Quando si è piccoli ci si pensa e ci si sente “il centro del mondo”, perché quando nasciamo non c’è identità, non c’è confine tra sé e mondo: siamo (già) stati “tutto”, nei nove mesi passati all’interno del corpo delle nostre madri, e l’identità e il confine cominciano a formarsi con la nascita e dopo la nascita lentamente, progressivamente, e se si formano troppo lentamente, crescere si accompagna al sentirsi sempre più eccessivamente responsabili di tutto, e si diventa insicuri di sé soprattutto perché il peso di questa sopravvalutazione rende ogni scelta molto complicata, col rischio del senso di colpa sempre in agguato in primo luogo rispetto ai propri rapporti più stretti (per esempio quello coi genitori, coi parenti, gli amici, gli insegnanti) e poi, in modo crescente, rispetto al “mondo intero”, man mano che veniamo a conoscerlo.
Come salvare “il mondo” e farne uno tanto migliore
Quando si considera qualsiasi conflitto, frizione, attrito, che sia passato o in divenire, tra due o più esseri umani, o tra due o più gruppi di esseri umani, quanto più indietro si va a cercarne “colpe” o responsabilità, tanto più difficile e poi impossibile diventa definirne.
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Da una chiacchierata tra Primo Moroni e Ivan Della Mea: la forza terribile del patriarcato
[Due brani da una lunga chiacchierata tra Primo Moroni e Ivan Della Mea, da una registrazione effettuata il 5 novembre 1993 da Ivan Della Mea]
Primo Moroni: Quella manifestazione del ’62 era proprio per Cuba.
Ivan Della Mea: Sì, esatto, la prima. Ci sono parecchi elementi, perché è stata la prima manifestazione in piazza Duomo delle tre confederazioni sindacali per la pace.
Primo Moroni: Poi, tempo dopo, c’è stato anche un comizio nostro, di comunisti, in piazza Santo Stefano, contro l’attacco americano alla Baia dei Porci a Cuba. Lì abbiamo lanciato il corteo e a tutti dicevamo «Noi il corteo lo facciamo lo stesso anche se non abbiamo l’autorizzazione». Ma all’altezza di via Tommaso Grossi…
Ivan Della Mea: È stato come infilarsi in un cul de sac. Tutte le volte che c’era una manifestazione e il corteo andava a infilarsi in Tommaso Grossi per sfondare in piazza della Scala a me venivano i brividi. È sempre stata una trappola.
“Tequila” mon amour

Sarà stato un annetto fa, una mattina mi alzo e vado a comprare bombolette spray nei colori bianco, rosso, grigio e nero. Sono i colori che mi servono per restaurare il murale “Corvetto antifascista” all’angolo tra Via Barzoni e Piazza Gabriele Rosa (“gabrirosa”), e quello “Abd El Salam vive nelle lotte”, che i VolksWriterz fecero ormai credo una decina di anni fa nel quartiere in cui abito da sempre, a Milano, coprendo con i colori originali dello sfondo le cinque o sei svastiche, di cui una a sfregio sul ritratto del volto di Abd El Salam, che qualche imbecille gli aveva fatto sopra ormai almeno mezz’anno prima; e così subito dopo faccio, in pieno giorno, verso le 11, perché valuto che sia una cosa troppo lunga perché il rischio sia minore facendola alle prime luci dell’alba, o di notte.
Il messaggio evangelico è mafioso, patriarcale e imperialista: ci vuole l’Internazionale socialista
Nonostante ci trovi anche alcune cose che mi piacciono, per quello che ne è arrivato a me dopo aver letto il solo vangelo secondo Matteo e qualche stralcio degli altri (che comunque sono letture che sono contento di aver fatto), trovo che il messaggio evangelico nel suo insieme sia del tutto antirivoluzionario, perché i vangeli “canonici” subordinano il “grande cambiamento”, il cambiamento rivoluzionario, al ritorno, “alla fine dei tempi”, di dio e di chi quel messaggio avrebbe espresso per conto suo siccome figlio suo, Gesù, compresi i tanti precetti al subire sempre le prepotenze.
Riassumendolo, quel messaggio è: “voi in vita dovete subire sempre le angherie degli egoisti e dei prepotenti, se volete meritare una condizione migliore dopo la morte e dopo l’apocalisse violentissima che solo io e il mì babbo, iddio, possiamo agire, e che agiremo a un certo punto (e poi di nuovo dovremo agire un’ultima volta dopo mille anni di regno comunque migliore), per mandare gli egoisti e i prepotenti all’inferno per sempre e perché voi possiate poi vivere per sempre in paradiso, al sicuro sotto la nostra protezione, in quella condizione migliore che solo subendo sempre, per parte vostra, le loro angherie in vita, potrete meritare; e quella condizione migliore sarà la totale sottomissione a noi e la beata contemplazione del nostro potere, che allora sarà assoluto ed eterno”.
Riassumendolo ulteriormente è: “continuate a subire e subite sempre dagli egoisti e dai prepotenti, perché solo questo vi renderà meritori della nostra benevolenza e della nostra protezione quando noi, che siamo gli unici che possono farlo, li sbaraglieremo una prima e una seconda volta e così conquisteremo il potere assoluto ed eterno”. Insomma, pur assomigliandoci tantissimo, è una logica peggio che mafiosa, e totalmente patriarcale, e totalmente imperialista, che non ha niente a che vedere con l’anarchia, almeno per come la penso io.
Non m’illudo potranno mai esserci pace e uguaglianza e libertà perfette, nemmeno dopo quell’Internazionale che dovremmo fare per salvare noi e le generazioni future della nostra e di tante altre specie dai dolori dell’estinzione o di una decimazione di entità mai vista prima, ma penso sarebbe, dopo un po’ di assestamento… abbastanza buona :)
Racconto ottimista
Un aereo di medie dimensioni, con a bordo una trentina di persone, ha un’avaria. Il pilota riesce a fare un atterraggio di emergenza in un deserto, si salvano tutti. Ci sono un po’ d’acqua e di cibo sull’aereo, e un po’ ne hanno con sé alcuni dei passeggeri. Parlando tra loro realizzano ben presto che il cibo che hanno nell’insieme, se lo spartissero equamente, basterebbe per tutti sia per aspettare i soccorsi, che arriveranno tra tre giorni, sia per arrivare al centro abitato e rifornito più vicino; ma l’acqua, anche se la dessero tutta a uno solo tra loro, non gli basterebbe per arrivare al paesino, e per restare vivi fino all’arrivo dei soccorsi basterebbe solo se la spartissero tutta tra una decina di persone al massimo, e le altre accettassero di non berne e quindi di morire prima. Il pilota ha una pistola e cento pallottole. Gino, che ha novant’anni, dice: «Facciamo così: l’acqua la spartiscono equamente tra loro le dieci persone più giovani, e ciascuna delle altre venti si spara in testa». Alla fine, dopo un po’ di discussione, fanno così.
Citazioni da «La vita inaspettata» di Telmo Pievani, e una piccola critica
Da La vita inaspettata,
di Telmo Pievani
Oggi su quegli altri quattro quinti della storia della vita sappiamo molto di più. Ma il messaggio che ci restituisce il tempo profondo è spiazzante, perché scopriamo anzitutto che l’evoluzione nelle sue prime fasi ha probabilmente preferito molto più l’associazione della competizione.
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L’ultimo capitolo di “L’alba di tutto” di Graeber e Wengrow
— English version here —
Da L’alba di tutto, di David Graeber e David Wengrow
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Conclusione
L’alba di ogni cosa
Questo libro è iniziato con un appello a porre domande più efficaci. Abbiamo cominciato osservando che indagare sulle origini della disuguaglianza significa necessariamente creare un mito, una caduta in disgrazia, una trasposizione dei primi capitoli della Genesi, che nelle versioni contemporanee prende la forma di una narrazione mitica, spogliata di qualunque prospettiva di redenzione. In questi resoconti, il massimo che noi esseri umani possiamo augurarci è qualche piccolo miglioramento della nostra condizione intrinsecamente squallida e, si spera, un’azione drastica per impedire qualsiasi imminente disastro assoluto. L’unica altra teoria disponibile finora è l’ipotesi che la disuguaglianza non abbia origini, perché gli esseri umani sono, per natura, creature aggressive e i nostri esordi furono infelici e violenti; nel qual caso il «progresso» o la «civiltà», stimolati in gran parte dalla nostra indole egoista e competitiva, furono essi stessi capaci di redenzione. Questa idea gode dell’approvazione dei miliardari, ma non convince nessun altro, compresi gli scienziati, consapevoli che non rispecchia i fatti.
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Le specie non sono reali
Da La concezione anarchica del vivente,
di Jean-Jacques Kupiec (Elèuthera, 2021),
introduzione al capitolo quarto
Il darwinismo e la genetica insieme formano il quadro teorico della biologia moderna che si è deciso di chiamare «teoria sintetica dell’evoluzione» o «neodarwinismo»1. Queste due teorie sono solitamente ritenute complementari al punto che opporsi a una vorrebbe dire opporsi anche all’altra. Può quindi sembrare paradossale criticare la genetica e al tempo stesso puntare i riflettori sulla teoria di Darwin. Ma non dimentichiamo che storicamente la loro sintesi è stata difficile. C’è voluto quasi un secolo per appianare alcune importanti divergenze2. Lungi dall’essere la teoria cristallina che si pensa, questa teoria sintetica nasconde una contrapposizione di fondo. Il darwinismo e la genetica si concentrano su aspetti diversi del vivente, o meglio su aspetti fra loro contraddittori. Darwin si interessa all’evoluzione e quindi alla variazione dei caratteri che ne costituisce il substrato, mentre la genetica cerca di spiegare la trasmissione intergenerazionale dei caratteri, cosa che all’opposto presuppone la conservazione degli stessi. Quando si è compiuta la sintesi fra le due, è andato perduto l’aspetto più radicale e innovativo del pensiero darwiniano. Mentre Darwin aveva rotto con i naturalisti che l’avevano preceduto, considerando la variazione come la proprietà primaria del vivente, la genetica ha riportato in auge l’invarianza.
Per cogliere fino a che punto il darwinismo è stato snaturato bisogna tornare alla genesi della teoria dell’evoluzione. La teoria della selezione naturale non è semplicemente il risultato di un accumulo di osservazioni che apportano prove empiriche a partire dalle quali la deduzione della teoria è obbligata. Essa è anche il compimento di una rivoluzione ontologica che tocca la questione della specie. Si tratta di un problema filosofico molto antico le cui implicazioni per la scienza sono critiche. Il termine «specie» indica gruppi di individui che si assomigliano, ma qual è lo statuto di questi raggruppamenti? Sono oggettivi o soggettivi? Le specie indicano classi reali esistenti indipendentemente dalla soggettività dei classificatori? A seconda della risposta data a questa questione concepiamo il mondo in maniera differente. Se le specie sono reali, esiste un ordine oggettivo corrispondente a queste specie. Se sono soggettive, cioè se sono solo raggruppamenti arbitrari che dipendono dal nostro potere di discernimento o comunque da criteri di nostra scelta, l’ordine che percepiamo non è reale. È relativo alla nostra percezione e alla nostra capacità cognitiva. I filosofi e i naturalisti hanno sostenuto due categorie di risposte. Le specie sono reali per i «realisti», ovvero indipendenti dalla nostra soggettività. Mentre per i «nominalisti» le specie non sono reali, ma sono costruzioni arbitrarie elaborate dagli umani3.
In questo capitolo riesamineremo la teoria sintetica. L’analisi mostrerà che è necessario dissociare darwinismo e genetica. In un primo tempo verrà esaminata la rottura che Darwin ha operato rispetto ai suoi predecessori. Vedremo che il fatto di non riuscire a sbarazzarsi dell’idea di un ordine naturale è ciò che ha impedito loro di formulare una teoria dell’evoluzione compiuta. Tale ordine corrisponde, in ultima analisi, alla messa in atto del disegno divino, che induce alla creazione di specie fisse nella loro essenza e nelle relazioni fra loro. All’opposto, Darwin ha confutato il realismo della specie e si è fatto carico di un nominalismo che riconosce la variazione come il principio primo del vivente. In virtù di questo fatto, il vivente è, a suo parere, un flusso continuo che fa variare gli esseri all’infinito, annichilendo ogni possibilità di instaurare un ordine naturale. Le ontologie antagoniste di darwinismo e genetica non sono mai state riconciliate nella loro cosiddetta sintesi. Predomina l’una o l’altra a seconda delle circostanze, degli ambiti di studio o degli autori. Nel caso dell’ontogenesi si è imposta l’ontologia della genetica con il suo corollario: un rigido determinismo. Ed è appunto questo il motivo per cui è importante capire questa storia: per dissociare il darwinismo dalla genetica e dissolvere così l’illusione di ordine che tale associazione fa perdurare.
1. Queste due espressioni non sono esattamente sinonimi. «Neodarwinismo» indica la reinterpretazione del lavoro di Darwin compiuta nel XIX secolo da alcuni precursori della genetica, soprattutto Weismann, mentre «teoria sintetica dell’evoluzione» indica la sintesi che ha fatto il suo esordio nella prima metà del XX secolo integrando dapprima darwinismo e genetica delle popolazioni e poi anche altre discipline fra cui la biologia molecolare. Oggi, però, le due espressioni sono spesso utilizzate come sinonimi in senso lato.
2. Peter J. Bowler, The Eclipse of Darwinism, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1983; Jean Gayon, Darwinism’s Struggle For Survival, Cambridge University Press, Cambridge (UK), 2007.
3. Il termine «realista» deriva dalla disputa sugli universali. È quasi sinonimo del termine «essenzialista», inventato nel XX secolo.
Come fecero le forme di organizzazione verticistiche a vedere la luce?
Dall’ultimo capitolo di L’alba di tutto,
di David Graeber e David Wengrow
Se c’è un racconto particolare da narrare, una grande domanda da porre sulla storia dell’umanità (al posto del quesito sulle «origini della disuguaglianza sociale»), è proprio questa: come siamo rimasti bloccati in un’unica forma di realtà sociale, e come sono riuscite le relazioni basate sulla violenza e sulla dominazione a normalizzarsi al suo interno?
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