Altre citazioni da “Il manicomio chimico”

Ho finito di leggere Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano. Metto qui alcuni dei passaggi che mi hanno colpito di più o che ho trovato più importanti.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!


Gino Fornace, altro uditore di voci, che doveva essere presente ma non ha potuto venire, e però lo stesso vuole raccontare la sua storia. Descrive, per mezzo della voce di questa ragazza, la sua esperienza con i farmaci antipsicotici. Dice: «All’inizio sedano soltanto. Poi rallentano la velocità dei pensieri, poi rendono incapaci di analizzarli, infine scompaiono le voci. E scompare l’idea (delirante) che tutto intorno sia riferito a me stesso. Questo accade nel corso di alcuni mesi. Ed è il periodo più duro. Quel che resta è un senso di vuoto e di fallimento. In un anno o due torno normale. L’effetto antipsicotico inizia dopo due o tre mesi, ma torno a ragionare come prima dopo un anno o due. Però, aggiunge, li ho sospesi tre volte in dieci anni, gli antipsicotici. Per motivi fisici: è come avere la sabbia nel cervello che t’inceppa i ragionamenti. Prima, nella fase psicotica, penso troppo e male, dopo però non riesco proprio a pensare. Sento sempre il bisogno di dormire. Sento che il mio corpo è diventato inabitabile. Sono costretto a muovermi di continuo (è l’acatisia). Gli antipsicotici ti fanno venire tanta fame, e ti fanno ingrassare, la libido sparisce, la vita sessuale diventa un ricordo. Il corpo e la mente, che con la psicosi sente di avere un motivo per esistere, con i farmaci non prova più niente. E li ho sospesi per ragioni psicologiche: la mia follia è un tentativo di andarmene dalla realtà. Ero diventato uno scienziato da premio Nobel, ero conosciuto in tutta la galassia, avrei costruito una nave spaziale capace di portare gli anarchici in tutto l’universo (tipo Miracolo a Milano di De Sica). Ho sospeso i farmaci perché avevo voglia di tornare nella follia».

«Però, voglio dirlo chiaro: sospendere bruscamente gli antipsicotici è pericoloso. Perché compaiono sintomi peggiori. Passa l’acatisia. Ma tornano, tutte insieme, le emozioni. E torna la libido. Ma le emozioni sono eccessive. E il pensiero si accelera troppo. Ricominciano le credenze bizzarre. Si riduce sempre di più la capacità di critica. Parte il delirio, che è la continuazione del sogno a occhi aperti. In tre-quattro mesi, quando anche i farmaci depositati nel corpo (nei tessuti lipidici) sono stati smaltiti, tornano pure le allucinazioni. In un anno il contatto con la realtà è di nuovo perso, e con esso pure la capacità empatica con gli altri. Ricomincia la collisione con la società, con gli psichiatri, con le forze dell’ordine. Per cui mi sento di dire che gli antipsicotici, o neurolettici, come volete chiamarli, una volta presi vanno sospesi con lentezza, mai bruscamente. Per questo l’OMS consiglia di somministrare gli antipsicotici in dosi basse e solo nelle fasi acute. Invece gli psichiatri italiani (come tutti gli psichiatri occidentali) considerano la follia genetica e i farmaci da somministrare a vita. Io tra la somministrazione per bocca e quella depot preferisco quella per bocca, insieme a un po’ di psicoterapia una o due volte a settimana. Ciò consente bassi dosaggi di antipsicotici. Invece il depot non consente la modulazione della terapia. È comodo solo per la tranquillità del dottore. Inoltre, dopo l’iniezione del depot, si è più sedati, e vicino alla scadenza si è quasi scoperti. Purtroppo, però, gli psichiatri preferiscono il depot mensile senza nessuna psicoterapia. Ciò porta inevitabilmente alla cronicizzazione. Molti psichiatri hanno questo delirio di onnipotenza di voler regolare la biochimica cerebrale. Per cui un paziente si trova a prendere come minimo quattro farmaci al giorno: un antipsicotico, una benzodiazepina, uno stabilizzatore dell’umore e un antiparkinsoniano. (Quando gli va bene, se gli va male a questi si aggiungono un antidepressivo, un secondo antipsicotico, un anti-ipertensivo, un anticolesterolo e un antidiabetico, per contrastare gli effetti collaterali dei primi farmaci). Questo, secondo me, è un delirio della modernità. Io, Gino Fornace, non voglio essere una farmacia ambulante. Perché? Per tutto quello che ho detto e perché i malati psichiatrici vivono venticinque anni di meno rispetto alla popolazione non psichiatrica. E se mi posso permettere, avrei una raccomandazione da fare agli psichiatri: abbandonate la vostra visione organicista, secondo cui il male mentale è genetico e dunque la terapia farmacologica deve essere presa per tutta la vita. Ciò aiuta solo gli psichiatri a dormire sonni tranquilli. Ciò toglie ogni speranza di guarigione. Rinunciate a voler modulare tutte le manifestazioni psichiche dei vostri pazienti con i troppi farmaci. Lo yoga ha effetti benefìci sulla mente umana, ma non fa profitto (come la corsa, il nuoto, la bicicletta, le passeggiate, eccetera). Il delirio è un sogno a occhi aperti. Lo psichiatra è un po’ carceriere e un po’ terapeuta. Però non si può guarire con la forza della coercizione. La contenzione non è terapeutica. La comprensione è terapeutica. La libertà è terapeutica».


Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali, dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.


Un altro fondamentale studio, riportato nel prezioso libro di Whitaker, è quello di Martin Harrow. Harrow reclutò (che brutta parola, mi è sfuggita, purtroppo è l’espressione che si adopera per i pazienti che entrano a far parte di uno studio, in alternativa ne adoperano un’altra, parimenti inquietante: arruolare), tra il 1975 e il 1983, sessantaquattro giovani con diagnosi di schizofrenia. Nel 2007 pubblicò un articolo in cui illustrava gli esiti a quindici anni (così si fanno gli studi, altro che a sei, dodici, diciotto settimane, come fa comodo alle case farmaceutiche). Tralascio gli step a due, quattro, e anni successivi. Dico solo che al quindicesimo anno il 40% dei pazienti non trattati farmacologicamente era guarito e il 50% lavorava, mentre dei pazienti trattati con i farmaci il 5% era guarito e il 64% aveva ancora una sintomatologia psicotica.

Per concludere questa prima parte, Whitaker riassume i dati USA. Nel 1955, all’anno zero della rivoluzione psicofarmacologica, nei manicomi americani erano ricoverati 267.000 pazienti con diagnosi di schizofrenia, che significa 1 americano ogni 617 abitanti. Nel 2010, invece, esistevano quasi 2.500.000 persone con questa diagnosi. 1 americano ogni 125 abitanti.


I progetti Soteria li ha mai sentiti, dottore? Un progetto in Lapponia occidentale l’ha mai sentito, dottore?

Aspetti, gli dico, Soteria, Mosher, certo che sì, pure Luc Ciompi a Berna ha un progetto Soteria, ma della Lapponia, a dire il vero, non ne so niente.

Anche quello lo trova in internet. Ma glielo riassumo. In Lapponia occidentale ci sono più o meno settantamila abitanti. A partire dagli anni Settanta un gruppo di psichiatri ha iniziato un tipo di trattamento per le persone che hanno un primo episodio di psicosi, un trattamento basato sulla terapia familiare invece che sui farmaci. E con questo nuovo approccio gli esiti dei pazienti psicotici, negli anni Settanta e Ottanta, sono migliorati nettamente.

Dove questo?

A Tornio, si chiama così la città. Ovviamente, solo lì il gruppo di psichiatri ha adottato questo tipo di terapia, nel resto della Finlandia, invece, operano come in tutto il mondo occidentale, farmaci e reparti chiusi.

E in cosa consiste, di preciso, questa terapia familiare?

Tutti gli operatori della Lapponia svolgono una formazione familiare. E quando capita un nuovo episodio di psicosi, entro ventiquattrore dalla chiamata vanno a casa del paziente. Non come qui, che ho dovuto portare mio figlio in pronto soccorso, e stavamo in piedi a parlare in una stanza squallida senza suppellettili. Loro visitano a casa. Parenti e amici sono inclusi, come fossero operatori pure loro.

Lui parla e io penso che questa cosa assomiglia molto alla seduta etnopsichiatrica che fanno al Devereux, un parlamento democratico, altro che il nostro setting terapeutico mutuato dal confessionale cattolico, o dall’interrogatorio poliziesco: giudice-psichiatra contro paziente-inquisito.

Dice: però gli operatori che vanno a casa del paziente non si considerano i padroni, gli sceriffi, come fanno qui da noi, che arrivano con pompieri, carabinieri e forze armate e sfondano la porta e prendono il paziente per i capelli e lo trascinano fuori. Non mi guardi così. Lei lo sa che non sto esagerando. Come vogliamo la collaborazione dei pazienti se l’intervento a domicilio è una specie di dichiarazione di guerra? Lì no, se il paziente in crisi si agita e si chiude dentro una stanza, non lo si aggredisce, gli si chiede solo di lasciare la porta aperta. Perché loro considerano che una crisi non è per forza violenta. E io credo che molte reazioni violente dei pazienti siano una risposta alla dichiarazione di guerra della psichiatria.

Non mi sbilancio ad annuire, ma lui, “Philip Dick”, lo sa che sono d’accordo.

Dice: nei primi incontri non prescrivono subito i farmaci, come hanno insegnato a voialtri, solo, talvolta, un sonnifero, un po’ di antipsicotico, che sospendono dopo pochi mesi, appena passata la crisi, altro che antipsicotici a vita, come fate voi! E con questo modello d’intervento hanno tassi di guarigione altissimi, quasi il 90%. E i costi sono notevolmente diminuiti. Mi creda, in questa regione, dove c’è un bassissimo uso di antipsicotici, i casi di psicosi si stanno riducendo drasticamente.


L’antidepressivo se lo sta prendendo chi è seduto accanto a te ora in treno e non ce la fa più a svegliarsi tutte le mattine per andare a lavorare in una stireria per dieci ore al giorno a quattro euro l’ora, e quella volta che ebbe uno svenimento mentre stirava e andò in pronto soccorso, il medico di guardia che sembrava uno psichiatra gliela prescrisse, perché mica poteva permettersi di fare una psicoterapia una volta a settimana per minimo ottanta euro a seduta lei che ne guadagna quaranta al giorno, e sono tre anni che se la prende, questa dannata pasticca antidepressiva, e pare che le fa bene, l’energia per stirare ora ce l’ha, anche se ogni tanto la tristezza ritorna, perché stirare dieci ore al giorno senza svago la rende una donna davvero inutile. La stessa pillola la ingoia giorno dopo giorno l’autista al volante dell’autobus che ti porta a casa, perché deve fare gli straordinari senza sentire i crampi alla cervicale o i dolori muscolari alle gambe, che dicono si chiami fibromialgia, ed è una forma di depressione mascherata, così dicono, e perciò si cura con gli antidepressivi, e prende proprio la stessa pasticca della stiratrice che trasporta tutti i giorni, però lui se ne prende due al giorno, andata e ritorno. Fa uso di antidepressivi, ansiolitici, antipsicotici o stabilizzatori dell’umore chi ti è più vicino, credimi. Se non è tuo padre (benzodiazepina per dormire la sera), o tua madre (benzodiazepina per il giorno a causa dell’ansia generalizzata), se non è tuo fratello (iniziò con la cocaina, diventò euforico, gli diedero uno stabilizzatore dell’umore, ma non bastò e si depresse, allora gli aggiunsero un antidepressivo, ma con quello si eccitò di nuovo manco fosse cocaina, e diventò megalomane e coi pensieri psicotici grandiosi e allora gli diedero un antipsicotico, ma con quello ingrassò e diventò diabetico e cardiopatico, e ora prende l’antidiabetico e l’anti-ipertensivo), allora è tuo figlio, che a scuola era un casinaro, allora la maestra vi consigliò la neuropsichiatra infantile, una sua carissima amica, e quella disse che la colpa non era né dei maestri né dei genitori, ma di una malattia che si chiamava ADHD, e che bastava prendere un’anfetamina che si calmava. Se non è tuo figlio (che non riconosci più, pare un morto di sonno, adesso), è il tuo capoufficio (un iracondo, troppa cocaina, ma pure antidepressivi e stabilizzatori del tono dell’umore, che non gli si stabilizza perché lui continua a farsi la cocaina), o la sua segretaria, che prende benzodiazepine però solo di sabato sera per spegnersi e dormire, dopo che è tornata a casa e ha tirato un po’ di coca con gli amici per divertirsi. Se non è il tuo capo, è sua moglie, che si prende le benzodiazepine e gli antidepressivi per sopportare il suo destino di donna tradita. Se non è sua moglie, è la sua amante, a cui lui regala la cocaina al posto degli orecchini, ma lei preferirebbe gli orecchini, e perciò si prende gli antidepressivi, perché ha un amico psichiatra che le ha detto che gli antidepressivi possono farle smettere la cocaina. Se non sono loro, è il camionista, che fa arrivare tonnellate di caffè nei bar della tua città e non riuscirebbe a reggere tutte quelle ore di autostrada senza coca e quando arriva a casa e deve dormire non riesce a spegnersi per quanta coca e caffè s’è fatto, allora si scola una boccetta intera di Valium. Se non è lui, è l’infermiera che ora sta cambiando il catetere di tuo nonno (nonno che prende l’antipsicotico per farlo stare buono e tranquillo nella sua agitata demenza), e l’antidepressivo le fa sembrare questo lavoro più leggero, persino le notti. Se non è lei, è rimbianchino che sta ritinteggiando la stanza della tua ragazza (che prendeva uno stabilizzatore dell’umore perché è troppo impulsiva, e a volte si taglia, altre volte si lascia andare a rapporti occasionali, però ora prende pure l’antidepressivo perché ogni tanto si abbuffa e poi vomita, e allora con questo farmaco sente meno i morsi della fame), che ha iniziato perché sentiva le voci, e al Centro di Salute Mentale gli hanno dato un neurolettico di vecchia generazione, ma siccome si irrigidiva e non riusciva a pittare sciolto, gliel’hanno levato e gli hanno dato un nuovo antipsicotico atipico, che lo rende più tranquillo, però ogni tanto le voci le sente ancora, e infatti se ci fai caso, mentre pitta la stanza della tua ragazza, ogni tanto si ferma e ascolta. Chi usa i cosiddetti psicofarmaci è lì con te.

Altro che cocaina, il vero affare sono gli psicofarmaci.

Il manicomio chimico

Sto leggendo questo libro, Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, di Piero Cipriano, psichiatra da vent’anni, che fa una critica documentatissima e allarmante dell’approccio psichiatrico attuale di gran lunga più diffuso in occidente; voglio condividerne alcune citazioni.

[Raja, uno psichiatra] sostiene, per esempio, che dopo dieci o quindici anni che somministriamo psicofarmaci ai pazienti, il loro cervello cambia in un modo che noi ignoriamo completamente. Perché accade, con gli antidepressivi detti Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) [come la sertralina che prendo io, tra gli altri farmaci], un po’ quello che succede con la cocaina, o la L-dopa, o le benzodiazepine. La prima somministrazione è la migliore. All’inizio c’è una vera e propria luna di miele con la cocaina, o con gli oppiacei, o con gli SSRI, o con le benzodiazepine. Ma poi, gradualmente, essi modificano i vari recettori, e l’effetto si attenua, e bisogna aumentare il dosaggio. Vediamo i tre casi: gli antipsicotici, gli antidepressivi e gli ansiolitici. Nel caso degli antipsicotici [io prendo l’aripiprazolo] Raja descrive le psicosi da ipersensibilità. Cioè quelle psicosi che si sviluppano proprio perché abbiamo somministrato antipsicotici a persone che avevano avuto un primo episodio di psicosi. È un paradosso. Ma è vero. Significa che se i pazienti, dopo un primo episodio di psicosi, vengono aggrediti farmacologicamente con antipsicotici, ad alti dosaggi, e senza scalarli e sospenderli appena la crisi psicotica è risolta, si determina un nuovo equilibrio nel cervello, per cui quei pazienti, per non incorrere in ricadute, hanno bisogno di assumere per tutta la vita antipsicotici a dosaggi importanti. Un caso mio, personale. E lo so che l’aneddotica non costituisce una prova. Ma ne ho moltissimi di questi casi. Una donna di sessantacinque anni, che ho avuto in cura per circa due anni. A trent’anni, dopo la nascita del figlio, ha un episodio di psicosi, forse post-parto. Viene ricoverata in una clinica e trattata con un antipsicotico deposito (o long-acting), il Moditen Depot. Che assume per trent’anni. Senza che nessun medico prenda mai l’iniziativa di ridurlo, sospenderlo, o modificarlo con qualche altro farmaco più recente, pur trascorrendo questa donna molti anni senza sintomi. Finché, dopo trent’anni, su richiesta del figlio, e della paziente, le tolgo il farmaco, sostituendolo con un nuovo antipsicotico, a basso dosaggio e per via orale. Dopo pochi mesi la paziente ha una ricaduta. Dopo trent’anni di quel farmaco il suo cervello non ha tollerato la rottura di quell’equilibrio. Raja descrive, adesso, le depressioni da supersensibilità. Cioè le sindromi tardive da antidepressivi. Anche gli antidepressivi, sostiene, dopo dieci, quindici o vent’anni, smettono di funzionare, determinando forme depressive resistenti a qualunque trattamento farmacologico. Secondo lui, la causa delle sempre più frequenti forme depressive resistenti agli antidepressivi è stata la somministrazione, a pioggia, di farmaci antidepressivi, da parte anche dei medici di base o dei neurologi o di altri specialisti, prescritti per qualunque forma di tristezza, per lutti, o per depressioni sottosoglia. Caspita! Mi trovo assolutamente d’accordo con Raja. Sostiene che è meglio prescrivere l’antidepressivo quando veramente è necessario, a dosi basse e per periodi limitati (due-tre mesi), e quando il paziente sta meglio provare subito a toglierlo. Mi trovo totalmente in accordo con lui, è esattamente quello che penso e faccio io. E continua: il fatto è che ci hanno insegnato (i congressi pagati dalle case farmaceutiche e gli informatori dei farmaci, aggiungo io) a trattare i pazienti depressi con un dosaggio uguale per tutti, e minimo sei mesi al primo episodio e per tutta la vita dopo il terzo episodio. Ma ciò è sbagliato. Bravo Raja! Giusto! La penso come te!, vorrei gridare a questo punto, interrompendolo. Ma mi trattengo. Voglio vedere come va a finire. E faccio bene a trattenermi, perché la conclusione di tutto questo discorso, finora sensato, mi gela. Per questo, conclude, tutti i miei pazienti divenuti resistenti agli antidepressivi, che io non so più come trattare, li invio qui, alla clinica San Valentino, a fare gli elettrochoc! E quelli, dopo un po’, stanno bene, e dopo molti anni che, grazie all’elettrochoc, si sono affrancati dai farmaci, finalmente riescono a vivere di nuovo. Accidenti, Raja. Avevi fatto una diagnosi perfetta. La psicofarmacologizzazione di massa sta creando un esercito di persone resistenti ai farmaci, un po’ come per gli antibiotici, che assunti per i motivi sbagliati (influenza, raffreddori, eccetera) stanno diventando vieppiù inefficaci, selezionando ceppi di microrganismi antibiotico-resistenti. E però, caro Raja, la tua conclusione è sbagliata. Il rimedio (l’elettrochoc) per i danni causati dai farmaci, aggiunge altro danno al danno. È due volte iatrogeno. È l’accanimento terapeutico degli psichiatri, che non sapendo che fare strafanno, prima con i farmaci, presi dall’ebbrezza che finalmente anche loro hanno i farmaci per curare le malattie, e quando i farmaci smettono di funzionare, passano alla corrente elettrica, ritornano alla terapia convulsiva, per trattare i malati di nuovo come i maiali del mattatoio, maledizione!

Nel 1978 l’OMS ripetè uno studio, già condotto dieci anni prima, per valutare l’esito dei pazienti con diagnosi di schizofrenia in dieci paesi, alcuni ricchi e altri in via di sviluppo. I risultati, dopo due anni, furono che nei paesi in via di sviluppo (India e Nigeria) i due terzi dei pazienti avevano esiti favorevoli, invece nei paesi ricchi solo un terzo. Ma la variabile che sembrava giustificare questi risultati sorprendenti fu che solo il 16% dei pazienti dei paesi poveri assumeva antipsicotici, contro il 61% dei pazienti nei paesi sviluppati. Ad Agra, in India, dove si registrava il miglior esito, solo il 3% dei pazienti assumeva farmaci. A Mosca, di contro, dove c’era la compliance farmacologica più elevata, l’esito era il peggiore in assoluto. Era interessante, questo studio, molto. A metà degli anni Novanta (nel periodo 1994-1998), mentre io mi laureavo in medicina con una tesi sulle allucinazioni uditive, e misuravo i cervelli dei pazienti diagnosticati schizofrenici per confrontarli con i sani, ed ero diventato un esperto di neuroimaging, ci furono una serie di studi che mi avrebbero indotto a lasciare per sempre questa inane ricerca. Gli studi di Chakos, di Madesen, di Gur, provarono che gli antipsicotici determinavano un aumento di volume a livello dei nuclei della base e del talamo e riduzioni volumetriche a livello dei lobi frontali [quelli che servono per pensare], dimostrando che le variazioni volumetriche erano in rapporto alla dose degli antipsicotici assunti.

E va be’ ma insomma cosa propone in alternativa Cipriano?

Io, che ho cominciato da psicofarmacologo, mi trovo a scrivere questo piccolo, miserrimo compendio, in cui dico, in sintesi, usiamoli, gli psicofarmaci, non dico di no, ma con parsimonia, e solo nelle condizioni gravi, e sospendiamoli appena è possibile»

È quello che fanno in Finlandia, solo che lì tutto l’approccio al malessere psichico è tanto più serio: all’oculatezza nell’uso dei farmaci si accompagna un modello di intervento che ospedalizza il meno possibile, che coinvolge la rete sociale di chi sta peggio e affronta e cerca di fare emergere il non detto emotivo nelle relazioni, e – numeri alla mano – guarisce o migliora le condizioni di salute tanto, tantissimo di più dell’approccio “nostro” (vedi questo articolo per esempio).

Figurati

Esco a prendere sigarette. Mentre torno verso casa chiedo a una ragazza che cammina davanti a me se ha da accendere. Si volta, è mulatta, bella, incinta. Mi dice «No», sorridendo. «Ah, certo, scusa», rispondo, guardando quel pancione bello. Mi affianca, camminando mi racconta tra l’altro che è un bimbo, ha 8 mesi, il marito è in carcere per spaccio, non è la prima volta. Mi chiede se voglio fare l’amore. Eh, vorrei, ma è chiaro che, forse meglio di no, meglio di no. Finisce che sulla soglia di casa le do i miei ultimi 10 euro della settimana e la abbraccio, mi saluta «Grazie amore», «Figurati». Figurati.

Difficile

Ho 45 anni, una diagnosi che ad oggi è di “disturbo schizoaffettivo” e invalidità riconosciuta al 100%. Questo è un tentativo di spiegarmi e spiegare come si son sviluppate, cosa sono state e in parte sono ancora queste difficoltà in più che ho rispetto ad altr*.

Dopo un ricovero di 10 giorni al San Paolo nel 2013 e poi un breve periodo a casa con mia madre, lei mi convinse ad andare da un altro psichiatra, il dottor S. F., che mi chiese di scrivere una mia breve autobiografia, quella che segue, e poi mi consigliò caldamente di entrare in comunità riabilitativa per persone con disturbi psichici, dove ho vissuto per tre anni; poi per un anno ho abitato in “casa protetta” (“residenzialità leggera”) con tre coinquilini, anche loro disturbati; ora, da circa un anno, ne sono uscito e sono tornato a vivere con mia madre.

 

Breve autobiografia per il dottor S. F.

 

Sono nato il 19 gennaio 1976 a Milano. Durante la prima infanzia sono stato molto seguito da mia nonna. I primi ricordi che ho risalgono al periodo della scuola materna. Ero abbastanza socievole ma stavo prevalentemente con una ristretta cerchia di due o tre amici, e abbastanza spesso mentre gli altri giocavano insieme mi appartavo a giocare da solo. Ebbi un’“amica del cuore”, C., con la quale passavo gran parte del tempo a inventare e “vivere” storie di fantasia. Con lei scambiai il primo bacio, non diretto ma attraverso la tendina di un guardaroba dell’asilo; una maestra ci vide e ci riprese.

Un altro episodio che ricordo del periodo della materna fu una volta che con C. e altri due amichetti – un bambino nero di nome G. e uno rom di nome C. – cercammo di accendere un fuoco nel cortile dell’asilo; fummo messi in castigo e poi a sera i nostri genitori furono informati del fatto. Con gli stessi amici, un’altra volta, tentammo di fuggire dal cortile scavalcando l’inferriata, con gli stessi esiti.

Durante tutta l’infanzia ho avuto un rapporto difficile con la mia sessualità. Mi masturbavo dal periodo dell’asilo, sdraiandomi a pancia in giù e sfregando il bacino sul letto, e avevo degli orgasmi, ovviamente senza eiaculazione. Lo facevo di nascosto e avevo un timore grande, a periodi quasi ossessivo, che i miei o qualcun altro scoprissero quella mia attività. Collego questa paura a un altro episodio accaduto proprio alla scuola materna: una volta, durante la ginnastica, il maestro ci fece sdraiare a pancia in giù sul pavimento; io presi, davanti a tutti, a sfregare il bacino per terra, credo anche per verificare se fosse una cosa che facevo solo io o no; altri bambini risero e io ebbi il dubbio forte che ridessero di una cosa strana, a loro aliena; poi il maestro si accorse di quello che stava accadendo e mi sgridò piuttosto duramente. Forse fu da quel momento che per me quell’attività divenne qualcosa da nascondere, o forse lo era in parte già da prima, “naturalmente”, inconsciamente, per “cause edipiche” (non rivelare di avere una sessualità per non entrare in conflitto-competizione col padre?); in ogni caso sicuramente quell’episodio ebbe un peso importante sulla paura di essere visto durante quell’attività, e sul dubbio piuttosto atroce e a tratti, come già detto, ossessivo che accompagnò tutta la mia infanzia: che quell’attività fosse qualcosa di “mostruoso”. A quel dubbio si alternava, a tratti, ma in second’ordine, l’idea che invece si trattasse di una mia qualità positiva, ma speciale, forse esclusiva.

Durante la mia prima infanzia mio padre fu poco presente, era molto preso dai suoi concerti; in seguito, quando la sua attività concertistica si diradò, fu fisicamente molto più presente, perché lavorava principalmente da giornalista a casa, ma non fu mai molto presente “con me”. Spesso mi diceva, già a partire da quando avevo circa sei anni, che lui non poteva essermi padre perché non sapeva come si fa, siccome un padre praticamente non l’aveva avuto: i suoi lo mandarono a balia e poi in orfanotrofio per le loro condizioni di miseria, e perché suo padre era un fascista ubriacone che picchiava sua madre, cattolica innamorata e votata al subire.

Fin da piccolo ho avuto problemi con il sonno, spesso facevo molta fatica ad addormentarmi e avevo incubi; durante le elementari ci furono dei periodi in cui le maestre, durante la ricreazione, mi lasciavano tentare di recuperare il sonno con pisolini in classe, mentre gli altri bambini giocavano fuori.

Alle elementari ho avuto un “amico del cuore”, T., con il quale mi vedevo anche fuori dal contesto scolastico. Ad oggi l’ho sostanzialmente perso di vista, ma suo fratello G. è un mio caro amico e uno dei pochi che frequento con una certa regolarità.

Mia madre mi ricorda come fossi, durante la mia infanzia, un “angioletto”, e sostiene che solo con l’adolescenza cominciai a problematizzarmi e dare grattacapi; è solo parzialmente vero: ero un bambino generalmente piuttosto tranquillo ma con episodi di “ribellione” abbastanza forti, soprattutto nel contesto scolastico, e in realtà anche alle elementari, in particolare dalla terza in poi, a volte prendevo note, venivo mandato fuori dall’aula (alle medie fui sospeso una volta, alle superiori tre).

Il mio rendimento scolastico, alle elementari come poi anche alle medie, era molto buono. Gli insegnanti sostenevano fossi molto in gamba.

È almeno a partire dalle elementari che ho avuto episodi frequenti e intensi di depersonalizzazione / derealizzazione.

Alle medie avevo un gruppo di amici, tutti un po’ “scavezzacollo”, che frequentavo al pomeriggio e con i quali la mia attività preferita era andare a esplorare le strutture industriali dismesse e i nuovi cantieri della mia zona.

Fu qualche anno dopo l’inizio delle superiori che il mio malessere uscì dallo stadio larvale per diventare conclamato, cominciando a influire sempre più pesantemente sulla mia vita. Finite le medie con ottimi risultati mi iscrissi al liceo scientifico Einstein. Lì un atteggiamento che in parte avevo già sviluppato alle medie – un mio essere costantemente, quasi ossessivamente scherzoso con gli amici – si radicalizzò sempre più, mentre internamente ero sempre più triste, sempre meno trovavo senso alla vita, sempre più il mondo e la storia dell’uomo mi parevano un insieme di brutalità più o meno esplicite, più o meno ipocritamente dissimulate. Riuscii a superare i primi due anni scolastici, nonostante le materie a settembre, mentre al terzo fui bocciato due volte di seguito. A casa, sullo studio e i compiti, mi impegnavo poco, in parte anche perché soffrivo di una grande difficoltà di concentrazione. Con i miei amici di allora cominciammo a fumare molto hashish. Dopo la seconda bocciatura all’Einstein mi iscrissi all’ITSOS, dove al primo anno (la terza ripetuta), da un punto di vista scolastico andai bene: lo sforzo richiesto era molto minore che all’Einstein; mentre da un punto di vista esistenziale la mia depressione, più o meno nascosta, continuava ad accrescersi. In quel periodo fumavo hashish ancor più che in precedenza: la mattina con i nuovi compagni di scuola, il pomeriggio con alcuni dei vecchi nella piazzetta che frequentavamo. Sporadicamente prendemmo anche dei “trip” di LSD, in dosi basse, e a parte il primo, esilarante, i successivi furono per me brutte esperienze; in particolare l’ultimo della mia vita, quello che presi la notte di capodanno ’95-’96 in un contesto in cui già da prima non avevo alcuna voglia di andare, una discoteca ad Aulla; fu un’esperienza orribile, densa di percezioni persecutorie, e fu un po’ “la goccia che fa traboccare il vaso”: tornai a scuola dopo le vacanze con livelli d’ansia divenuti insostenibili e, dopo due o tre giorni, non ci andai più (già negli ultimi mesi del ’95 avevo frequentato molto poco, ma da gennaio del ’96 smisi completamente). Nello stesso periodo smisi quasi completamente di frequentare anche gli amici. In sostanza vivevo rinchiuso in casa, dove l’ansia era un po’ meno forte che fuori. Parlando con mia madre decisi di cercare aiuto presso uno psicoterapeuta. Ebbi un primo approccio con il dottor F. B., il quale mi indirizzò a un percorso analitico chiedendomi di scegliere tra un terapeuta maschio e una terapeuta femmina; così cominciò la mia analisi con la dottoressa M. B. R., freudiana, che proseguì poi per otto anni, dal marzo 1996 a luglio 2004, con quattro sedute alla settimana per quasi tutto il periodo.

Nel 1997, a febbraio, spinto soprattutto da mia madre, andai dal dottor F. B. per un consulto su un supporto farmacologico. Mi prescrisse una compressa di Prozac da 20 mg al mattino e una compressa di Xanax da 0,25 al mattino più una la sera prima di dormire. Seguii la terapia per un giorno soltanto: avevo molte remore, in parte ideologiche, sulle terapie farmacologiche in campo psichico. Poco tempo dopo, a marzo del ’97, andai da uno psicoterapeuta cognitivista e psichiatra, il dottor E. S., di nuovo per un consulto su un supporto farmacologico, di nuovo su insistenza di mia madre. E. S. mi prescrisse Seroxat 20 mg, ma dalla ricetta di allora non riesco a capire la posologia. In ogni caso, di nuovo, lo presi solo una volta, per gli stessi motivi di cui sopra.

Tornando all’analisi con la dottoressa M. B. R., sebbene durante una delle prime sedute mi avesse detto che avevo una conoscenza e una consapevolezza di me e della mia storia “molto approfondita, e fin troppo”, fu un percorso difficile, a cui io opposi molte resistenze emotive. L’analisi fu poi interrotta da mia madre perché, a fronte delle spese, non vedeva risultati concreti per lei apprezzabili, nonostante nel periodo dell’analisi avessi fatto il servizio civile (esperienza per me difficile ma anche in qualche misura positiva) e avessi lavorato per un anno e mezzo in un piccolo studio editoriale; nonostante, insomma, stessi in realtà comunque un po’ meglio di prima.

Dopo la fine dell’analisi per alcuni anni non seguii più alcuna terapia, né farmacologica né della parola, continuando la mia vita molto appartata fatta principalmente di letture, “smanettamenti” al computer (sempre più tecnici e sempre meno “artistici”), qualche lavoro saltuario (sempre da casa). In quel periodo mi vedevo quasi soltanto con G., il fratello del mio “amico del cuore” delle elementari T., del quale ho già accennato.

Alla morte di mio padre, nel 2009, ebbi un picco forte di malessere, con allucinazioni uditive – mi pareva a volte che persone più spesso sconosciute, ma a volte anche conoscenti e amici, mi facessero oggetto di insulti sommessi, ecc. –, pensieri fortemente morbosi, ecc. Di nuovo cercai aiuto rivolgendomi, per un consulto orientativo, a un’amica di famiglia, psicoanalista, la quale mi consigliò una terapia farmacologica indirizzandomi a una sua amica psicoanalista e psichiatra, la dottoressa R. C., e, per la terapia della parola, a una sua amica consulente di orientamento, L. F.

Nel frattempo decisi di iscrivermi a una scuola privata per conseguire il diploma in attività sociali, indirizzo “dirigente di comunità”; era un progetto che già avevo prima della morte di mio padre e volli provare a portarlo avanti nonostante il mio stato psichico precario.

Qui sotto riporto l’evoluzione della terapia farmacologica prescrittami dalla dottoressa R. C.

 

17 novembre 2009
Mattino: 1 Xanax 0,25 mg; ½ Cipralex 10 mg per la prima settimana; dalla seconda, 1 Cipralex intero
Alle 14: 1 Xanax 0,25 mg
Mezz’ora prima di dormire: 10 gocce di Haldol per 2 settimane

 

15 ottobre 2009
Mattino: 1 Cipralex 10 mg; 5 gocce di Haldol
Ore 14: 1 Xanax 0,25 mg; 5 gocce di Haldol
Mezz’ora prima di dormire: 2 Xanax 0,25 mg

 

19 novembre 2009
Mattino: 1 Cipralex 10 mg
Mezz’ora prima di dormire: 2 Xanax 0,25 mg; 10 gocce di Haldol

 

15 dicembre 2009
Mattino: 1 Cipralex 10 mg
Mezz’ora prima di dormire: 5 gocce di Haldol; 1 Stilnox 10 mg

 

17 aprile 2010
Mattino: 1 pastiglia e mezza di Cipralex 10 mg; 5 gocce di Haldol
Sera: 1 Tavor 1 mg; 10 gocce di Haldol
Al Bisogno: 1 Xanax 0,25 mg

 

8 luglio 2010
Mattino: 1 Cipralex 10 mg; 10 gocce di Haldol (se danno troppa sedazione, 5 al mattino e 5 alle 14)
Ore 14: 1 Xanax 0,25 mg
Mezz’ora prima di dormire: 1 Xanax 0,25 mg al bisogno

 

26 ottobre 2010
Mattino: 1 pastiglia e mezza di Cipralex 10 mg; 5 gocce di Haldol
Mezz’ora prima di dormire: prima settimana: 10 gocce di Minias; seconda settimana: 5 gocce di Minias
Al bisogno: 5 gocce di Haldol

 

Non ricordo bene il proseguimento della terapia farmacologica dall’ottobre 2010 al 23 aprile 2013, data del mio ricovero al reparto psichiatrico del San Paolo; ho chiesto a mia madre e lei sostiene che in seguito risentii varie volte la dottoressa R. C. telefonicamente per aggiustarla, riducendo l’Haldol fino a eliminarlo e mantenendo alla fine soltanto il Cipralex (non ricordo se 1 pastiglia o 1 e mezza), più lo Stilnox per dormire, al bisogno.

Rimando alla fine di questo testo una breve panoramica delle mie impressioni sull’effetto dei farmaci.

A primavera del 2013 ebbi di nuovo un progressivo ma veloce inasprimento di malessere. In quel periodo volevo rivedere la psichiatra perché mi pareva a tratti di essere “troppo su” e “sopra le righe”, perciò volevo chiederle se non fosse il caso di rivedere la terapia diminuendo magari il dosaggio del Cipralex; quando mi decisi a chiamarla mi dette appuntamento di lì a un mese. Nel frattempo però il mio essere “troppo su” aumentava; avevo cominciato a usare facebook e ci passavo molto tempo, spesso andando a dormire molto tardi la notte. Lo usavo più o meno freneticamente, chattando molto con alcune persone e in particolare con una ragazza di 31 anni, L., che poi conobbi anche di persona e con la quale ci fu una piccola storia. Nello stesso periodo ripresi a fumare hashish, dapprima poco e poi decisamente troppo. Mia madre era sempre più preoccupata, soprattutto in relazione al mio andare a dormire troppo tardi, e avemmo parecchi screzi. Nel frattempo, complice l’hashish, il mio vissuto di quelle giornate passate a comunicare tramite facebook si stava innervando sempre più di suggestioni da “pensiero magico”: spesso immaginavo che alcune delle persone con cui comunicavo non fossero ciò che mostravano di essere ma, per esempio, appartenenti a una sorta di “carboneria” di cui io, finalmente, stavo entrando a far parte – una rete di rivoluzionari intenzionati a costruire una nuova Resistenza in Italia. Inoltre stavo sviluppando un delirio di persecuzione e di grandezza in cui google e servizi segreti vari mi avversavano personalmente perché, sulla mia bacheca facebook, avevo preso posizione contro il controllo globale delle telecomunicazioni e avevo dato indicazioni su come aggirarlo. A un certo punto chiamai il dottor F. B. e riuscii ad avere un appuntamento con lui a pochi giorni; ci andai con mia madre una mattina ed ero in piena paranoia, convinto che il taxi che prendemmo fosse seguito da “agenti” (ma che la taxista fosse “dalla mia parte”). Il dottor F. B. mi diagnosticò (dal referto) un “importante quadro dissociativo delirante”, mi prescrisse una pastiglia di Zyprexa da 10 mg al giorno e mi indirizzò al CPS per una visita preliminare a un percorso terapeutico. Nell’accomiatarsi disse a mia madre di andare a comprare lo Zyprexa e darmene mezza pastiglia subito. Uscito dallo studio del dottore ebbi un picco di paranoia nel vedere alcune auto della polizia posteggiate sul percorso, per cui a un tratto cominciai a fuggire, cercando di trascinarmi dietro mia madre, perché ero ancora convinto che “mi stessero seguendo”. Mi “rifugiai” in una chiesa, poi mi tranquillizzai e tornammo a casa con mia madre in taxi. Devo dire che, anche durante questi “picchi”, non ero mai pienamente convinto delle paranoie; era sempre anche un po’ come quando da piccoli si gioca a “facciamo che io ero”, il vissuto delirante era sempre almeno un po’ “ipotetico” e c’era sempre sullo sfondo un po’ di consapevolezza, sebbene anch’essa “ipotetica”, della realtà. Appena arrivati a casa presi la mezza pastiglia di Zyprexa e dopo pranzo mi addormentai pesantemente; mi risvegliai solo a sera, poco prima dell’ora di cena. Nel frattempo era arrivato mio zio Paolo, chiamato da mia madre, molto preoccupata per quello che aveva visto durante la mattinata. Visto come mi aveva steso mezza pastiglia, mi rifiutai, dopo cena, di prendere la pastiglia intera del farmaco, anche perché dovevo andare all’Arci Corvetto per una riunione del consiglio direttivo: tempo prima mi ero messo d’accordo con una consigliera per parteciparvi allo scopo di proporre di installare al circolo l’attrezzatura per il wi-fi pubblico, ma la seconda pastiglia mi avrebbe di nuovo steso e non sarei potuto andarci. Dopo averla rifiutata cercai di uscire di casa, ma mio zio si oppose mettendosi di fronte alla porta; io dapprima cominciai a scavalcare il muretto alla base della finestra minacciando di buttarmi giù, mio zio si spostò dalla porta per impedirmelo, io sgattaiolai alla porta, mio zio mi bloccò tenendomi per il bavero della giacca; a quel punto a tenermi si aggiunse anche mia madre. Io le staccai la mano dal mio bavero e lei perse l’equilibrio capitombolando all’indietro sul pavimento (non la spinsi, diversamente da quanto riportato sul modulo per l’ASO redatto dalla dottoressa che poi incontrai a casa mia). Poi riuscii a divincolarmi anche da mio zio. Andai all’Arci, feci la riunione riuscendo abbastanza lucidamente a fare la proposta, che venne accolta, e poi tornai a casa. Nel frattempo mia madre aveva chiamato il 118 e perciò a casa trovai una dottoressa e un lettighiere. Mi arrabbiai parecchio e dissi alla dottoressa che non avevo alcuna intenzione, il giorno dopo, di recarmi al CPS; poi me ne andai in camera mia, dove mi misi a chattare su facebook cantando a tratti canzoni partigiane ad alta voce, e poi ascoltando musica a volume piuttosto alto. Nel frattempo la dottoressa compilava un modulo per l’ASO e dopo un po’ quattro poliziotti bussarono alla porta della mia camera. Mandai giù l’ansia dell’incontro, che sentivo salire veloce, prendendo la “visita” con un po’ d’ironia, e concordai di esser portato al San Paolo, dove fui visitato dalla dottoressa M. G. S. la quale scrisse sul referto «[…] abbiamo realizzato un lungo colloquio, la vita del paziente è ricca di sfaccettature ma in questo periodo vi sono situazioni che tendono a indurgli molta ansia fino a sviluppare una vera e propria sintomatologia delirante. Propongo al paziente un possibile ricovero ma non vi sono gli estremi per il TSO, accetta la terapia e gli si spiega l’importanza dell’assunzione quotidiana di Zyprexa tesa ad aiutarlo a superare questo periodo di crisi. Si riduce la terapia con Cipralex a ½ cp. die. Viene somm. in PS Zyprexa 10 mg 1 cp e 10 gt di Lexotan. Lo invito a recarsi domattina in CPS dove ha un appuntamento con la dottoressa M. A. Il paziente collaborante e tranquillo viene dimesso».

La mattina seguente, al CPS, la dottoressa M. A. mi propose un ricovero volontario al San Paolo. Accettai. Fui ricoverato dal 23 aprile al 3 maggio. Durante quei dieci giorni il mio delirio, più interno che espresso, si attenuò abbastanza, ma non tanto quanto l’agitazione e l’angoscia associate. In particolare nei primi giorni ero comunque spesso convinto di essere parte di un “intrigo”, di essere “attenzionato” se non “braccato” dagli “agenti”, sebbene abbastanza al sicuro presso il reparto. Guardai inizialmente con sospetto un uomo che venne ricoverato il giorno dopo il mio ingresso. Quando mi raccontò di essere il figlio del proprietario di un rivenditore di arredamenti, e che era stato ricoverato a seguito di un forte litigio con suo padre in merito all’azienda in grande crisi, gli credetti, ma poi spesso ebbi momenti in cui pensavo fosse un “agente cattivo”; e poi ancora, dopo esserci entrato un po’ più in relazione, che fosse un “agente buono”, mandato lì per proteggermi dagli “agenti cattivi” qualora fossero entrati in reparto; a volte, la sera prima di addormentarmi, immaginavo addirittura che fosse la reincarnazione di mio zio Cesare Roda, che fu partigiano e morì poco prima della mia nascita. Questi non erano però pensieri assidui, solo sporadici e sempre meno presenti, e nel frattempo feci amicizia con lui e con alcuni altri ricoverati e ricoverate. Il 3 maggio fui dimesso con una diagnosi di “psicosi schizoaffettiva”. Cito alcuni stralci dal referto di dimissione: «Il paziente ha riferito una riduzione della tensione, è apparso pertanto più tranquillo, tono dell’umore in asse, ha mostrato un maggior distacco emotivo rispetto ai contenuti idetici di tipo paranoideo presentati all’ingresso, ha recuperato un ritmo sonno-veglia nella norma. Ha usufruito di permessi al di fuori del reparto con una buona gestione degli stessi. Infine abbiamo organizzato un permesso al domicilio con la madre […] e durante lo stesso ha mantenuto un comportamento adeguato».

Dopo la dimissione cominciai un percorso col CPS di via Barabino, la dottoressa M. A. e l’infermiera A. Frequento, il mercoledì pomeriggio, un piccolo gruppo con altri pazienti. Nel periodo intercorso tra la dimissione e oggi, però, allo stato euforico e paranoideo si è sostituito uno stato prevalentemente depresso. Penso molto spesso al suicidio e l’idea è presente quasi costantemente sullo sfondo dei miei pensieri anche quando non è in primo piano.

La terapia farmacologica che sto seguendo attualmente, prescrittami dalla dottoressa M. A., consiste in una compressa di Depakin da 500 mg al mattino, insieme a una compressa di Cipralex da 10 mg; un’altra compressa di Depakin 500 mg la sera, insieme a una di Invega da 3 mg e, al bisogno, mezza compressa di Stilnox da 10 mg.

Per quanto riguarda l’effetto dei farmaci che ho preso, sicuramente il Cipralex mi ha sollevato un po’ il tono dell’umore; l’Haldol, nel periodo successivo alla morte di mio padre, mi ha abbastanza aiutato ad abbassare l’angoscia e a eliminare le impressioni persecutorie; l’Invega a uscire dal periodo dei pensieri deliranti dell’ultima crisi.

Non so quanto derivi dai farmaci che sto prendendo, ma in questo periodo mi sento quasi sempre molto stanco anche fisicamente.

Per quanto riguarda il sonno mi addormento di solito piuttosto tardi, verso le due, ma dormo fin verso le nove o le dieci; però anche in queste circostanze la mattina mi alzo spesso con la sensazione di non aver dormito profondamente, forse di aver solo sognato. Mi sento privo di energie anche fisicamente, e come “irrigidito”, a lungo. Mi pare che questo aspetto si sia molto accentuato da quando prendo il Depakin e l’Invega (non so quale dei due influisca, o se influiscano entrambi). Non di rado, comunque, non riesco ad addormentarmi prima delle tre; a volte sono le quattro o le cinque di mattina.

 

Riflessioni

 

Le difficoltà aggiunte del mio vivere rispetto a quello degli altri io le lego principalmente a due cose: l’episodio che mi mandò in paranoia sulla sessualità alla scuola materna (leggine se vuoi qui sopra ☝️) e il fatto di avere avuto un padre molto difficile e molto diverso, come “modello educativo”, da mia madre, che è un po’ autoritaria e molto apprensiva, laddove mio padre era “fai quel che vuoi, ma non far soffrire la mamma”.

Mio padre che, fin da quando sono piccolo, e fino a quando è morto, mi dice di tanto in tanto e non di rado, in momenti importanti, ma anche quando a me sembrerebbe non averci niente a che fare con la situazione, “Non posso esserti padre perché un padre non l’ho avuto” (in realtà lo ebbe, un fascista di merda che picchiava sua madre, ma i suoi lo abbandonarono a balia e poi in orfanotrofio per via della miseria in cui versavano). E io che a volte ancora penso “Va be’, ma se lo sapevi, e se già davi per scontato che non ci avresti nemmeno provato, perché mi hai messo al mondo?”.

Mio padre che – ero alle elementari, avevo passato il pomeriggio dopo la scuola a giocare con lui, il mio “amico del cuore” T., suo fratello G. e suo padre D. – una volta soli, con un’aria indecifrabile, ma seria seria e attenta attenta, mi chiede: “Ma tu preferiresti D. come papà?”. “N-no”, rispondo, con la paura atroce che mi voglia abbandonare. Poco tempo dopo provo a dirgli che a me va bene com’è e a fargli coraggio, dicendogli una frase che ho letto su Topolino, detta dal figlio di Ezechiele Lupo a Ezechiele Lupo: “Sei forte papà!”; lui si indispettisce.

Mio padre che – già andavo male a scuola, liceo, non studiavo, fumavo decisamente troppi cilum e sbevazzavo – mi dice: “Tu per me puoi fare quel che vuoi, però stai facendo soffrire la mamma e questo non lo sopporto: datti una regolata”, e io che penso, col freddo nel cuore: “Di me non gliene frega niente, gliene frega solo della mamma”.

Mio padre che, una sera che stavo sclerando con mia madre e i toni si erano particolarmente accesi, e lui come sempre non aveva detto niente durante tutta la discussione, perché non partecipava mai alle discussioni riguardanti me e il mio quotidiano scolastico e di vita, tutt’a un tratto scatta in piedi infuriato, con gli occhi due fessure iniettate di sangue, mi fa alzare e gridando e ripetendo “Hai mancato di rispetto a tua madre!” mi porta in camera a schiaffi forti e secchi.

Mio padre che – avevo appena abbandonato la scuola, a 20 anni, e stavo molto male, da mesi (e poi per anni) non riuscivo a uscire di casa neanche per vedere gli amici – accetta un nuovo lavoro e se ne va a stare per gran parte del tempo nei dintorni di Firenze.

Mio padre che, vedendomi una sera qui a casa a Milano sclerare di rabbia, disperazione e senso d’impotenza esistenziali e politici, a un certo punto si porta le mani a coprirsi il volto fattosi a un tratto tutto rosso e comincia a ripetere in un mormorio “Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?”, con aria disperata e con vergogna.

Su quella sua domanda andai un po’ tanto in ossessione, mi chiedevo se avesse inteso qualcosa come “Ho sbagliato a metterti al mondo” o se fosse espressione del suo senso di inadeguatezza e di colpa, oppure… Una sera che eravamo in casa solo io e lui gli chiesi, con una fatica enorme, “Ma non è che tu, quando io ero molto piccolo, mi toccavi?”, perché a volte mi veniva in mente che chi, come mio padre, ha subito molestie sessuali da piccolo – da un mezzo prete, nel caso di mio padre – non di rado, da grande, le compie a sua volta. Questo dubbio, la prima volta, mi venne vedendo il film Festen (mi identificavo tantissimo nelle parole del biglietto suicida lasciato dalla sorella, le ricordo più o meno così: “Forse dopo morta arriverò in un mondo bello”… tipo così), ma per quanto riguarda mio padre era il dubbio che in qualche modo mi avesse insegnato lui la masturbazione, quando ero piccolo, forse toccandomi.

Alla mia domanda lui non rispose, rimase zitto, continuando a lavare i piatti, ma vedevo che stava un po’ in panico e mi chiedevo “Perché non parla?”, e dopo un po’, non riuscendo più a sostenere quel suo silenzio inizialmente impacciato, la risposta che non arrivava, lui che con aria ora risentita se ne stava andando nel suo studio senza dir nulla, gli dissi, impacciato a mia volta, “Va be’… Non credo, io credo tu sia buono, non credo tu abbia fatto quella cosa”. Non disse niente, né quella sera né il giorno dopo, mai.

Mi accorgo che il dubbio riaffiora in me ogni volta che si avvicinano le date della sua morte, della sua nascita, e più in generale quando viene celebrato, e ogni volta devo fare uno sforzo di razionalizzazione non indifferente per togliermelo, alla fine del quale sono sicuro del fatto che non mi abbia mai toccato, perché capisco che in questo moto emotivo c’è anche la mia competitività repressa nei suoi confronti, ma soprattutto il fatto che il mio senso di colpa legato alla masturbazione infantile è andato in circolo vizioso col suo senso di inadeguatezza e di colpa come padre, diventando poi in me quello che è stato e spesso tuttora è tanto spesso una specie di senso di inadeguatezza rispetto a tutto, e una specie di enorme senso di colpa di esistere. Così me la spiego. Fossi riuscito a dire almeno a lui, da piccolo, di quella mia attività, forse le cose sarebbero andate diversamente tra noi. Una volta, da preadolescente, ci riuscii quasi: stavamo tornando dal tennis e introdussi l’argomento cercando di descrivergli, con molta fatica, i miei episodi di derealizzazione e depersonalizzazione, perché poco prima me ne era capitato uno molto forte, con un senso fortissimo di “falsità della realtà”, mentre i miei compagni di tennis scherzavano sul sesso, discorsi in cui io non entravo praticamente mai, e insomma già da un po’ legavo intuitivamente quegli episodi al mio rapporto difficile con la mia sessualità; quando gli descrissi quei miei momenti di dubbio forte sulla veridicità della realtà, lui mi rispose che avevo una bella fantasia visionaria; io replicai con un “Si, ma…”, e avrei voluto dirgli che quelle impressioni io me le vivevo, mentre ce le avevo, con grande angoscia, anche se poi a volte a distanza mi divertivo anche a elucubrarci e inventarci sopra ipotesi, ma pur sempre con un senso di angoscia e di pericolo, perché a volte per esempio l’ipotesi era che il mondo, con tutte le sue brutture, fosse una simulazione, un brutto sogno, e l’unico modo per fuggirne e approdare alla realtà, e magari a una realtà bella, fosse il suicidio); non ci riuscii e dopo un po’ di silenzio gli dissi, tipo, “No, niente… niente, lascia perdere”.

È stato un padre molto difficile, e la sua inadeguatezza in quel ruolo, e la sua consapevolezza della sua inadeguatezza e il suo senso di colpa sono andati, molto sfortunatamente, in circolo vizioso con le mie paranoie sulla mia sessualità e con la mia conseguente tendenza a sentirmi colpevole e “mostruoso”, poi, un po’ su tutto. In ogni caso, in questo testo mi sono concentrato sulle mie difficoltà e sulle sue, ma gli volevo anche molto bene, e so che anche lui me ne voleva, solo era terrorizzato e reso piuttosto incapace dall’idea di non essere capace come padre, e certo un po’ paraculo, ma d’altro canto si può dire anche che a suo modo cercava di cambiare questo mondo di merda per sé e per me e per tutti gli altri, presenti e futuri; e ci furono anche tante cose belle per me e tra noi, e comunque tutta la sua inadeguatezza e gli errori che ha fatto non sono colpa sua ma conseguenza della miseria economica, morale e culturale cattofascista in cui nacque, figlia di questa merda assoluta che è il capitalismo. E anche l’episodio del maestro che mi sgridò invece di spiegarmi, per me, lo è: è figlio dell’ipocrisia di matrice cattolica che vede i bambini come angioletti asessuati e interviene repressivamente invece di spiegare che è normale provare piacere anche da piccoli. E la realtà di questo pianeta non è un brutto sogno ma è quello che sappiamo. E per questi motivi e tanti altri ancora anch’io, come lui, reputo necessaria e desidero una nuova Internazionale.

Da «LSD. Il mio bambino difficile», di Albert Hofmann

L’impiego dell’LSD in Psicoterapia si basa principalmente sui seguenti effetti psichici: nell’alterazione da LSD la normale visione del mondo subisce una trasformazione e una disintegrazione profonde. Legato a questo è il fenomeno dell’attenuazione o anche della sospensione della barriera tra l’io e la realtà esterna. Quei pazienti che sono intrappolati all’interno di un circolo vizioso di natura egocentrica, possono perciò essere aiutati a superare le loro fissazioni e il loro isolamento. Come risultato si può osservare un miglioramento nel rapporto con il medico ed una maggiore sensibilità all’azione terapeutica. Lo stato di accresciuta influenzabilità sotto effetto di LSD contribuisce a raggiungere lo stesso scopo.

Un’altra caratteristica significativa e di grande valore psicoterapeutico dell’alterazione mentale provocata da LSD è la possibilità che contenuti d’esperienza rimossi e da lungo tempo dimenticati tornino di nuovo alla coscienza. Qualora la psicoanalisi cercasse di rintracciare eventi traumatici nella vita del paziente, questi potrebbero diventare accessibili al trattamento terapeutico. Numerosi casi individuali esaminati in contesto analitico sotto l’azione di LSD riferiscono di esperienze infantili rievocate con estrema chiarezza. Non si tratta qui del normale ricordo di, ma del rivivere un’esperienza passata; non una réminiscenze, bensì una réviviscence, come l’ha definita lo psichiatra francese Jean Delay.

L’LSD non agisce come farmaco in senso stretto; piuttosto svolge una funzione coadiuvante nel contesto della cura psicoanalitica e psicoterapeutica, offrendole una maggiore incisività e riducendone la durata. Questo può avvenire in due modi.

Nella prima procedura, nata e sviluppatasi nelle cliniche europee e conosciuta come terapia psicolitica, dosi medie di LSD sono somministrate in diverse sedute a intervalli regolari. Infine queste esperienze vengono discusse in gruppo e i pazienti sono poi invitati a darne espressione artistica attraverso il disegno e la pittura. Il termine “terapia psicolitica” fu stabilito da Ronald A. Sandison, medico inglese di scuola junghiana e pioniere della ricerca clinica con l’LSD. La radice ‘lysis’ significa scioglimento; in questo caso, scioglimento della tensione e dei conflitti nella psiche.

Nella seconda procedura, privilegiata negli Stati Uniti, una singola dose molto alta di LSD viene somministrata al paziente dopo intensa e profonda preparazione psicologica. Con questo metodo, conosciuto come terapia psichedelica, si cerca di provocare un’esperienza mistico-religiosa che una simile dose di LSD può comportare. Essa servirà poi, nel corso del successivo trattamento terapeutico, come punto di partenza per la cura e la ridefinizione della personalità del paziente. La parola psichedelico, che traduciamo ‘che manifesta l’anima’ oppure ‘che espande l’anima’, fu introdotta da Humphry Osmond, uno dei primi negli Stati Uniti a impiegare l’LSD nella ricerca psichiatrica.

I benefici che questo farmaco apporta in psicoanalisi e in psicoterapia derivano da proprietà che sono diametralmente opposte a quelle dei cosiddetti psicofarmaci ansiolitici. Mentre gli ansiolitici tendono a coprire i problemi e i conflitti del paziente, riducendone la gravità e l’importanza, l’LSD, al contrario, li fa vivere in maniera più intensa. È proprio questo aspetto di chiarificazione e di discernimento a renderli più facilmente soggetti all’intervento terapeutico.

I successi e l’opportunità della terapia psicoanalitica con impiego di LSD sono tuttora argomento di controversia all’interno della comunità scientifica. La stessa cosa potrebbe dirsi però delle altre procedure impiegate in psichiatria, quali l’elettroshock, la terapia insulinica o la psicochirurgia; questi metodi comportano un rischio maggiore rispetto all’uso di LSD, che date opportune condizioni è praticamente privo di pericoli.

Poiché esperienze rimosse o dimenticate possono riemergere con rapidità considerevole sotto l’effetto della sostanza, la durata del trattamento analitico può essere relativamente ridotta. Tuttavia, per alcuni psichiatri questo rappresenta uno svantaggio. Secondo loro non verrebbe dato al paziente il tempo necessario per sviluppare un lavoro terapeutico completo. L’effetto terapeutico, è loro opinione, ha minore durata rispetto a quando si è in presenza di un graduale lavoro analitico, che preveda un lento processo di consapevolezza delle esperienze traumatiche. Le sedute psicolitiche e in special modo psichedeliche richiedono una preparazione completa del paziente, per evitare lo sgomento che la vista di una realtà non familiare e sconosciuta può provocare. Solo allora questa esperienza può risultare positiva. Un altro aspetto importante è la selezione dei pazienti, poiché non tutti i tipi di disturbi psichici rispondono altrettanto bene a questi metodi di cura. L’impiego fruttuoso dell’LSD in psicoanalisi e in psicoterapia presuppone una conoscenza e un’esperienza specifiche.

Per questo motivo può risultare molto utile un’autosperimentazione da parte dello psichiatra, come già aveva indicato W.A. Stoll nella sua ricerca. Essa procura al medico una conoscenza diretta, un’esperienza non mediata della dimensione insolita dischiusa dall’LSD, offrendogli la possibilità di capire veramente questo fenomeno quando si manifesta nella psiche del paziente, di interpretarlo correttamente e di riceverne tutti i vantaggi.


Significativo quanto l’ambiente esterno, se non addirittura più importante, è lo stato psichico degli sperimentatori, la loro disposizione mentale nei confronti dell’esperienza e le aspettative rivolte a questa. Possono influire anche le impercettibili e inconsapevoli sensazioni di felicità o di paura. L’LSD tende a intensificare la reale condizione psicologica. Un sentimento di gioia può sfociare nella beatitudine, la depressione può precipitare nella disperazione. L’LSD è perciò lo strumento meno adatto in assoluto per lenire uno stato depressivo. È pericoloso somministrarlo in presenza di una situazione mentale disturbata e nei casi in cui uno stato d’infelicità o di paura sia predominante, perché la probabilità che il viaggio possa concludersi con un crollo psichico è abbastanza alta.

Individui con personalità labili, tendenti a reazioni incontrollate, dovrebbero assolutamente evitare la sperimentazione con questa sostanza, perché lo shock da LSD, portando a manifestazione una psicosi latente, può arrecare un danno psicologico duraturo.

Instabile, nel senso di una maturazione non ancora compiuta, è da ritenere anche la psiche di individui molto giovani. Lo shock che deriva dall’imponente afflusso di nuove e insolite sensazioni mette in pericolo inevitabilmente il delicato organismo psichico ancora in fase di formazione. Negli stessi ambienti medici l’uso dell’LSD a scopi psicoanalitici o psicoterapeutici con giovani che non abbiano compiuto i 18 anni viene, giustamente secondo la mia opinione, sconsigliato. Gli adolescenti più di tutto mancano di un sicuro e solido rapporto con la realtà, che è necessario perché la sconvolgente esperienza di nuove dimensioni della realtà possa essere integrata in maniera significativa entro la propria visione del mondo. Anziché accrescere e approfondire la consapevolezza della realtà, un’esperienza di tale natura può provocare negli adolescenti insicurezza e senso di smarrimento. Per la stessa vivacità delle percezioni sensoriali e la tuttora illimitata apertura alla vita i giovani vivono esperienze visionarie spontanee assai più frequentemente che nei più tardi periodi dell’esistenza. Questo è un motivo ulteriore per cui dovrebbero evitare l’assunzione di agenti psicostimolanti.

È possibile tuttavia che anche una persona adulta e in buona salute possa fallire un esperimento con l’LSD e soffrire di una crisi psicotica, nonostante vi sia stata una completa osservanza delle misure preparatorie e protettive di cui accennavo. L’assistenza di un medico, che includa un esame preliminare dello stato di salute, è pertanto vivamente consigliabile, anche nei casi in cui l’LSD non venga impiegato a scopi terapeutici. Benché non sia necessaria la sua presenza alla seduta, nondimeno dovrebbe essere sempre disponibile l’intervento di un professionista.

Insorgenze psicotiche gravi sono eliminate e tenute rapidamente sotto controllo mediante un’iniezione di clorpromazina o altro sedativo analogo.

La presenza di una persona amica, che possa richiedere l’aiuto di un medico in casi di emergenza, rappresenta un’altra indispensabile rassicurazione psicologica. Sebbene le alterazioni causate dall’LSD provochino un’immersione nel mondo interiore dell’individuo, nondimeno si affaccia talvolta il bisogno intenso di contatti umani, specialmente nelle fasi depressive.


Gottfried Benn, nel saggio Provoziertes Leben (“Vita provocata”) (apparso in: Ausdruckswelt, Limes Verlag, Wiesbaden, 1949), definisce la realtà in cui l’io e il mondo stanno l’uno di fronte all’altro come “la catastrofe schizoide, il destino nevrotico dell’occidente”. Così scrive:

L’attuale concetto di realtà ebbe origine nel sud del nostro continente. Determinante per la sua formazione fu il principio ellenistico-europeo dell’agóne e della vittoria conseguita attraverso la prestazione, l’astuzia, la perfidia, il talento e la forza, espresso all’inizio nella forma greca dell’aretè, e successivamente in quella europea del darwinismo e del superuomo. L’io venne allo scoperto, calpestò la terra, condusse battaglie e per far questo ebbe bisogno di strumenti, di materiali, di potere. Si pose di fronte alla materia come altro da essa; se ne distaccò con i sensi, ma ci stabilì un rapporto formale più stretto. La scompose, la esaminò e la classificò: armi, oggetti di scambio, denaro per riscattare. La spiegò mediante isolamento, la ridusse a formule, ne strappò dei frammenti, la suddivise. (La materia divenne) un concetto appeso come sciagura sopra l’Occidente, contro cui esso lottò, senza afferrarlo, a cui sacrificò un’ecatombe di sangue e di felicità, e le cui tensioni e fratture era ormai impossibile risolvere attraverso lo sguardo naturale e la conoscenza metodica dell’essenziale, quieta unità delle forme prelogiche dell’essere… invero, il carattere catastrofico di questo concetto venne alla luce in maniera sempre più evidente… uno stato, un’organizzazione sociale, una morale pubblica, per i quali la vita altro non è che esistenza sfruttabile economicamente, e che non accettano il mondo della vita provocata, non possono arrestare la sua distruttività. Una comunità, la cui igiene e tutela razziale, quali moderni rituali, si basano su vuote conoscenze biologico-statistiche, può solo difendere il punto di vista superficiale delle masse, nella cui osservanza conduce incessantemente le guerre, perché la realtà è per essa materia prima, rimanendole nascosto il suo presupposto metafisico.

Come sostiene Gottfried Benn in questo brano, il concetto di realtà che mantiene separati l’io e il mondo ha senza dubbio stabilito il corso evolutivo della storia intellettuale europea. Il mondo vissuto come materia inanimata e oggetto, a cui l’uomo sta di fronte in opposizione, ha prodotto la scienza moderna e la tecnica. E grazie al loro intervento, gli uomini hanno sottomesso la terra e hanno abusato del suo patrimonio; le imponenti realizzazioni della civiltà tecnologica si trovano faccia a faccia con il disastro ecologico. Questo intelletto che tutto oggettivizza è penetrato anche nel cuore della materia, il nucleo dell’atomo, e lo ha spaccato, liberando energie che minacciano le forme vitali del nostro pianeta.

Se l’uomo non si fosse separato dal mondo, ma avesse vissuto in armonia con la natura vivente e la creazione, mai sarebbe stato possibile un impiego sbagliato della conoscenza e dell’intelletto. Tutti gli attuali tentativi di provvedere ai danni causati attraverso misure di protezione ambientale risulteranno solamente rattoppi superficiali e senza speranza, se a essi non seguirà la cura di quello che Benn ha chiamato “il destino nevrotico dell’Occidente”. Guarire significa poter esperire la realtà profonda delle cose che tutto abbraccia, compreso il soggetto che vi partecipa.

Questo tipo di esperienza viene sempre più ostacolato in ambienti che mani umane hanno reso inanimato, nelle metropoli e nei paesaggi industriali delle nostre società. È qui che soprattutto si palesa il contrasto fra l’individuo e il mondo esterno. Sensazioni di alienazione, di solitudine, di minaccia si presentano incessantemente e dominano la coscienza quotidiana degli individui delle società industriali; esse prendono inoltre il sopravvento ovunque si estenda la civiltà della tecnica, e in larga misura influiscono sulla produzione dell’arte moderna e della letteratura.

Nell’ambiente naturale il pericolo di vivere una realtà frantumata è minore. Nei prati, nelle foreste e nel regno animale che vi si rifugia, ma anche in ogni giardino, si avverte una realtà infinitamente più vera e antica, più profonda e stupefacente di qualsiasi cosa gli uomini abbiano costruito, e che sarà sempre presente quando il mondo esanime delle macchine e del cemento si dileguerà di nuovo, si coprirà di ruggine e cadrà in rovina. Nella germinazione, nella crescita, nella fioritura, nella fruttificazione, nella morte e di nuovo nella comparsa dei primi germogli delle piante, nel loro rapporto con il sole, la cui luce esse trasformano in energia chimica sotto forma di composti organici, dai quali tutte le forme viventi del nostro pianeta provengono – nell’essenza propria delle piante, si manifesta la stessa misteriosa, inesauribile ed eterna energia vitale che ci ha generato e ci condurrà di nuovo nel suo ventre, dove saremo al sicuro e uniti con tutto il creato.

Non stiamo qui parlando di sentimentali utopie naturiste, di un “ritorno alla natura” in senso rousseauiano. Quel movimento romantico, che ricercava l’idìllio nel mondo naturale, rappresenta senz’altro il sentimento di un’umanità che ha visto scissi i propri legami con la natura. Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è vivere di nuovo l’unione fondamentale con tutte le forme viventi, ed essere consapevoli della dimensione onnicomprensiva della realtà. Più sporadico risulterà lo sviluppo spontaneo di questa consapevolezza, più la flora e la fauna primigenie del pianeta dovranno sottomettersi a un ambiente tecnologico inanimato.

Da «Negoziare con il male», di Piero Coppo

4.2. Può un gesuita essere stregone?

Nel 1957 Eric de Rosny, gesuita, è inviato in Camerun, a Duala, per insegnare francese e inglese al Collegio cattolico Libermann. Il contatto con i suoi allievi, giovani liceali camerunesi, lo convince ben presto che, senza una conoscenza delle basi della loro cultura, gli sarebbe stato impossibile svolgere bene il suo mestiere. In particolare, un episodio lo obbliga a interrogarsi sulla cultura d’origine di quei giovani. Una notte, nel dormitorio, un giovane allievo è preso da convulsioni, con spasmi violenti e incontrollabili frammisti a grida: «Acqua, acqua!» Finalmente gli spruzzano addosso dell’acqua, che lo calma. Gli altri allievi spiegano che non è una crisi normale, ma una possessione da parte di jengu, lo spirito dell’acqua, che non vuole che il giovane resti al Collegio. Nonostante tutti gli sforzi del gesuita, da quel giorno il giovane non riesce più a seguire le lezioni, e resta per ore seduto al banco, prostrato e assente. Fino a che, per allontanarlo dalle «cattive influenze», la famiglia lo ritira dal Collegio e lo invia in una cittadina del Nord. Rosny non ne avrà più notizie; ma aver condiviso con i suoi compagni il dramma di quella notte apre all’insegnante una via di comunicazione con gli allievi su differenti aspetti della loro cultura di origine, e non solo sulla cultura che Rosny rappresenta e alla quale, attraverso gli studi, i giovani avrebbero dovuto accedere. Iniziano così loro a parlare, e Rosny a chiedere, di stregoneria, antenati, spiriti e geni. L’interesse del gesuita per quel mondo che inizia a svelarsi, per quella cultura1, lo costringe a interrogarsi perché mai, mentre

i giovani africani sono attirati in un universo nuovo, quello dei Lumi, della scienza e di un modo di vita planetario … io invece sono trascinato nel mondo della notte, dei simboli e dei riti iniziatici? Perché sono attirato dalle manifestazioni di una cultura evidentemente fin d’ora condannata. Domanda irritante, che respingo come una tentazione, ma alla quale dovrò pure, un giorno, rispondere (Rosny 1981, p. 23).

Nel suo alloggio a Duala, il gesuita sente tutti i sabati, di notte, un tamburo suonare in una casa vicina, con ritmi a volte lenti a volte precipitosi. L’emozione che gli suscita gli ricorda quella provata, da bambino, quando la sera, nella campagna francese, andava a ritirare le lenze da fondo nei fossati.

Sotto la superficie di quell’acqua calma e scura, che per me ricopriva un abisso, immaginavo tutta l’intensità della vita di un ambiente misterioso. Mi sottoponevo alla più totale solitudine e al più grande silenzio interno per avvicinarmi alla riva, sulla punta dei piedi, lì dove la lenza si immergeva. Se faceva dei bruschi zig-zag, ero come paralizzato insieme dalla paura e dalla gioia. Gli altri tipi di pesca, con la mosca o col galleggiante, non mi soggiogavano nello stesso modo. Solo questa lenza da fondo, questo tamburo nella notte… Dei richiami… Degli avvertimenti venuti da quali profondità? (ibid., p. 47)

Da qualunque parte venisse, il richiamo aveva funzionato. Il sacerdote chiede di essere ammesso alle cerimonie che, la notte di ogni sabato, si svolgono nella casa di Din, un guaritore esperto in pratiche di controstregoneria. Din è un mota bwanga, un conoscitore e possessore di rimedi carichi di una potenza che supera i semplici farmaci; ma anche un nganga, un terapeuta tradizionale conoscitore dei comuni rimedi. I mota bwanga sono nemici degli stregoni: sia dei bato ba lemba (quelli che si procurano, spesso comprandoli, oggetti malefici e possono divenire invisibili), sia dei bato b’ewusu, quelli che hanno ricevuto per eredità il bisogno, per aumentare la propria forza, di divorare altri umani (detti anche stregoni dell’acqua, o del caimano: quelli che uccidono e divorano). Infine, i bato b’ekong portano via la componente invisibile, il doppio di altri umani, fino a farli morire, perché lavorino nelle loro piantagioni invisibili, e accumulare così ricchezze che non hanno, nel mondo ordinario, giustificazioni. I comuni mortali vedono le vittime ammalarsi, deperire e morire mentre vicino a loro altri prosperano e si arricchiscono senza ragione; gli iniziati invece vedono, come in pieno giorno, il traffico di uomini che c’è sotto. Ekong era, una volta, il nome di una associazione che riuniva commercianti, notabili e capi: era un gruppo di potere, certo, ma non aveva il carattere malefico, nascosto e odioso che ha invece oggi, dovuto forse, secondo l’autore, all’apparizione in quel contesto della carta moneta e del lavoro salariato.

Rosny comincia così a partecipare alle cerimonie nel corso delle quali Din si immerge in un’altra dimensione, lo ndimsi, non percepibile dai comuni mortali, dove stanno le intenzioni segrete e i disegni nascosti, e che bisogna frequentare per poter agire sulla salute, la malattia, la fortuna e la sfortuna dei singoli. È proprio in questa dimensione che gli stregoni catturano la forza della vita, il doppio degli altri, per sottometterli ai loro propri interessi; è quindi in questa dimensione che il controstregone, vero e proprio guerriero dell’invisibile, deve immergersi per combatterli. L’esecutore delle intenzioni degli stregoni è il nyungu («arcobaleno» in lingua duala), il serpente malefico che solo chi è dotato della doppia vista può vedere in azione anche nella vita ordinaria: si nasconde nelle case, gira in cerca delle sue vittime per mangiarne il cuore. Poiché è invisibile agli occhi ordinari, la sua presenza è svelata dai rumori strani che abitano la notte, o dall’improvviso schiamazzare dei polli e latrare dei cani. La mattina, se ne possono osservare le tracce sulla sabbia.

Vestito di rosso, una sciarpa alla vita, Din alterna nelle cerimonie notturne esibizioni davanti al pubblico (danze, canzoni, fachirismi), interventi diagnostici (sulla natura del problema, sulla sua causa soprannaturale), prescrizioni terapeutiche (sacrifici da fare, azioni da intraprendere) e lunghi periodi in cui, sdraiato e immobile dentro la stanza che racchiude i suoi oggetti di potere, lascia il corpo per accedere allo ndimsi, condurre le sue battaglie, prendere le necessarie informazioni.

A tutto questo il gesuita partecipa e tutto descrive, mano a mano che ha accesso a quella visione del mondo e a quel sistema originale e complesso di gestione del male, della sfortuna, delle disgrazie. Lì, il guaritore e soprattutto il controstregone svolgono un ruolo fondamentale, riordinando il disordine, regolando conflitti, aggressioni, risentimenti. Strada facendo, però, Rosny incontra problemi che non aveva previsto e registra anche in se stesso dei cambiamenti.

Intanto, coinvolto in alcuni processi di guarigione gestiti da Din, si trova costretto a prendere partito; e comunque viene percepito dall’ambiente come un suo alleato, vista l’assiduità della presenza al suo fianco. E forse, non solo un alleato, ma addirittura un allievo. E che allievo! Un bianco, un sacerdote, un insegnante al prestigioso Collegio Liberman, dove si formano al mondo dei bianchi (e, spesso, a lasciare quello degli antenati) i figli delle nuove élite camerunesi. Così, in un paio di occasioni, il ricercatore si trova in pericolo, circondato da una piccola folla minacciosa che lo teme come stregone, o esposto al sospetto di far parte di una confraternita dalle ambigue intenzioni, quando, con altri, si reca lontano, nella boscaglia, alla ricerca delle piante necessarie. Sperimenta così, sulla propria pelle, quanto sia difficile mantenersi sul filo di rasoio che separa guaritori e stregoni; equilibrio che solo una scelta esplicita di campo, mai però definitiva per gli altri, può consentire: esporsi, operando pubblicamente, appunto, come controstregone.

Poi, la relazione col suo maestro conosce dei momenti di crisi. Din, quando andava nella casa del gesuita, beveva l’acqua che gli veniva offerta solo dopo averci messo un piccolo oggetto, un oggetto di protezione, che poi riprendeva dal bicchiere vuoto. A volte, il maestro esprimeva il dubbio che l’allievo volesse carpire i suoi segreti per poi eliminarlo, e prenderne il posto. Dal canto suo, un mattino, il gesuita, alzandosi dal letto, era stato preso da vertigine, al punto da non riuscire ad attraversare la strada. D’improvviso, un pensiero inaspettato lo aveva attraversato: Din gli aveva forse somministrato un veleno? Il crescere di questa reciproca diffidenza andava di pari passo con la trasmissione sempre più approfondita da Din al gesuita del saper-fare del guaritore. Anzi: più il gesuita veniva accompagnato dentro quel sistema, più aumentavano gli equivoci, le diffidenze, le prese di distanza. C’era ovviamente una sola via per continuare quel lavoro, la via che Din aveva infatti un giorno proposto al sacerdote, in seguito alla sua ennesima richiesta di spiegazioni: se vuoi continuare a vedere quello che faccio, non ho niente da dirti, continua a guardare ed è tutto; ma se vuoi veramente vedere, allora dobbiamo fare una «convenzione». Davanti a questo ulteriore, impegnativo passo, il gesuita prende tempo per riflettere. Nel corso di un soggiorno a Parigi, chiede consiglio ad altri della sua confraternita e si espone ad alcune sedute di psicoanalisi di gruppo, che descrive nel suo libro. Le dinamiche che vive in quel contesto lo costringono a una implicazione personale, emotiva, diretta. Si rende conto, allora, che fino a quel punto aveva preso, a scuola dal controstregone, la posizione dello studente muto e riservato, seduto in un angolo, a distanza dal tavolo dove si giocava l’azione; e capisce che ci sono solo due modi per cambiare posizione: o mettersi dalla parte delle vittime, dei perseguitati, degli stregati e quindi subire un trattamento; o «farsi aprire gli occhi» per essere davvero, da allora in poi, insieme ai maestri della notte.

Nella cultura duala, infatti, gli umani dispongono di quattro occhi. Chiudono quelli visibili nel momento della morte, per aprire gli altri sul regno degli antenati. Ma alcuni nascono con i quattro occhi aperti. Ci si rende conto di questa anomalia quando, per esempio, un bambino vede passare furtivamente l’ombra di qualcuno che muore poco tempo dopo. Allora i familiari si affrettano a farglieli chiudere, a «trapassare» i due occhi aperti sull’invisibile con un idoneo trattamento, perché un bambino non ha la forza per sopportare simili rivelazioni. Quelli che sanno chiudere gli occhi sanno però anche come aprirli. Gli umani che così sommano le due visioni, quella dei vivi e quella dei morti, fanno da intermediari tra il mondo visibile e quello invisibile. Vedono le cose nascoste e quindi sono incaricati dal gruppo di intervenire per contrastare l’attività degli stregoni. È tra loro che si scelgono e si formano i controstregoni (cfr. Rosny 1981, pp. 313-14).

Il gesuita alla fine decide, e chiede a Din di aprirgli gli occhi; vuole passare la soglia. Si tratta quindi di chiarire le condizioni: stipulare la «convenzione». Il controstregone si rivolge così ai suoi altari, in presenza dell’allievo:

Gli chiederò cosa mi darà in cambio del mio insegnamento, quale grande gesto farà per me. Per aprire gli occhi, la tradizione vuole che si domandi un «animale senza peli sul corpo», e cioè una persona. Quando avrai ucciso questa persona, allora, ma allora soltanto, ti verrà messo qualcosa negli occhi, e comincerai a vedere la notte, a sapere tutto. Ma io rifiuto questa cosa. Non sono d’accordo con questa transazione. Non mi hanno insegnato le cose in questo modo. Siete voi, le piante e le erbe, che mi avete aperto gli occhi. Al posto della persona, si può portare una capra. (ibid., p. 336)

Il gesuita-antropologo offre allora la capra e descrive poi minuziosamente la sua iniziazione, che dura parecchie settimane, e i suoi stati d’animo mentre vi si inoltra, passo dopo passo, seguendo le indicazioni di Din. E, intanto, riflette sull’ambiguità degli uomini di potere, e quindi anche di Din, e, forse, anche sull’ambiguità della sua ricerca e della sua propria storia: ambiguità delle motivazioni, delle intenzioni. A questo punto, non può più procedere solo: chiede a un gruppo di confratelli di rendersi disponibili a un dialogo epistolare che lo sorregga. Nel corso della sua iniziazione, diventa molto sensibile ai conflitti, di qualsiasi natura, che hanno luogo attorno a lui; in occasioni precise, come si somministra un farmaco, Din gli versa delle gocce negli occhi. Un giorno, all’alba, c’è come uno scatto, un evento critico: di colpo «vede chiaro», percepisce nettamente e con freddezza la violenza che c’è nel mondo e vede, come sovrapposte per un effetto cinematografico, mille immagini di conflitti mondiali (cfr. Rosny 1981, p. 359). La prima facoltà che acquista come aspirante controstregone è dunque la percezione lucida e ferma degli atti di violenza che hanno luogo attorno a lui: diviene capace di guardare sotto le forme sociali, addomesticate, delle relazioni tra umani. Questa facoltà spiega la paura dei nuovi iniziati, e il loro isolamento.

La grande paura del futuro iniziato viene dall’anomalia della sua situazione sociale, anomalia che gli procura degli incubi. È un uomo solo. Sollevando il mantello della violenza, va controcorrente rispetto a tutte le tendenze della vita pubblica e a ritroso della sua educazione. Controstregone per definizione, sarà sempre sospettato di divenire il suo contrario, perché percepisce la violenza e gioca con essa. (ibid., p. 362)

Poco dopo aver «aperto gli occhi» al gesuita, Din, il suo iniziatore, muore. I sospetti inizialmente cadono sull’allievo, che avrebbe potuto volerne la morte per prenderne il posto; sospetti che motivano una serie di azioni di riparazione e conciliazione da parte di Rosny. In seguito, il gesuita è chiamato non solo a fare l’indovino (visto che gli avevano «aperto gli occhi») e il guaritore; ma addirittura a iniziare, ad «aprire gli occhi» a guaritori locali che avevano avuto una iniziazione incompleta. Tutte queste attività, così come il suo tentativo di aprire pubblicamente, anche sui media, il dibattito sulla stregoneria, lo coinvolgono profondamente e lo espongono a rischi e fraintendimenti. Come quando un articolo sulle sue attività comparso su «Paris-Match» col titolo Un padre gesuita divenuto stregone. È la rivincita degli dei africani!, induce la gerarchia ecclesiastica a chiedergli ragione della sua posizione (cfr. Rosny 1996, pp. 196 sgg.).

Oggi, è il patriarca Eric de Rosny Dibounje, dove dibounje sta per «germoglio». Così descrive il suo percorso:

Scendere dal germoglio al ceppo, come ho fatto io, andando contro la corrente della linfa, necessita per uno straniero decenni di radicamento. Vorrei approfittare dell’esperienza fatta e sempre in corso per cercare di far condividere la mia convinzione: là dove restano vive le radici della tradizione, il grande albero Africa, che venti contrari scuotono così pericolosamente, può piegarsi, ma non spezzarsi; o anche, avvampare, ma non bruciare: «il baobab non arde»! (Rosny 2003)

Lungo questa strada, il gesuita si è trovato costretto a riflettere anche sulle sue proprie radici.

Diversamente dal sistema della stregoneria che riesce a scartare provvisoriamente la minaccia del male, per la salvaguardia dell’unità del clan, il cristianesimo pretende di sopprimerlo radicalmente. Il progetto che si è realizzato nello stesso Gesù Cristo [prendere su di sé tutta la violenza del mondo, e con questo produrre un effetto liberatorio decisivo], è proposto nel tempo alla libertà di ciascuno. Una problematica tanto rivoluzionaria – se la si situa nella storia delle religioni – ha la sua influenza sul comportamento dei credenti nei confronti della violenza. Quando appartengono a famiglie cristiane secolari, ne sono impregnati a tal punto, e fino nel profondo del loro inconscio, da essere meno portati ad averne paura. Mi domando perfino se la società europea, che è stata per tanto tempo segnata dal cristianesimo, non debba ad esso almeno l’audacia di far scoppiare la violenza alla luce del giorno.

Mi rendo conto oggi che l’iniziazione attraverso la quale mi ha fatto passare Din non era la prima. Nel contesto della mia vita religiosa, avevo già seguito sotto la direzione di un maestro un percorso chiamato «esercizi spirituali», che è una forma di iniziazione. Per tre volte, nel corso di un mese, il novizio si impegna a seguire un percorso programmato, che lo porta a cambiare il suo sguardo. Impara delle tecniche di contemplazione e non gli sono risparmiate le visioni di violenza. Ma passati i primi giorni, molto presto la vita di Gesù gli è offerta come modello da guardare e imitare. È impregnato della certezza che il Cristo ha vinto la morte. Così avevo già, in un certo modo, aperti gli occhi sulla violenza, quando Din ha iniziato il suo trattamento. Né lui né io potevamo sapere, allora, che iniziavamo un lavoro di sovrimpressione, senza possibile coincidenza reale. (Rosny 1981, p. 363)

Senza possibile coincidenza reale… Certo, le modalità con cui si cerca di gestire il fondo oscuro dell’animo umano sono diverse nei vari gruppi. Tra la lotta frontale dei cristiani contro il male, perché sia finalmente estirpato dal cuore di ognuno e addirittura dal mondo intero, ricacciando Satana nelle tenebre, e la negoziazione attenta dei gruppi africani, sta la differenza che c’è tra il sogno prometeico e il paziente lavoro di umani che sanno i loro limiti e la loro posizione nel mondo.


1. «Con questo termine non designo la schiuma lussuosa di una civiltà, ma lo spirito molto particolare, inafferrabile, di un popolo. Ci sono forse altri modi per renderne conto se non attraverso gli oggetti che cadono sotto i nostri sensi?» (Rosny 1981, p. 30).

Il sangue e il potere

Da Memorie di una casa morta, di Fëdor Dostoevskij

Il sangue e il potere ubriacano: si sviluppano la durezza di cuore, la depravazione; all’intelligenza e al sentimento si fanno accessibili e infine riescono dolci le manifestazioni più anormali. L’uomo e il cittadino periscono nel tiranno per sempre, e il ritorno alla dignità umana, il pentimento, la rigenerazione divengono ormai quasi impossibili per lui. Inoltre l’esempio, la possibilità di siffatta licenza agisce anche su tutta la società contagiandola: un simile potere è tentatore.

Da «Gli otto peccati capitali della nostra civiltà», di Konrad Lorenz

La vita organica si è posta, come una strana diga, nel mezzo della corrente dissipatrice dell’energia universale: essa “divora” entropia negativa e cresce attirando a sé energia; man mano che cresce essa acquista la possibilità di accaparrarsi sempre più energia con un ritmo la cui velocità è direttamente proporzionale alla quantità assorbita. Se tali fenomeni non hanno ancora condotto al soffocamento e alla catastrofe, ciò è dovuto anzitutto al fatto che le forze impietose del mondo inorganico, le leggi della probabilità, mantengono entro certi limiti l’incremento degli esseri viventi; ma in secondo luogo anche al formarsi, nell’ambito delle diverse specie, di circuiti regolatori.


L’adattamento delle diverse specie viventi ha richiesto tempi che rispondono all’ordine delle ere geologiche, non a quelle della storia dell’uomo, e ha raggiunto uno stadio tanto ammirevole quanto delicato. Molti meccanismi regolatori proteggono tale equilibrio contro le inevitabili perturbazioni dovute a ragioni climatiche e di altro genere. Tutte le modificazioni che si instaurano lentamente, come quelle provocate dalla evoluzione della specie o da graduali alterazioni del clima, non costituiscono un pericolo per l’equilibrio di uno spazio vitale. Una modificazione improvvisa, invece, per quanto possa sembrare di scarso rilievo, può produrre effetti sbalorditivi e anche catastrofici. L’introduzione di una specie animale apparentemente del tutto innocua può provocare la letterale devastazione di ampie zone di terra, come è avvenuto in Australia in seguito al diffondersi dei conigli. In questo caso l’intervento nell’equilibrio di un biotopo è avvenuto per opera dell’uomo; gli stessi effetti sono tuttavia teoricamente possibili anche senza il suo intervento, sebbene si tratti di una eventualità più rara.


Basta confrontare con occhi spassionati il vecchio centro di una qualsiasi città tedesca con la sua periferia moderna, oppure quest’ultima, vera lebbra che rapidamente aggredisce le campagne circostanti, con i piccoli paesi ancora intatti. Si confronti poi il quadro istologico di un tessuto organico normale con quello di un tumore maligno, e si troveranno sorprendenti analogie! Se consideriamo obiettivamente queste differenze e le esprimiamo in forma numerica anziché estetica, constateremo che si tratta essenzialmente di una perdita di informazione.

La cellula neoplastica si distingue da quella normale principalmente per aver perduto l’informazione genetica necessaria a fare di essa un membro utile alla comunità di interessi rappresentata dal corpo. Essa si comporta perciò come un animale unicellulare o, meglio ancora, come una giovane cellula embrionale: è priva di strutture specifiche e si riproduce senza misura e senza ritegni, con la conseguenza che il tessuto tumorale si infiltra nei tessuti vicini ancora sani e li distrugge. Tra l’immagine della periferia urbana e quella del tumore esistono evidenti analogie: in entrambi i casi vi era uno spazio ancora sano in cui era stata realizzata una molteplicità di strutture molto diverse, anche se sottilmente differenziate tra loro e reciprocamente complementari, il cui saggio equilibrio poggiava su un bagaglio di informazioni raccolto nel corso di un lungo sviluppo storico; laddove nelle zone devastate dal tumore o dalla tecnologia moderna il quadro è dominato da un esiguo numero di strutture estremamente semplificate. Il panorama istologico delle cellule cancerogene, uniformi e poco strutturate, presenta una somiglianza disperante con la veduta aerea di un sobborgo moderno con le sue case standardizzate, frettolosamente disegnate in concorsi-lampo da architetti privi ormai di ogni cultura. Gli sviluppi di questa competizione dell’umanità con sé stessa esercitano sull’edilizia un effetto distruttivo.


La competizione fra gli uomini

Nel primo capitolo ho spiegato come e perché, nei sistemi viventi, la funzione dei circuiti regolatori, anzi, di quelli a retroazione negativa, sia indispensabile ai fini del mantenimento di uno stato costante; e inoltre come e perché la retroazione positiva, in un circuito, comporti sempre il pericolo di un aumento “a valanga” di un singolo effetto. Un caso specifico di retroazione positiva si verifica quando individui della stessa specie entrano in una competizione che, attraverso la selezione, ne influenza l’evoluzione. Al contrario della selezione causata da fattori ambientali estranei alla specie, la selezione intraspecifica modifica il patrimonio genetico della specie considerata attraverso alterazioni che non solo non favoriscono le prospettive di sopravvivenza della specie, ma, nella maggior parte dei casi, le ostacolano.

Un esempio già citato da Oskar Heinroth per illustrare le conseguenze della selezione intraspecifica è quello delle penne maestre del fagiano argo maschio. Durante la parata nuziale le penne vengono spiegate e dirette verso la femmina in atteggiamento analogo a quello del pavone quando fa la ruota con la parte superiore delle penne della coda. Per il pavone è stato dimostrato in modo sicuro che la scelta del compagno compete esclusivamente alla femmina, ed evidentemente lo stesso accade per l’argo; le prospettive di procreazione del maschio sono in pratica direttamente proporzionali alla forza di stimolo esercitata sulle femmine dalla sua livrea nuziale. Ma mentre le penne del pavone si ripiegano in uno strascico più o meno aerodinamico che non ostacola granché il volo, l’allungamento delle penne maestre dell’argo maschio rende questo animale quasi incapace di volare. Se tale inabilità non è diventata assoluta, ciò dipende certamente dalla selezione operata in senso opposto dai predatori terrestri che assicurano così il necessario effetto regolatore.

Il mio maestro Oskar Heinroth diceva, nel suo solito modo drastico: «Dopo lo sbatter d’ali del fagiano argo, il ritmo di lavoro dell’umanità moderna costituisce il più stupido prodotto della selezione intraspecifica». Al tempo in cui fu pronunciata, questa affermazione era decisamente profetica, ma oggi è una chiara esagerazione per difetto, un classico understatement. Per l’argo, come per molti altri animali con sviluppo analogo, le influenze ambientali impediscono che la specie proceda, per effetto della selezione intraspecifica, su strade evolutive mostruose e infine verso la catastrofe. Ma nessuna forza esercita un salutare effetto regolatore di questo tipo sullo sviluppo culturale dell’umanità; per sua sventura essa ha imparato a dominare tutte le potenze dell’ambiente estranee alla sua specie, e tuttavia sa così poco di sé stessa da trovarsi inerme in balìa delle conseguenze diaboliche della selezione intraspecifica. […]

La competizione fra uomo e uomo agisce, come nessun fattore biologico ha mai agito, in senso direttamente opposto a quella «potenza eternamente attiva, beneficamente creatrice»

La nascita del capitalismo – The birth of capitalism

Da Era necessario il capitalismo?, di Hosea Jaffe
[English original version below]

L’olocausto degli «indios»
e della loro civiltà
ad opera del capitalismo

La tesi che vuole far risalire la nascita del «capitalismo vero e proprio» alla «rivoluzione industriale» inglese tende a omettere quelle che sono le fondamenta reali del capitalismo stesso, ovvero l’ipersfruttamento e l’oppressione razzistica dei lavoratori coloniali, che per tanto tempo hanno costituito la maggioranza del «proletariato» globale (compresi i proletari contadini)1.

Diversi studiosi condividono la tesi di Silvio Serino secondo cui «le malattie introdotte dagli europei nel “nuovo mondo” furono il principale strumento attraverso cui si attuò il più grande genocidio della storia e si realizzò la conquista»2. Tra gli altri ricordiamo Alfred Crosby e David E. Stannard3. Ma Tzvetan Todorov, inter alia, considerava l’epidemia di vaiolo una causa secondaria del genocidio degli «indios» (chiamati così soltanto perché Colombo riteneva di aver raggiunto l’India), a confronto con la guerra di conquista spagnola e l’ipersfruttamento nelle miniere di argento e nelle piantagioni4.

In effetti il primo conquistador, Cortez, vessava non meno di cinquantamila «indios» nella sua piantagione principale. A quei tempi, ovvero all’inizio del XVI secolo, e fino al XX secolo, non esistevano in Europa gruppi di lavoratori altrettanto numerosi in una singola fabbrica o in una singola piantagione. Todorov scrisse che

[…] nel 1500 la popolazione globale era composta da circa 400 milioni di abitanti, 80 milioni dei quali risiedevano in America. Verso la fine del XVI secolo, di questi 80 milioni ne rimanevano 10. Limitando il nostro discorso al Messico, all’inizio della conquista la popolazione si aggirava intorno ai 25 milioni di abitanti; nel 1600 erano stati ridotti a un milione5.

Alcuni missionari spagnoli che giunsero in America a ridosso del periodo delle conquiste (tra il 1492 e il 1512), come Las Casas, testimoniarono che la causa principale dell’enorme numero di morti non furono tanto il vaiolo e altre epidemie, ma la crudeltà degli spagnoli in guerra, nello sfruttamento, nell’affamamento e nella tortura, il terrore cronico che veniva dall’essere confinati nelle miniere d’oro e d’argento, i suicidi di massa dovuti alla claustrofobia, le esecuzioni di massa, la cristianizzazione forzata, l’uccisione dei capi degli stati precolombiani, la distruzione degli edifici delle città-stato, delle case, dei templi, dei luoghi d’insegnamento, e la cancellazione dell’industria, dell’artigianato e delle arti locali6.

Las Casas era un domenicano che si opponeva al genocidio spagnolo degli «indios». Raccomandò a Carlo V, imperatore del sacro romano impero e re di Spagna, di esportare schiavi dall’Africa verso l’America spagnola e portoghese. Carlo V accettò il consiglio.

I resoconti di Las Casas sulle atrocità spagnole furono confermati da quelli di molti altri cattolici – Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés7, il quale fu testimone delle atrocità commesse tra il 1512 e il 1521 a danno dei lavoratori di Cortez, e Toribio da Benevento (conosciuto come Motolinia)8 – e forse soprattutto dalle testimonianze prive di pregiudizi razziali e intrise di sofferenza raccolte dal «meticcio» messicano Juan Bautista Pomar, che le diede alle stampe nel 15829. Secondo tutte queste fonti il genocidio sterminò il 90% della popolazione «india», e questa stima trova riscontro nelle ricerche condotte da studiosi inglesi e statunitensi in America centrale e meridionale nel XX e XXI secolo. Uno di questi studiosi, N.D. Cook, sosteneva – come Las Casas – che la principale causa di morte tra i nativi fu la violenza spagnola10: le malattie furono il colpo di grazia che mise al tappeto la popolazione dei nativi, già ridotta in condizioni miserrime dai soldati spagnoli, dalla fame forzata, dalle psicopatologie derivanti dal confinamento nelle miniere e nei ghetti urbani e rurali, dai quotidiani abusi razzistici, dalle torture e dall’ignobile distruzione e cancellazione degli ultimi residui delle grandi civiltà precolombiane degli Aztechi, dei Toltechi, dei Maya e degli Inca.

Nonostante gli scritti di Las Casas, Oviedo y Valdes, Motolinia e Pomar, redatti proprio durante il genocidio spagnolo (e quello portoghese, dopo che Cabral «scoprì» il Brasile, nel 1500, portato dai venti alle coste nord-orientali del Sudamerica mentre cercava di raggiungere l’India sud-orientale attraverso la circumnavigazione del Capo), a distanza di mezzo millennio gli «studiosi» eurocentrici del XX secolo, sulla base di una mentalità profondamente razzista, ridimensionavano di oltre il 60% l’entità del genocidio rispetto a quella originariamente e direttamente testimoniata. Tra questi figuravano Alfred Kroeber della «Berkeley School», il quale nel 1939 proclamò che in epoca precolombiana la popolazione «india» era composta da circa 8 milioni di persone, compresi i 3,2 milioni in Messico11, e Angel Rosenblat, che nel 1954 produsse una stima, riferita al 1500 d.C., di circa 13,4 milioni di persone in tutta l’America, inclusiva di 4,4 milioni di persone in Messico12. Ma nel 1971, in una pubblicazione della stessa «Berkeley School», S. Cook e W.W. Borah avevano stimato in oltre 200.000 persone la popolazione della sola Tenochtitlan (che secondo quelle stime era dunque più popolosa della Siviglia spagnola nello stesso periodo)13.

Il dato più realistico sul numero totale degli abitanti autoctoni del continente americano preolocausto fu stimato nel 1966 da Henry Dobyns: dai 100 ai 145 milioni14. L’archeologia moderna ha portato alla luce concentrazioni urbane piramidali negli stessi Stati Uniti. A quei tempi la Russia e l’Europa avevano una popolazione di circa 100 milioni di persone. Tutti i dati scientifici dimostrano che l’America precapitalista aveva un numero di abitanti equivalente a quello dell’Europa, dell’India e della Cina, e che la civilizzazione capitalista europea distrusse le civiltà native gettando sulle loro macerie e sui cadaveri di oltre 100 milioni di nativi le fondamenta americane del modo di produzione capitalista.

L’olocausto europeo degli «indios» nel XVI secolo, perpetrato fino alla fine del XIX secolo all’insegna della «conquista dell’ovest», fu reiterato nei Caraibi fin dal primo sbarco di Colombo su quelle terre, poi con il traffico di schiavi europeo attraverso l’Africa occidentale, poi a Zanji, nell’Africa orientale, con il primo viaggio verso l’India di Vasco Da Gama, pochi anni dopo il fatidico 1492, poi con la sanguinosa «scoperta», ad opera di Magellano, dei popoli del «comunismo primitivo» nell’Asia sud-orientale, poi ancora con la conquista dell’Indonesia da parte degli olandesi, quella dell’India e dell’Australia ad opera degli inglesi, e infine quella del Madagascar e dell’Indocina da parte dei francesi. Nell’era dell’imperialismo, «fase suprema del capitalismo», tale fu il costo umano di ciò che Marx definì eufemisticamente «la sanguinosa nascita del capitalismo».

Solo la quadrimillenaria civiltà cinese scampò a questo olocausto che si produsse nel corso di poco meno di un millennio, e ci riuscì soltanto fino alle guerre inglesi per l’oppio della metà del XIX secolo. Il genocidio causato dalla distruzione globale del comunismo primitivo ad opera del colonialismo capitalista fece 300 milioni di vittime, più o meno 100 milioni per ognuno dei continenti coinvolti: America, Africa e Asia. Nell’insieme, includendo i genocidi su scala tipicamente europea perpetrati dopo le conquiste a danno delle società, dei popoli e delle civiltà non europee, questa «accumulazione primitiva» affogò il «comunismo primitivo» nel suo stesso sangue attraverso il corrispettivo di un centinaio di olocausti nazisti.


1 A proposito della definizione di «capitalismo vero e proprio» [in italiano nel testo originale, ndt] si veda per esempio il pur eccellente lavoro del marxista anti-imperialista italiano Silvio Serino, L’uovo di Colombo e la gallina coloniale, Giovane talpa, Milano 2006, pp. 79, 90-91 (l’autore è morto prematuramente nell’aprile 2008).

2 Ibid., p. 139.

3 A. Crosby, Ecological Imperialism: The Biological Expansion of Europe, 900-1900, Cambridge 1986; D.E. Stannard, Olocausto Americano, Torino 2001.

4 Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, Torino 1984, 1992.

5 Ibid., pp. 161-162.

6 Bartolomé del Las Casas, Historia de las Indias, Fondo di Cultura Economica, Città del Messico 1951; Brevissima Relazione della distruzione delle Indie, Milano 1991.

7 Gonzalo Fernández de Oviedo y Valdés, Historia General y Natural de las Indias, Atlas, Madrid 1992 (parzialmente tradotto in italiano in Le scoperte di Cristoforo Colombo nei testi di Fernández de Oviedo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1990).

8 Toribio da Benevento (detto Motolinia), Historia de los Indios de la Nueva Espana, Porrua, Mexico 1973.

9 Juan Bautista Pomar, Relación de Texcoco, c. 1582, Colonial Records, Madrid.

10 N.D. Cook, Born to Die. Disease and New World Conquest, Cambridge 1998.

11 Alfred L. Kroeber, Cultural and Natural Areas of Native North Ameirca, Berkeley 1939.

12 Angel Rosenblat, La población indígena y el mestizaje en América, Buenos Aires 1954.

13 S. Cook and W.W. Borah, The Indian Population of Central Mexico, 1531-1610.

14 F. Henry Dobyns, Estimating Aboriginal Population, an Appraisal of Techniques with a New Hemispheric Estimate, «Current Anthropology», VII, 1966.


From Was capitalism necessary?, by Hosea Jaffe

The Holocaust of the «Indios»
and their Civilization by Capitalism

The defining and dating of «true and proper capitalism» as if it began from the classic English «industrial revolution» tends to omit the very basis of capitalism, namely the super-exploitation and racist oppression of the colonial workers, who have long been the majority of the global «proletariat» (including peasant proletarians)1.

Several scholars adhere to the thesis of Silvio Serino that «the diseases introduced by Europeans in the New World were the principal instrument for actuating the greatest genocide of history and for therefore realising the conquest»2. Among these were Alfred Crosby and David E. Stannard3. But Tzvetan Todorov, inter alia, considered the smallpox pandemia a secondary cause of the genocide of the «Indios» (so named solely because Columbus thought he had reached India) compared with the general Spanish military conquest and super-exploitation in silver mines and plantations4.

Indeed, the prime conquistador, Cortez, oppressed no fewer than 50,000 «Indios» on his major plantation. No such huge working class existed in Europe in that early 16th century in any single factory or farm, or, indeed, until the 20th century. Todorov wrote: «in 1500 the population of the world was in the order of 400 million inhabitants, 80 million of whom resided in America. Towards the end of the XVIth century, of these 80 millions there remained 10 millions. Limiting our discourse to Mexico, at the beginning of the conquest the population was about 25 million inhabitants; in 1600 they were reduced to 1 million»5.

Spanish missionaries like Las Casas, who were in America after the conquests of 1492 to 1512, wrote that the major cause of the massive death toll was not so much small-pox and other pandemics but the Spanish cruelty in warfare, exploitation, famine, torture, chronic terror-stricken fear of being confined in silver and gold mines, mass suicides based on socialised claustrophobia, mass executions, forced Christianization, the killing of the heads of the Aztec and other states, the razing of the city-state buildings, the burning of their houses, temples and places of learning, and the destruction of their industries, crafts and arts6.

Las Casas was a Domenican priest opposed to the Spanish genocide of the Indios. He suggested to the Holy Roman Spanish emperor Charles V to import slaves from Africa into Spanish-Portuguese America. Charles V accepted Las Casas’s policy.

Las Casas’s reports of Spanish atrocities were confirmed by Catholic scribes Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdes7, who witnessed the atrocities of 1512-21 against Cortez’s labourers; Toribio da Benevento (known as Motolinia)8 and, above all, perhaps, the racially-unprejudiced and long-suffering records of the conquered Mexican «meticcio», Juan Bautista Pomar, completed about 15829, all estimated the genocide to be 90% of the Indios population. This 90% holocaust has been confirmed by 20th and 21st century research in Central and South America by British and usa scholars. One of these, N.D. Cook, held (like Las Casas) that the major cause of death was Spanish violence10. As for disease, it was the «knock-out» blow which felled a native population reduced to near death by the Spanish soldiers, enforced famines, psychopatholigising confinement in mines and urban and plantation ghettos, daily racist abuse, torture, and the horrifying destruction and «disappearance» of the Great Aztec, Toltec, Mayan, Inca and other relics of pre-Columbian civilizations.

Despite the writings of Las Casas, Oviedo y Valdes, Motolinia and Pomar during the actual Spanish holocaust (and that of the Portuguese, after Cabral «discovered» Brazil in 1500, when driven by winds to the north-west coast of South America while en route to south-west India via the rounding of the Cape), Eurocentric «scholars» of the 20th century (half a millennium after that holocaust) carried out an entirely racist reduction of over 60% of the original actually observed holocaust. Among these were Alfred Kroeber of the «Berkeley School», who in 1999 claimed a pre-Columbian Indios population count of 8 million in North America, including 3.2 million in Mexico11, and Angel Rosenblat, who in 1954 manufactured figures for 1500 AD of only 13.4 million Indios for all America, including 4.4 million for Mexico12. But S. Cook and W.W. Borah, in a 1971 «Berkely» book, estimated the 1531 population only of Tenochtitlan to have been over 200,000, more than that of Seville, Spain13.

The actual pre-holocaust native population of all America was estimated by Henry Dobyns in 1966 to have been from 100 to 145 millions14. Modern archaeology reveals pyramidal urban concentrations in the present USA itself. At that time Russia and Europe had a population of about 100 million. All scientific indications prove that pre-capitalist America had a population equivalent to each of Europe, India and China, and that European capitalist civilization destroyed the native civilizations, and laid the American foundations of the capitalist mode of production on their ruins and the genocided bodies of over 100 million natives.

The European holocaust of the Indios, perpetrated in the 16th century and then continued right to the end of the 19th century (with the cry of «Go West»), was reproduced in the Caribbeans from the very first disembarkation of Columbus; then through Western Africa by the European slave traffic; then in Zanj, East Africa, since Vasco Da Gama’s first voyage to India a few years after the fateful 1492; then through Magellan’s bloody «discovery» of the populace of «primitive communism» in south-east Asia; thence onto and into the seizure of Indonesia by the Dutch, of India and Australia by the British, and finally of Madagascar and Indo-China by the French. On the very eve of imperialism, «the highest stage of capitalism», this was the human cost of what Marx modestly called «the bloody birth of capitalism».

Only the 4000-year old civilization of China escaped this semi-millennial holocaust, but then only until the British Opium Wars of the mid-19th century. The genocide of this global destruction of primitive communism by capitalist colonialism totals over 300 millions, 100 or more millions in each of America, Africa and Asia. All told, including post-conquest genocide on the typical European scale against non-European societies, peoples and civilizations, this «primitive accumulation» bloodily buried «primitive communism» in a hundred Nazi holocausts of Jews.


1 E.g., on «true and proper capitalism», see the even excellent work of the Italian Marxist anti-imperialist, Silvio Serino, L’Uovo di Colombo e la Gallina Coloniale, Milano, March 2006, pp. 79, 90, 91 (this day of writing – 16 January 2008 – I received the terribly sad news that Silvio is terminally ill from lung cancer.)

2 Ibid. p. 139.

3 A. Crosby, Ecological Imperialism: The Biological Expansion of Europe, 900-1900, Cambridge 1986; D.E. Stannard, Olocausto Americano, Torino, 2001.

4 Tzvetan Todorov, La Conquista dell’America, Torino, 1984, 1992.

5 Ibid. pp. 161-2.

6 Bartolomé del Las Casas, Historia de las Indias, Fondo di Cultura Economica, Mexico City, 1951; Brevissima Relazione della Distruzione della Indie, Milano, 1991.

7 Gonzalo Fernadez de Oviedo y Valdes, Historia General y Natural de las Indias, Madrid, Atlas 1992 (Italian partial translation: Le Scoperte di Cristoforo Colombo nel testi di Fernandez de Oviedo, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1990).

8 Toribio da Benevento (called «Motolinia»), Historia de los Indios de la Nueva Espana, Porrua, Mexico, 1973.

9 Juan Bautista Pomar, Relacio de Texcoco, c. 1582, Colonial Records, Madrid.

10 D.N. Cook, Born to Die, Disease and New World Conquest, Cambridge 1998.

11 Alfred L. Kroeber, Cultural and Natural Areas of Native North Ameirca, Berkeley, 1939.

12 Angel Rosenblat, La publacion indigine y el mestizaje en America, Buenos Aires, 1954.

13 S. Cok and W.W. Borah, The Indian Population of Central Mexico, 1531-1610.

14 F. Henry Dobyns, Estimating Aboriginal Population, An Appraisal of Techniques with a New Hemispheric Estimate, «Current Anthropology», VII, 1966.