Quel filo d’erba era una sorta di linea temporale, su cui era segnata in modo deciso la differenza tra la zona verde scura precedente al pascolo e quella più chiara seguente. «Ecco, questa è proprio la fase di crescita esplosiva. Penso che questo tratto sarà pronto per ricevere di nuovo le bestie fra tre o quattro giorni» disse Joel.

«Gestione intensiva» non è un modo di dire. Joel deve aggiornare in continuazione il foglio elettronico con cui tiene sotto traccia il preciso stato vegetativo delle decine e decine di appezzamenti in cui è divisa la fattoria, di superficie variabile tra gli 0,4 e i due ettari, tenendo conto del tempo e delle stagioni. Al momento la sua attenzione era concentrata sul luogo dove ci trovavamo, una porzione di terra grande due ettari, abbastanza pianeggiante, situata subito accanto alla stalla e delimitata a nord da una siepe e a sud da un ruscello e dalla strada sterrata che unisce le varie zone della fattoria, serpeggiando come un tronco tortuoso. Il numero di variabili locali coinvolte nel processo decisionale mi dava alla testa, a dimostrazione di quanto sia difficile far rientrare la gestione intensiva del pascolo nel sistema dell’agricoltura industriale, fondato sulla standardizzazione e sulla semplicità. Il numero di giorni necessario perché un prato ritorni in forma è tutto fuorché fissato: cambia con la temperatura, la quantità di precipitazioni, l’esposizione solare, la stagione, la dimensione, l’età e la condizione del bestiame (una vacca in lattazione, ad esempio, mangia il doppio di una priva di latte).

L’unità di misura con cui in erbicoltura si fanno questi calcoli e si stabiliscono esattamente i tempi e i luoghi in cui consentire nuovamente l’accesso al pascolo è il «giornomucca» (cow day), definito semplicemente come la quantità media di foraggio che un capo di bestiame ingerisce in un giorno. Perché la rotazione funzioni, è importante sapere di preciso quanti giorni-mucca può fornire ogni singolo appezzamento. C’è da dire, però, che questa unità di misura risulta essere ben più elastica che non, ad esempio, la velocità della luce, perché i giorni-mucca di una zona aumentano e diminuiscono con il mutare di tutte le variabili viste sopra.

Non solo l’eccessivo sfruttamento, ma anche l’eccessivo abbandono può essere distruttivo per un pascolo, perché porta a prati pieni di piante legnose e senescenti, con conseguente calo della produttività. Ma se si riesce a trovare il giusto equilibrio, a far pascolare il numero ideale di capi al momento ideale, per sfruttare la crescita esplosiva dell’erba, le rese sono incredibili e la qualità del suolo migliora di volta in volta. Per Joel questo ritmo ottimale è il «polso dei pascoli». Secondo i suoi dati, la Polyface è arrivata a una produttività pari a mille giorni-mucca per ettaro, mentre la media degli altri allevatori della contea è attorno ai centottanta. «In effetti è come se ci fossimo comprati un’altra fattoria, al prezzo di qualche recinto mobile e di un sacco di lavoro organizzativo».

La buona riuscita dell’erbicoltura dipende quasi esclusivamente da una miriade di complesse conoscenze locali, proprio in un’epoca in cui l’agricoltura si basa sull’esatto opposto: un management esterno all’azienda e un approccio standard buono per tutti gli usi, rappresentato dalla chimica e dalla meccanizzazione. L’erbicoltore invece, che gestisce tutto da sé in un luogo molto particolare, deve giostrare in continuazione nello spazio e nel tempo le risorse della sua fattoria, affidandosi alle sue capacità di osservazione per organizzare una serie di appuntamenti quotidiani in cui pascoli e animali si incontrano con il massimo beneficio per entrambi.


A marzo, durante la mia prima visita, avevo già visto all’opera uno degli esempi più interessanti di stratificazione. Il tutto avveniva nella stalla, una struttura costruita abbastanza rozzamente, aperta ai lati, in cui i bovini trascorrono tre mesi durante l’inverno. In quel periodo, ogni capo consuma dodici chili di fieno e ne produce ventiquattro di sterco al giorno (la differenza la fa l’acqua). Joel non rimuove il letame dalla stalla, ma lo lascia lì per terra, coprendolo periodicamente con uno strato di trucioli. Man mano che questa specie di tiramisù di sterco e legno si alza di livello sotto le zampe delle bestie, Salatin non fa altro che sollevare un poco la mangiatoia regolabile dove mette il fieno: alla fine dell’inverno, il pavimento della stalla si sarà alzato quasi di un metro. C’è poi un ingrediente segreto che si deve unire a ogni strato: qualche secchio di granturco. Nel corso dei mesi freddi, in questa mistura avviene il compostaggio, che genera calore (e in questo modo riduce il fabbisogno calorico degli animali) e fa fermentare il mais. Joel dice che il compost è la coperta elettrica delle sue bestie.

Perché l’aggiunta di mais? Perché i maiali impazziscono per i chicchi fermentati ad alto contenuto alcolico, e sono in grado di scovarli senza problemi grazie al loro muso robusto e allo straordinario senso dell’olfatto. «Sono i miei porc-aeratori» mi spiegò Joel con orgoglio, mentre entravamo nella stalla. Quando in primavera i bovini tornano sui pascoli, decine e decine di maiali arrivano sul posto e iniziano a rovistare in modo sistematico nel compost, rivoltandolo e aerandolo alla ricerca dei chicchi alcolici. Un processo fino a quel momento anaerobico diviene così improvvisamente aerobico, con il risultato che la temperatura aumenta enormemente, il compostaggio si accelera e i patogeni vengono distrutti. Dopo poche settimane di «porc-aerazione», sul pavimento della stalla rimane un ricco strato di compost simile a un dolce al cioccolato, pronto per l’uso.

«Queste sono le macchine agricole che piacciono a me: non bisogna cambiargli l’olio, si rivalutano col passare del tempo e quando non ti servono più te le puoi mangiare». Eravamo seduti in cima a una staccionata di legno e stavamo osservando i maiali all’opera, mentre facevano il lavoro al posto nostro. Mi veniva in mente il vecchio modo di dire «godere come un porco». Semisepolti dal letame in fermentazione, in cui si tuffavano continuamente, questi animali, con i loro bei prosciuttoni e le codine a cavatappi, mi sembravano i più felici che avessi mai visto in vita mia.

Vedere quella flotta di riccioli rosa spostarsi sul mare marrone come tanti periscopi di sottomarini mi fece venire in mente il destino ben diverso delle code dei maiali allevati in modo tradizionale. Detto brutalmente, non esistono. Gli allevatori gliele tagliano alla nascita, seguendo una pratica che ha una sua logica perversa nel culto dell’efficienza che domina una porcilaia industriale. I maialini nati nei CAFO sono allontanati dalla madre a dieci giorni dalla nascita (in natura lo svezzamento avviene a tredici settimane), perché ingrassano meglio con un pastone pieno di medicine che con il latte di scrofa. Ma questo distacco prematuro frustra il loro desiderio innato di succhiare e mordicchiare, una voglia che cercano di soddisfare nelle gabbie con la coda di chi sta davanti a loro. Un maiale sano si ribellerebbe a questo morso, ma agli esemplari depressi degli allevamenti non importa più nulla. In psicologia si parla di «impotenza appresa», fenomeno molto diffuso nei CAFO, dove decine di migliaia di maiali passano la vita senza mai vedere la terra o il sole, stretti dentro gabbie di metallo chiuse sui quattro lati e sospese su una fossa settica. Non deve stupirci il fatto che un animale così intelligente si deprima in queste condizioni e si lasci mordere la coda fino a farsi venire un’infezione. Visto che curare gli esemplari malati non conviene economicamente, queste unità produttive non più efficienti vengono in genere ammazzate sul posto a bastonate.

Il ministero dell’Agricoltura raccomanda la mozzatura delle code come soluzione al «vizio» porcino di mordersele. Con l’aiuto di un paio di pinze, ma senza anestetico, si strappa via il codino lasciandone però un pezzetto attaccato. Questo perché lo scopo dell’operazione non è eliminare del tutto l’organo, ma renderlo ipersensibile. Dopo questo trattamento il morso di un altro individuo è talmente doloroso da provocare la reazione anche del maiale più depresso. Per quanto terribile ci possa sembrare questa pratica, è facile capirne la logica: la strada per l’inferno porcino è lastricata delle buone intenzioni dell’efficienza industriale.
Per contrasto, il paradiso qui in mostra nella stalla di Salatin è figlio di un’idea molto diversa di efficienza, che si basa su quella che lui chiama «natura maialesca del maiale». Anche questi animali sono sfruttati dall’uomo, ingannati in modo da produrre compost oltre che costolette. Ma questo sistema si distingue dagli altri perché è progettato seguendo le preferenze naturali delle bestie, e non secondo le specifiche di una macchina industriale, a cui gli animali si devono poi adeguare. La felicità di questi maiali è semplicemente conseguenza del fatto che li si tratta come veri maiali, non come macchine da carne difettose, con «difetti» come la coda e la tendenza a stressarsi se allevati in cattive condizioni.
Joel scese a terra, là dove le sue bestie stavano grufolando con entusiasmo, raccolse una manciata di compost fresco e me la mise sotto il naso. Ciò che fino a poche settimane prima era stato un insieme di letame bovino e trucioli di legno, ora mandava un odore caldo e dolce, simile a quello del sottobosco d’estate. Un miracolo di transustanziazione. Non appena i maiali finiscono la loro alchimia, il compost viene sparso sui pascoli, dove nutre l’erba che a sua volta nutrirà le mucche, che a loro volta nutriranno le galline [tramite le larve che le mosche depongono nello sterco delle mucche] e così via, fino a quando non cade la prima neve: una lunga, elegante e convincente prova del fatto che in un mondo dove l’erba si fa con il sole e gli animali si fanno con l’erba è davvero possibile mangiare gratis.